Burattini in libreria

Visualizza tutte le foto | Gli Svergognati | Rosanna

Incomincerà il 9 ottobre “Io burattino”, laboratorio di costruzione di burattini per bambini dai 5 anni in su organizzato dalla e presso la libreria Ubik di Foggia. Protagonista principale: Rosanna Giampaolo. Spetterà a lei il complesso e paziente ruolo di fare da “maestra” ai partecipanti. Foggiana, artista, docente contrattista presso l’Accademia delle Belle Arti di Teatro di Figura, dodici lunghi anni di lavoro alle spalle, Rosanna straborda di colore come i suoi quadri. Una passione con genesi lontana, quella per i burattini e le creature animabili. Ma che, nel corso del tempo, è rimasta identica. Rosanna, che di parole per spiegare ne usa poche, a Stato, la sintetizza così: “Riflettendoci ho capito col tempo che le mie passioni o carismi erano legati da un filo rosso molto evidente. Disegnare, in particolare delle storie, cartoni animati e dedicarsi al Teatro di Figura ha una matrice comune nel desiderio di dar vita alle proprie creazioni. Non mute rappresentazioni ma creature in grado di muoversi e compiere azioni”. Movimento dunque, vita in azione. Contaminazione fanciullesche come capo del filo di lana colorata che è la vita della Giampaolo. Nei suoi ricordi e tra le sue ispirazioni, l’influsso positivo della televisione, quella che, a detta dei più e per riscontro evidente, latita sommersa sotto cumuli di barbarie, servilismo, violenza e stupidità. “Ho riempito – spiega a Stato – i miei avidi occhi di bambina di cartoni animati”. E, come quelli hanno suscitato le sue emozioni, i “suoi” burattini solleveranno quelle di altri occhi avidi. Tanti occhi. Il laboratorio del mese incombente, infatti, è ormai al completo. Un successone di adesioni che ha costretto gli organizzatori a mettere in cantiere il bis per l’anno venturo e fatto la gioia di Rosanna. Lei che crede che il riscatto di una città ormai in frantumi passi proprio per i bambini, per la creatività, per la cultura. Lei che, a vedere le sue tele, scopre colore laddove ci sono mattoni, scie di moto dove c’è l’immobile. “Io non ho voglia di scappare da questa città e non le butto dell’inutile fango sopra”. Coraggio. Certo non è questo che manca a Rosanna. Voglia di sfidare i luoghi comuni: il paradigmare monotono della crisi, il rullare continuo dei soldi che non ci sono, la mancanza di stimoli in una terra che, d’altro canto, di spunti ne darebbe anche tanti.

Tanto che il suo orizzonte più prossimo è il futuro. Al momento, l’enorme tavolo di multistrato rosso incatastato sotto una marea di materiale nel suo studio nel centro del capoluogo dauno, è sede di due progetti: il primo, l’illustrazione de “Alice nel Paese delle Meraviglie” per la Lisciani Giochi editrice; il secondo, l’abbellimento del nuovo libro della Gema edizioni “Terre foggiane – silenzi e suoni”.

Ma è dal primo dei due che Rosanna è innamorata. “Alice – racconta – è il mio quarto libro illustrato per la collana i grandi classici della Lisciani per la quale sono al quarto anno di collaborazione”. Un’impresa tutt’altro che semplice. L’uscita del film di Tim Burton ha concorso, in parte per lo meno, a modificare l’immaginario attorno al romanzo di Carrol. Il Brucaliffo e soci hanno assunto connotati diversi rispetto a quelli comuni, forse mentalmente riconducibili all’animazione della Disney. Frutto normale dell’evoluzione, dei tempi che cambiano, dei gusti che tendono al rinnovamento. “Per me il paese delle meraviglie fu tutto un’avventura piena di straordinarietà e positività”. Sovvertimento dell’ordine nuovo, ripristino dell’equilibrio positivo. Ad anche l’Alice di Rosanna sarà non una emo sgangherata, contrita in vestiti stretti, ma “luminosa e serena”. “Non – chiosa – una bambina gotica immersa in un ambiente decadente, ma quasi una piccola peste curiosa e attiva, praticamente io all’età di Alice”.

Di quella bambina è rimasto molto, dentro e fuori di lei. Una mente che scopre, due occhi grandi che scorgono al di là del concreto, una capacità di astrarre senza forzare la mano, di proiettare in una tela sogni, speranze e gioia. Fiori, lune, gatti e tetti, pietre, figure di vecchi nonni. Volo, soprattutto, tanto volo. Spazi liberi e non claustrofobici, turbinanti di vita. Quel che non c’è e dovrebbe essere. Quel che non è e lei vede. Quel che Rosanna Giampaolo è. Una contaminazione, un’allergia positiva che Foggia sta prendendo.

La legge di Omar parte seconda… La recensione

Diciamolo: Omar Di Monopoli è un genio. Con quella fissa per Faulkner, quell’aria trasandata, quella sua scrittura barocca più prolifica di un dizionario di sinonimi e contrari. Per chi ha letto “Uomini e cani” ed ha pensato ad una meteora. Per chi ha spolpato “Ferro e fuoco” ed ha ritenuto che, in fondo in fondo, anche Paganini, una volta sola, nella sua vita, si sarà pur ripetuto. Per tutti loro, “La legge di Fonzi” è la risposta più pura, netta e fottutamente sporca che ci potesse essere. Il nuovo libro del trentanovenne autore di Manduria ha chiuso la trilogia western partita quattro anni fa. “Orecchiette western”, si potrebbero tutti definire. Con la sua scrittura di genere, Omar Di Monopoli non ha (gioco di parole più che voluto) inventato un genere. L’ha semplicemente applicato all’unica entità geografica italiana dove indiani e cow boy non sfigurerebbero: la Puglia.

Questa volta torna in Salento, in un piccolo paese tanto inventato quanto possibile: Monte Svevo. Per stessa ammissione dell’autore, “epitome di tutti i paeselli invisibili” che puntellano la regione. E lo popola di un’antropologia rustica, esacerbandone i vizi fino, talora, a ridicolizzarli, a fumettizzarli. I protagonisti de “La legge di Fonzi” sono la copia fotostatica di quello cui i pugliesi anelano e che non possono essere, sputata concretizzazione di una morfologia affermatasi come antonomasia.

Un po’ “Aspettando Godot”, un po’ “Mezzogiorno di fuoco”, è “La legge di Fonzi”. Sullo sfondo di una Puglia a colori si srotola la vicenda di un paese in cui è atteso il ritorno di Nando Pentecoste, alias Manicomio, ex boss della Sacra Corona Unita. Con sé, Manicomio ha portato via, in prigione, tutti i segreti di una comunità collusa fino al midollo con la malavita, che sul malaffare ha incentrato potere e (quel poco) di ricchezza ma che altro non è che una sommatoria arida di omuncoli. Tutti, adesso, intenti ad aspettarlo. Una cricca di disonesti, gretti, ignoranti, spietati prosecutori di una mentalità retrograda. Di Monopoli ne fa degli emblemi, li erge ad esempi. Crea attorno a loro e su di loro una simbologia ricorrente: lo sfasciacarrozze, il ladruncolo, i bulli di paese, il boss ed il suo codazzo, l’ingegnere, la “maciara”, la gioventù spenta ed arresa, i politici corrotti, il prete di paese. L’autore ci gioca, li plasma, li muove. Li rende umani e spietati a suo piacimento, gli dà vizi (tanti) e virtù (poche, pochissime, quasi nessuna). Ma sfugge, Di Monopoli, alla retorica della speranza. Le sue creature non ne hanno. Se sbagliano non hanno possibilità di redenzione. È il sistema che non lo permette. E, per conto suo, lui, l’autore, resiste alla tentazione di disegnare per ognuna di loro una via di fuga; e non le illude circondandole di un ambiente più amichevole. Al contrario, sono sospese in un contesto ostico, di perenne controra. I richiami sono quelli della letteratura di genere del Sud degli Stati Uniti, vero. Ma è impossibile non ravvisare traccia dell’avversità contestuale dei luoghi di Garcia Marquez. Il caldo permanente, il frullare dello scirocco che spazza e brucia e affanna gli uomini come formiche caotiche al di sotto di un’enorme lente impugnata da Dio. C’è tutta l’afa dell’estate salentina, nelle pagine di Omar Di Monopoli, la cattiveria rabbiosa di un calore senza uscita. C’è il Salento crudo, il Salento altro, il Salento dialetto e pistole. Quello dove non si balla e non si canta. Quello dove non si beve vino per frullare ancor più vorticosamente al ritmo di una consunta pizzica, dove non si contano i giorni di mare, ma quelli che mancano acchè si plachi la bocca infuocata della stagione secca. Il Salento western. Dove però non ci sono i buoni che arrivano a salvare gli assediati, ma solo tanti, tanti cattivi. Ulivi in vece dei cactus, bar in vece dei saloon, biliardo in vece di poker, muretti a secco in vece delle staccionate dei ranch, pecore e cani in vece di bufali e cavalli.

Da leggere. Tutto insieme, tutto d’un fiato. E da consigliare a tutti, regalare, far girare.

La recensione, con altre e con i libri consigliati, di settimana in settimana da me e dalla libreria Ubik, la potete leggere anche su http://www.statoquotidiano.it/25/09/2010/macondo-la-citta-dei-libri/34920/

Meno male che Silvio c’è. Ovvero storia di giornali e slot machine

Per gettare nel tritacarne il suo più acerrimo nemico che, ironia della sorte, è stato anche il suo più acerrimo amico – vale a dire l’eterno delfino, Camerata Gianfranco Fini – Silvietto l’ha fatta proprio grossa. Ha fatto creare ad hoc, con la complicità del governo amico di Santa Lucia, una sperduta isola tropicale affondata nel mezzo dell’Oceano Pacifico, un documento in cui, di fatto, veniva dimostrato che la casa in questione appartiene all’altro Gianfranco. Tulliani, per la precisione, fratello della compagna del ras bolognese. Roba da sganasciarsi dalle risate. Anche nel rompersi i maroni l’un con l’altro, a sinistra siamo dei dilettanti in confronto alla guerriglia delle carte bollate internazionali. Già, perchè mica è tutto. Per far ciò, il satrapo di Arcore si è attorniato dei suoi ciambellani obbedienti. Approfittando della sua posizione politica, ha fatto leva su Guardia di Finanza e Servizi Segreti; mentre, vestendo i panni (stretti per tutti quanti di statura normale) di editore, ha mandato emissari gentili di Panorama e Il Giornale. Subito supportato da Libero. ma è qui che nasce il capolavoro silviotico. Per esser sicuro della riuscita dell’impresa su Santa Lucia (provate a pronunciarne il nome senza sbagliare, avanti!), ha fatto ricorso alla spalla forte di un suo stesso parlamentare, l’ex an Amedeo Laboccetta. Un personaggio strano ed inquietante. Insieme, membro della commissione antimafia e sordido processato, indagato a napoli per turbativa d’asta ed associazione a delinquere, acceso sostenitore dell’epurazione anti – Fini la cui componente ha definito “stalinista” (termine su cui ci sarebbe molto ma molto da eccepire). Come sia o come non sia, quest’omuncolo è entrato nel proscenio berlusconiano grazie all’amicizia che lo lega con Francesco Corallo, conoscitore e Deus ex machina delle cose caraibiche.

Amedeo Laboccetta

Per raccontare la storia di Corallo, prendo in prestito le parole di Giuseppe D’Avanzo: “Figlio di Gaetano, detto Tanino, latitante catanese legato al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola (4 ergastoli), Francesco Corallo è nei Caraibi l’imperatore di Saint Maarten, dove gestisce con attività collegate a Santo Domingo alberghi, un giornale, quattro casinò con l’Atlantis World, multinazionale off-shore, partner dei nostri Monopoli di Stato nel business (complessivamente 4 miliardi di euro) delle slot machines ufficiali”. Una cosa grossa, insomma. Mica fuffa. Come siano finiti nelle mani del figlio di un plurinquisito residente ai caraibi (e quindi una buona gamma di segreti da celare e soldi da riciclare) gli affari delle slot machine di Stato, è spiegabile soltanto con la buon vecchia filosofia dello stalliere a casa Berlusconi. Vale a dire, un eroismo di facciata frutto della sfida allo Stato.

Appresso. Una volta ottenute le informazioni, i missi berluschini le girano in Italia al peggior scribacchino del web, Roberto D’Agostino, fautore e responsabile di quell’obbrobrio chiamato “dagospia”. E’ la mossa che deve mettere a riparo i giornali del premier per l’attacco forte. L’avanguardia. Il Giornale e Libero pubblicano la notizia riprendendola da Dagospia. Che, a sua volta, dichiara di averla, chissà come, pescata in qualche recondito angolo della rete, in un giornale di Santa Lucia (?!?). Il cane si è morso la coda. nessun colpevole, insomma. Delitto perfetto.

Peccato che il cav non abbia fatto i conti, in questo gioco, con la realtà. Le carte sono palesemente false. Tempo un giorno e il muro di gomma erto dall’oscillante governo caraibico viene a cadere. A “Il Fatto quotidiano”, fa spallucce come una marachella e solenizza: “Non siamo stati noi”. Tutto un gioco: c’amo provato, no? Non siamo in democrazia, in fondo?

Ubik Foggia, 22.09.2010: LA LEGGE DI OMAR

Omar Di Monopoli

La scrittura come impegno. “È impossibile scrivere dal Sud e non fare, anche involontariamente, un atto politico”. Omar Di Monopoli ha 39 anni, una decina dei quali spesi al di sotto delle torri bolognesi, altri vissuti da ramingo per mestiere. E scrive. Scrive di Sud. Omar Di Monopoli, autore de “La legge di Fonzi”, – atto finale di una trilogia iniziata, quattro anni fa, con “Uomini e cani” e proseguita con “Ferro e fuoco” -, è uno dei talenti emergenti della letteratura nazionale. Tre fatiche all’attivo, dunque, edite dalla ISBN, appendice giovanile de Il Saggiatore. Una quarta in preparazione. Anzi, già pronta, come rileva nell’intervista rilasciata in esclusiva a Stato Quotidiano appena prima che iniziasse la presentazione del suo testo presso la Ubik di Foggia. Un libro intessuto con le fibre colorate ma ruvide della Puglia salentina. Meglio, quella “che non rientra nelle brochure delle pro loco e delle Apt”. E che, confida, qualche contestazione gliel’ha anche provocata. Un libro che ripercorre le orme dei suoi grandi maestri della letteratura e del cinema e riannoda le tematiche già dipanate sin dagli esordi della sua carriera letteraria. Un libro “esaltante”, l’ha definito il critico letterario e gestore della libreria foggiana, Michele Trecca. “Di critica sociale, impegnato” l’ha lodato il referente provinciale di Libera, Mimmo Di Gioia.

Una pletora di apprezzamenti anche del pubblico. Unanime. E sì che Omar è uno scrittore che non ama essere blandito e non blandisce. Duro nel tramare al limite dello splatter, ricercato nello scrivere alla soglia del cesellamento. In fondo, chiede e si chiede, “chi ha detto che la letteratura di genere debba servirsi di quelle poche parole che la caratterizzano?” Si, perché il suo narrare è limpido ed insieme complesso. Ossimorico come i suoi personaggi. Poveri, antieroi, cattivissimi, teneri, goffi, senza scrupoli. Manipoli di casi umani che muove a suo piacere a con i quali Omar si diverte a giocare, con esiti e tocchi di imprevedibilità. Prendete Giovanni Fonzi Pentescoste, uno dei protagonisti del libro, che mutua il nome da “quello omonimo dei telefilm che non si lasciava toccare i capelli”. Bene e male concentrati in un testo, sapientemente miscelati da quelle mani che, parlando, stringono tra le dita un sigaro spento. Con quell’aria svogliata e cordiale, Omar di Monopoli attira l’attenzione del pubblico forgiando retroscena e discutendo di episodi di quotidiana illegalità. Alla conterranea brindisina, ricorda i tic di quella terra illusa di aver battuto la Sacra Corona Unita. La menziona più d’una volta quella diabolica e luttuosa locuzione. “La mafia – ripete quasi ossessivamente – non è morta si è solamente trasformata”. Il dibattito diventa un seminario di legalità, laboratorio di idee di giustizia. Foggia a Di Monopoli non riserva polemiche, tributa allegria, sconforto, applausi; confida finanche le paure, racconta i vizi comunitari. E sì che pure, giura, non ha mai voluto porsi alla stregua di un giudice. Tantomeno di giornalista. Pur riconoscendo “l’opportunità forse vigliacca ma efficace di denunciare e raccontare senza dover necessariamente fare nomi”. Tira anche in mezzo Roberto Saviano, ma per nettare i dovuti distinguo. “Lui ha localizzato la sua storia, scelto un posto, fatto nomi. La sua vocazione è giornalistica. Io ho inventato un paese, Monte Svevo, in cui concentrare tutti i mali”; Monte Svevo come “l’epitome delle tante città invisibili della Puglia, chiuse in un cono d’ombra”. Al nome dell’autore di “Gomorra” non viene regalato il tripudio di mani che ci si attendeva. Il discorso scorre via liscio. Conversazione in Puglia, per parafrasare un noto libro di Elio Vittorini. Meglio ancora, conversazione sulla Puglia. Le magagne irrispettose che hanno e stanno stuprando Salento e Gargano. Nel contempo le più sponsorizzate e maltrattate sub regioni dello sperone italico. Golose mete di turisti imbecilliti dalla sbornia di pizzica e di vini di produzione locale. Nel discorso, come in un tritacarne, finiscono gli amministratori locali e quelli nazionali, identici responsabili di uno scempio tanto inspiegabile quanto ignorato. Di Monopoli parla tanto. Ed ascolta ancor di più. Sorride. E chiosa: “Tocca a noi artisti ormai, farci carico di mettere in risalto le contraddizioni delle terre dove operiamo. D’altronde, di queste contraddizioni, noi siamo il prodotto”.

Omar Di Monopoli, LA LEGGE DI FONZI, isbn, 2010

INTERVISTA UBIKKIANA. OVVERO, COSE CI SI DICE SUL ROSSO DIVANO DI MICHELE TRECCA

È reduce da un’estate trascorsa in giro per la Puglia. Indefessamente, per far conoscere il suo terzo lavoro. “La legge di Fonzi” in qualche modo chiude un capitolo della sua carriera di scrittore. Il primo capitolo, quello senza il quale, tutto il resto permarrebbe nell’oscurità. Qualcuno l’ha chiamata “trilogia della criminalità”, qualcun altro “trilogia western”. Di sicuro c’è che “Uomini e cani”, “Ferro e fuoco” e il testo presentato a Foggia, hanno avuto il merito di averlo introdotto, e dalla porta principale, nella hole della letteratura nazionale. L’IBSN, costola in sol minore de Il Saggiatore, ha già opzionato l’edizione del suo quarto romanzo. Anche se, al momento, non ci sono ancora certezze assolute.

Ma il lavoro è già cominciato?

In verità è già concluso. E da tempo.

Ah…

Ebbene si. Il quarto in realtà è come fosse il primo. Anzi, per la precisione, l’ho scritto prima di metter mano alla trilogia. Avrei dovuto pubblicarlo da tempo, poi non se ne fece nulla.

Come mai?

Nessun problema in particolare. Una valutazione di opportunità. A differenza dei miei tre romanzi editi, questo quarto non ha la terza persona onnisciente, ma è narrato in prima persona. E la prospettiva di osservazione è quella di un bambino decenne. Sfortuna volle che, quel mio lavoro, coincise, temporalmente, con l’uscita di “Io non ho paura”. Ed allora scelsi di accantonare il progetto per tempi migliori

Che fa Omar Di Monopoli, un passo letterario in avanti?

I temi sono sempre quelli, in verità. Lo sfondo è la Puglia rurale degli anni Ottanta in cui ci si oppone all’insediamento delle centrali nucleari. Cambia soltanto il punto di vista. C’è un’ottica più intimista.

Senti Omar, ma non sarà che con il tuo punto di vista così dissacrante sulla Puglia mi fai incazzare qualcuno?

Sono tre anni che mi batto contro le pro loco di tutta la Puglia, contro sindaci ed amministratori. Loro hanno voglia ed interesse a mostrare la faccia bella della Puglia. Ma la magia della taranta è lontana dal mio modo di vedere e raccontare la nostra regione. È un’oculata strategia, una serie di passi mirati che tendono a celare quel che non funziona.

Sarà mica che da autore western vorrai diventare impegnato?

Sorride – “Uomini e cani” ha vinto il Premio Città di Milano, lo stesso che è stato assegnato a Saviano… A parte gli scherzi: quanto parli di Sud, di una frazione di terra così dannatamente intricata e complessa qual è il nostro Meridione, e prendi a narrare quel che vi succede, già naturalmente compi un atto politico.

Lu Salentu

Monte Svevo, il paese che descrivi nel romanzo è impregnata di tic dannatamente pugliesi: la gioventù arresa nei confronti del futuro, il panorama mozzato dalla rabbia cattiva del rifiuto, personcine piccole come vermi che manipolano a loro piacimento il potere dirigendo la vita di altri a piacimento…

È vero. Anche se, nella realtà, non ci sono paesi con quel nome, Monte Svevo è il riassunto perfetto di tutti i paesi invisibili del brindisino e, più in grande, della Puglia.

Se dico Oria, che fai, annuisci?

Si, c’è un po’ di Oria, un po’ di Mesagne, un po’ di altri paesi.

I tuoi personaggi sono i tipici antieroi. Non hanno nulla di epifanico, sono incapaci di esaltarsi, di vincere. Si accontentano di galleggiare nella vita. Anche quando potrebbero fare atti eclatanti si bloccano. Non ti piace la figura del buono?

I miei sono personaggi sconfitti. Prendi Pisso – uno dei protagonisti – si illude di essersi divincolato dalle grinfie della malavita, crede di essersi evoluto. Ed invece, alla fine, anche lui si macchia di omicidio. Cade nella rete.

È un canto senza speranza, il tuo…

Si. E volutamente. Io lascio la speranza al lettore. E faccio in modo che lui trovi speranza nella sua stessa rabbia. Indignandosi per quello che io scrivo, il lettore dimostra di essere ancora ancestralmente attaccato alla sua terra. Io cerco di suscitare questo.

Foggia, 22 settembre 2010. Da sinistra, Michele Trecca e Omar Di Monopoli

Quanto male…

Esatto. Il male. La mia è tutta una riflessione del male. L’immagine da cui ho tratto ispirazione è quella dell’Overlook Hotel di Shining, un posto talmente impregnato di male, da rendere cattivo chiunque lo frequentasse. Ecco. Monte Svevo è così, i miei luoghi sono questi. La malvagità è così incancrenita da divenire l’elemento essenziale dei luoghi stessi, che cade a getto a tal punto su chi ne vive dentro, da contrassegnarlo.

Senti, cambiando discorso. Tu, Nicola la Gioia, Mario Desiati. La Puglia ha trovato una genie di scrittori. Dopo Vendola, si riparte da qui?

Sorride ancora, muove il sigaro nella mano e pensa – Io la vedo così: l’arte sboccia e trova terreno fertile laddove ci sono contraddizioni. Nelle contraddizioni l’artista trova forza ed ispirazione. La Puglia è piena di contraddizioni evidentemente. Il paragone lo si potrebbe fare con un’altra terra di scrittori emergenti, la Sardegna. Non a caso sono, Puglia e Sardegna, le regioni più vive in quanto a nuovi movimenti artistici. Ed altrettanto sature di problemi. Non è un caso, non credi?

anche su http://www.statoquotidiano.it/23/09/2010/monte-svevo-di-monopoli-riflette-sui-malesseri-pugliesi/34825/

URLIAMOLO: “CHE VIVA ROSARIO LIVATINO”

“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Rosario Livatino, quando vent’anni fa veniva ucciso dalla mafia, aveva 38 anni. Nando dalla Chiesa, in un libro, l’ha definito “il giudice ragazzino”, riprendendo le identiche parole, usate qualche tempo prima, con sdegno, da Francesco Cossiga. Carol Woytila, un “martire per la giustizia”. Paolo Borsellino lo anteponeva, nel pantheon della legalità, ad ogni magistrato; lo esaltava come l’icona antitetica rispetto al malaffare, in quegli anni rappresentato da una politica imberbe, collusa ed a tratti addirittura confusa con la malavita organizzata. Era, quella, l’epoca melmosa del cambio di sistema, della “normalizzazione” democratica: scosse di assestamento che, dopo il terremoto degli anni di piombo, del 1977, del 1985, erano celate con boati di rumore assordanti. Era il tempo in cui tutti ammettevano gli errori delle rispettive ideologie, finendo per fare il gioco dei vuoti di pensiero, della massificazione iper liberista. Eldorado per la malavita. Un turbine volontario per lasciare che la polvere delle stragi di Stato venisse tacitamente occultata sotto il tappeto lercio della ragion di Stato. Ed amen.

Una figura come quella di Rosario Livatino dovrebbe gloriare l’intera nazione. Più forti, invece, sono in questi giorni gli atti di un sindaco vichingo che schiaffeggia lo Stato brandendo stelle delle Alpi; più forte la scomparsa di una comica malconcia; nettamente più forti gli echi del gossip politico. Per non parlare delle celebrazioni urticanti e delle fanfare fanfaroniche messe su per festeggiare l’anniversario di una nazione che nazione non lo è mai stata, così indaffarata nei suoi particolarismi. Voci, suoni, rumori che già mettono a tacere solo l’ultimo degli “sgarri” perpetuato dallo Stato nello Stato ai danni di chi, con le azioni concrete e non eclatanti, sceglie di non stare al gioco. Già si è spenta la luce su Angelo Vassallo, un cognome che ne tradisce la vocazione, relegato in bieche, periferiche ed insulse commemorazioni funebri, quando, al contrario, ci sarebbe da far festa al solo pronunciarne il nome.

Ecco, i nomi. Ne scriveva Michele Serra su La Repubblica proprio qualche giorno dopo l’uccisione del Sindaco di Pollica: i nomi sono importanti, il concetto. Non cambieranno il mondo, certo. Ma il loro perpetuarsi terrà in vita le idee di chi quel nome lo aveva ricevuto come un dono naturale. Ed allora, vent’anni dopo, forse converrebbe tornare a scandirlo il nome di Rosario Livatino. Ricordandolo come l’iniziatore di Tangentopoli in Sicilia, il “ragazzino” capace di scompaginare un sistema consolidato ed incancrenito, come colui che, primo fra tutti, capì che per colpire le mafie, tutte le mafie, c’è da svuotarne le casse. Tranciarne connessioni politiche e finanziamenti.

Che viva, allora Livatino. Rosario Livatino. Che viva in quella caparbia volontà intrisa di sogni e fede di confiscare i beni a chi usava la terra – bella e maledetta come tutta la terra del mondo, così amica e così pretenziosa di cure specie dove l’acqua scarseggia – per riproduzione di tutti i mali del mondo. Come forma di predominanza dell’uomo sull’uomo. Peggio, del ricco sul non abbiente. Non era un politico, Rosario Livatino. Ma la sua idea era quanto di più politicamente efficace ci fosse.

http://www.statoquotidiano.it/22/09/2010/il-ragazzino-contro-il-sistema/34742/

Via 1 a 2

Quella fra Barletta e Foggia non è mai una partita come tutte le altre. Nei miei ricordi di bambino, meno che decenne, mi viene alla mente un lontanissimo e sfumato 4 a 1, gli striscioni a bardare la città, gli sfottò nella via che, dell’allora città dell’alto barese, porta ancora il nome. Fu, per l’occasione, commutato in un ironico ed inoffensivo “Via 4 a 1”. Biancorosso e rossonero, i cori volgari come colonne sonore di ogni partita, messaggi lanciati a distanza, tifosi contro senza esagerazioni e degenerazioni perverse. Ce n’era uno infarcito di bestemmi e parolacce, che ancora è in voga nella curva scambiata del tifo foggiano.

No, quella tra Foggia e Barletta, o tra Barletta e Foggia, non è per nulla una partita come le altre. Per questo, per una volta, ed una sola, gioisce anche il sottoscritto alla presenza delle rappresentanze di entrambe le tifoserie. Già, perché è come fosse, in scala minore, L’ALTRO DERBY pugliese per antonomasia. C’è Bari – Lecce e c’è Foggia – Barletta, oggi più derby che mai per l’elevazione della città marinara a capoluogo. Seppure in comproprietà.

Il primo round l’ha vinto Zemanlandia 2. Ha vinto il gioco, ha vinto la fantasia, ha vinto la freschezza della gioventù. Al Puttilli hanno vinto i dribbling di Sau e Laribi, le goffe folate offensive di Caccetta, le magie folli e spensierate di Insigne. hanno vinto gli scugnizzi di don Zdenek; le piccole promesse delle grandi squadre messe a parchimetro allo Zaccheria. Dopo Barletta Foggia, dopo la predominanza di Sau su Margiotta, tutti abbiamo il diritto di credere alla possibilità di vedere la creatività al potere.

Hanno vinto gli spazi aperti lasciati dagli equilibri del momento, le ardite sortite del solitario, i fraseggiamenti stretti e veloci. Ha vinto anche la palla avanti e pedalare di Verga, novello RR7 (nel senso di Roberto Rambaudi 7) sulla fascia destra, ha stravinto il collo esterno di Insigne sulla botta dal dischetto – e mango tanto – dell’attempato zio Massimo. Stasera ci vediamo in città ancora una volta. Per brindare, tutti, in VIA 1 A 2

Welcome to Foggia, terra di invasioni barbariche

Lo dico subito e sfondo lo specchietto per le allodole: il problema di Foggia non è il traffico. Nel senso che ciò di cui parlo non è causa di ogni male. Né, di riflesso, la risoluzione del problema in sé sarebbe panacea per renderla un eldorado. Foggia latita da decenni agli ultimi posti nelle classifiche della qualità della vita non solo per la scarsa accessibilità ai servizi, per il bassissimo tasso di occupazione giovanile e femminile, per la poca salubrità dell’aria, per l’inesistente decoro urbano. Foggia latita agli ultimi posti perché egemonizzata da poteri forti che l’attraggono verso il basso, portandola giù in maniera inversamente proporzionale al riempimento del loro portafogli. Foggia, è notorio, è la città del mattone senza calce, dell’appalto compiacente, dell’erezione palazzinara che non contempla la necessità dell’inquilino. I funghi di Foggia sono le case, palazzoni come sfondo di una pianura sterminata.

No, il problema di Foggia non è il traffico, ma la totale assenza di cultura. La cultura, per menadita definizione antropologica, è tutto ciò che accomuna un gruppo di persone insediate su un dato territorio per sopravvivenze, usi, costumi, tradizioni. Il collante etnico di Foggia, ad oggi, è l’inciviltà. Laddove imperano lordura ed urla, impera l’inciviltà. E laddove l’inciviltà è l’unica cultura possibile, trionfano i paradossi.

Domenica mattina: vorrei che qualcuno del cast della versione dauna de “La febbre del sabato sera” girasse, finalmente cosciente dopo una buona levataccia (schiaffi in faccia dall’aria pungente delle sette, caffè ed abbondanti antidolorifici per placare il cerchio alla testa), per parchi, prati, vie e vicoli da egli stesso non lucidamente popolati poche ore prima. Già, il problema di Foggia non è il traffico, neppure le moto delle quattro del mattino, neppure le Uno e le Alfa e le Porsche a ruote sgommanti delle cinque, neppure le autoradio delle sei. E, forse, non è neppure solo l’asfalto di bottiglie, carte, bicchieri e cocci posato come neve. Il problema di Foggia è la mente di chi non comprende il fastidio altrui; di chi si sente in obbligo, per libertà personale, di insozzare laddove, a distanza di un giorno, altri non hanno più la possibilità di stare.

Se le vie di Foggia sono pascolo per foraggiatori notturni, la colpa non è della città, ma di quella parte peggiore dei cittadini che s’arroga il diritto di sfogare le frustrazioni di una settimana di lavoro, di scuola o, peggio, di nulla, nel baccanale indecente di un paio di nottate brave. Un vuoto di pensiero col deficit del non dimostrare un beneamato nulla. Torna alla mente l’analisi cruda fatta un paio di mesi fa dal giornalista inglese Tom Kington (un quarantenne, non certo un tirannosauro) che, sul “The Observer” scriveva: “La nuova generazione consuma più alcool e la voglia, tipicamente italiana, di fare bella figura è sostituita dal vanto di perdere il controllo”. Leggere il dizionario dell’imbecillità, per ulteriore conferma, alle voce “balconing”. Non si troveranno lettere, né parole, ma puzza di rum e macchie di follia e sangue, rumore di ambulanze e sguazzi vani.

Succede dove l’idea soccombe allo sballo, dove si anestetizza il pensiero propagandando miti di benessere. Il sottile gioco del capitalismo di rapina, del potere di consumo, che vieta e parla quel che in realtà vorrebbe si imponesse, ha avuto buon gioco sulla disciplina della civiltà. Ovvio che un ragazzo che crede di star bene bevendo fiumi di birra e gettando via un bicchiere regge il gioco più di una pecora fuoriuscita che si domanda i motivi per cui sia inutile pagare per star bene.

Stamane, stamattina come oggi pomeriggio, pochi momenti prima di pubblicare questo post, come ogni domenica, Piazza Padre Pio, Parco San Felice, tutte le strade secondarie del centro storico, molte aree di cantiere e gli spazi dirimpetto ai pub, erano invase da tappeti di bottiglie, bicchieri di carta e vetro, mozziconi di sigarette, carte e cartoni di cibi consumati.

Come ogni provincialismo che si rispetti, Foggia soffre oggi di una mania di grandezza che non risponde ai canoni che la realtà imporrebbe come veri. Bar pieni e associazioni vuote. Spesso, associazioni piene di quel che i bar stessi diffondono. Non mi interessa la stantia polemica sul paradiso artificiale, la consunta guerra antiproibizionista, l’apertura di un tavolo sulla rimessa in gioco dell’intero sistema civile, ormai naufragato. Mi interessa di una città irriconoscibile, che ha smarrito non solo la sua originaria vocazione del lavoro – per demerito altrui – ma che ha perso anche la voglia di lottare per riacquisirla. Si è contentata dell’esca sul primo amo calato, senza pensare che il mare pullula di plancton e di cibo “mobile”. Meglio foraggiare che cacciare. Meglio pecore che leoni. Meglio tutto, tranne che foggiani. A meno che non giochi la squadra di calcio. A quel punto, allora si, l’onore di un vessillo va difeso. Ad ogni costo. Benvenuti, signori, nel regno delle invasioni barbariche.

ps. prometto di mettere quanto prima le foto. Purtroppo ci sono problemi sul server

Cerignola, uva Libera tutti

Ci sono giorni in cui il sole sembra che baci più forte gli uomini, le piante e gli animali; che inondi di luce la terra e le case e tutto il creato, per dare il placet di quel che gli si svolge sotto i raggi. Benedetti caldi di Capitanata, quando ti concedono il diritto di un posto di lavoro scevro dallo sfruttamento. Maledetti, invece, quando le schiene chine sottendono schiavitù; quando il sudore è la dichiarazione di resa al caporalato. Benedetto caldo di Cerignola. Campagna che fu la campagna della riscossa di un’intera classe di braccianti sotto la bandiera umile di Peppino Di Vittorio. In quelle terre, secche ed aride, oggi è nata una delle esperienze più interessanti della Capitanata. Il marchio è quello della rete di Associazioni contro le mafie, Libera. Cui si sono aggiunti quelli degli Enti Locali (Comune di Cerignola e Regione Puglia), della Cia, dei confederali (Cisl e Uil, oltre ad una Cgil che ritorna, in una terra storicamente “sua”, a riannodare il filo dei diritti). “Un grappolo di diritti” è l’iniziativa che ha preso corpo in località Scarafone sin dallo scorso 10 settembre, e che, in un sabato settembrino di fine estate – sabato che non è come gli altri, perché nell’aria rimbomba, sordo, il dolore per il rinvenimento dei cadaveri dei due africani alla stazione di Foggia – si è aperta all’esterno per farsi conoscere. Si vendemmia da quel giorno. Le viti abbondano di frutti. Fino a strabordare come una verde cascata appesa. I terreni sono stati confiscati alla mafia nel 2008: sei ettari in tutto, quattro e mezzo coltivati a vite. Per il resto un groviglio di stradine, qualche ulivo, sparuti fichi. Un casolare abbandonato, distrutto dagli ultimi inquilini, sentitisi defraudati dalla confisca. L’ex proprietario del piccolo feudo, il boss Giuseppe Mastrangelo, detto “il cecato”, sta scontando in carcere tre ergastoli per omicidio, droga, associazione mafiosa ed estorsione. In prigione, ce l’ha spedito Gianrico Carofiglio, che, ancor prima di donarsi all’editoria, mieteva vittime alla criminalità organizzata come pm antimafia di Bari.

Su queste terre liberate, restituite alla storia dalla giustizia dell’uomo, rese finalmente degne della loro bellezza, si è celebrata, alla presenza di stampa ed istituzioni, oltre che delle forze dell’ordine, la fine di un lungo incubo. Meglio. Si è consumato l’atto finale della restituzione al pubblico di quanto era giusto. Perché, ha esultato Pietro Fragasso, mente pensante della Cooperativa sociale “Pietra di scarto”, “Cerignola non dorme”; no, Cerignola di dormire non può permettersi. È occorsa una barca di tempo ed altrettanta fatica per districarsi della nomea di città dell’illegalità. Per uscire dal “cono d’ombra” paventato dal referente provinciale di Libera, Mimmo Di Gioia. Per scuotersi del torpore in cui i vari Giuseppe Mastrangelo l’avevano costretta. Cerignola, quindi, non più città di paura e pistole.

L’immagine, oggi, è diversa, quasi rassicurante. Sui terreni che furono bunker, chiusi al mondo ed all’occhio del cittadino, ostruiti e vietati dalla legge del più forte, oggi lavorano e riposano Cooperative di braccianti. In sei, questa mattina, riempivano le gerle. Mancava un elemento, due braccia in meno sottratte al lavoro, ma aggiunte alla causa della legalità. Uno di loro era a Castel Volturno, altra zona tristemente nota per gli eventi criminosi, per consegnare al Centro di Accoglienza “Fernandes” i prodotti dei vigneti della Capitanata. Gli stessi che hanno fanno capolino alle feste nazionali della Cgil e del partito Democratico. Gli stessi che, oggi, hanno viaggiato sino a L’Aquila. 19 mila cassette prodotte e smistate. E siamo ancora al dato parziale. Perché manca ancora tanto per concludere il lavoro. Ma non ci sono lacrime di terrore in contrada Scarafone. Si fatica sorridendo, qualche battuta in foggiano, qualche risposta in arabo. Dei sette, uno solo è italiano. Dei restanti, due sono rumeni (marito e moglie), quattro tunisini. “Lavoriamo tanto, ma ci mettono a posto – tirano un sospiro di sollievo”. Già, perché sinora l’Italia era stata una grande promessa mai mantenuta: “Solo trattati male, sfruttati, niente soldi”, dicono in coro. Poi, chi può, si ferma all’ombra a fumare una sigaretta. Oggi è un giorno di festa.

pubblicato su http://www.statoquotidiano.it/19/09/2010/libera/34548/

Adro – Roma, scuole contro

Simboli alla scuola di Adro (bergamonews.it)ANNO scolastico 2010/2011: l’inizio. E, tra i banchi, nuovi timori. Li ha cavati fuori dal buco storico, a (Foggia Il dibattito), Mariapia Garavaglia, l’ex ministro ombra del Partito Democratico, contraltare oscuro e senza potere della sciaguratissima Mariastella Gelmini: “Senza la scuola non c’è più lo Stato”. Non solo perché, ha esemplificato, in molte piccole realtà, l’edificio scolastico non c’è più; ma soprattutto perché, diciamocelo, allo Stato, della scuola, non interessa più nulla. La decadenza della scuola, con le ovvie ripercussioni che avrà sul futuro di una generazione presa e gettata al macero della Storia, significa sold out delle intelligenze. Dar via 8 miliardi di euro, utilizzandoli per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero, significa issare la bandiera bianca sulla nave della speranza del cambiamento. Significa consegnare vite intere all’incerto, commutare la pedagogia in affarismodetrarre il pensiero dal corpo. È, in definitiva, la peggiore possibile delle riscritture del libro “Cuore”.
Anno scolastico siderale 2010/2011. Il nuovo diario di bordo è macchiato in copertina dagli schizzi ematici frutto della macelleria sociale che va sotto il nome semplicistico di “precarietà”. Va di tappa in tappa e ci va sempre più lentamente. Descrive di come le ricchezze divengano problemi e di come mai accada l’opposto. Per dire: succede che nella crisi non si trovi la forza di investire, ma non che all’aumento degli studenti extracomunitari o, comunque, stranieri, coincida un corrispettivo piano di revisione dell’oramai desueto sistema scolastico. Non c’è stata una scannerizzazione dei fenomeni potenzialmente stimolanti a punto tale da poter divenire slancio di rinnovamento. La scuola dei ministeri, la scuola della burocrazia, si è arenata di rimpetto ai numeri. Non ha fatto degli scogli un trampolino naturale, solo frangiflutti ordinati per mantenere la parte peggiore del vecchio status quo. Così facendo, ci si è trovati immersi in una scuola dei numeri. Cassaforte o salvadanaio nelle situazioni di emergenza. O, peggio ancora, una scuola della chiusura. Ermetismo in età globalizzata. Quella stessa globalizzazione utilizzata per smantellare il sistema educativo pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone, si è ritorta come un boomerang. Il mondo si apre e la scuola si chiude. Il caso della “Carlo Pisacane” di Roma, classi con un italiano ogni venti alunni stranieri, è la prova di quello che ci ritroveremo di fronte. Di sfide che non sono duelli, ma stimoli a cui rispondere. Insomma, la Capitanata, con le sue masse di migranti, con i suoi camminatori stagionali, con la sua fusione di culture, potrebbe divenire crocicchio e capolinea del cambiamento. L’integrazione deve funzionare da risposta automatica alla domanda di accoglienza, di educazione. Ed invece si persevera nell’indicare “a rischio” o, nel migliore dei casi, “di frontiera”, plessi a decisa presenza straniera.

Ma nel diario di bordo 2010/2011, proprio alla pagina numero 1, c’è l’evoluzione ovvia che la scuola ha intrapreso. La fotografia dal vero della gravità tumorale dell’educazione. Non già e non più luogo fisico – la scuola – e metafisico – la cultura, la conoscenza – di aperture e scambi, di biblioteche interculturali e lingue che si fondono, di colori e di tradizioni, di religioni e di modi di vestire, ma rivendicazione orgogliosa e tronfia del senso di comunità. Già. Perché nella scuola del 2010, nel mezzo degli stracci sporchi che volano nel sottoinsieme dei precari, messi l’uno contro l’altro dalla burocrazia, ci sono i simboli di demarcazione. Discussioni progettuali insabbiate ed insterilite dalla polemica. Fanfaronica – ci si faccia passare il neologismo – l’inaugurazione della scuola primaria di Adro, paesino di 7 mila abitanti del bresciano. L’edificio è stato dedicato a Gianfranco Miglio, padre ideologico della Lega Nord ed è cesellato, in tutta la sua strumentazione, dai banchi ai cartelli, dalle lavagne agli zerbini, dei simboli della stella delle Alpi. Passi il richiamo storico, ma si arresti quello politico. Fa pena leggere le dichiarazione della ministra che, di fronte ad uno smacco per lo Stato, la cultura e la decenza collettiva, si è limitata prima a redarguire il primo cittadino Oscar Lancini, onde poi strigliare, all’opposto, i luogotenenti della conservazione sinistrorsa i cui simboli, a suo dire, campeggiano da decenni nelle scuole. In verità, tranne che per qualche effigie di Karl Marx sui libri di filosofia, rare bandiere iridate della pace apparsa a sparuti balconi e l’ardire giovanile di qualche isolato capellone nell’indossare una t-shirt del Che, i muri sono un ribollire sconclusionato di crocifissi, cuoricini, iniziali d’innamorati e simboli fallici. A meno che la Ministra non eccepisca sulla simbologia di finestre rotte e porte scardinate, pareti scorticate e rubinetti d’acqua non potabile. Ma, anche di fronte a questa constatazione, Adro non solo non è la Barbiana di Don MIlani, dove il tenace sacerdote, stretto a tenaglia fra Democrazia Cristiana e Curia, si ribellava all’ignoranza rivendicando la preminenza della conoscenza, ma semplicemente non è classificabile neppure in quanto scuola. È, per dirla con Nichi Vendola, soltanto “una oscena forma di appropriazione messa in atto dalla cattiva politica nei confronti dello spazio pubblico”.

ARTICOLO PUBBLICATO SU:

http://www.statoquotidiano.it/16/09/2010/la-non-scuola-di-adro/34336/

Foggia calcio patrimonio collettivo nazionale

UN fenomeno nazionale. Da Campo Tures a Vasto l’attenzione dei media nazionali rotea vorticosamente e senza sosta attorno alla nuova creatura della triade Casillo – Zeman – Pavone. Il giocattolo che hanno allestito i tre fa divertire, soffrire, maledire. Tanti gol. È il solito Foggia di Zeman, ma con molti più eccessi. Non si ricordano tanti gol neppure mettendo insieme tutte le prime quattro giornate dei campionati del Foggia. Dodici fatti ed altrettanti incassati: primo attacco del girone B della Lega Pro, ultima difesa.


“SE NON VINCE LA SQUADRA VINCONO I RICORDI” – Un attacco delle meraviglie, un centrocampo che segna e fa segnare, azioni scoppiettanti fatte di tocchi di prima, incursioni sulle fasce, raid come di bombardieri verso le reti avversarie. Con di fronte il nuovo Foggia del boemo, nessuna compagine si sente al sicuro. Da Cava all’ultima prestazione di vasto contro il Foligno, questa l’immagine che ne viene fuori. Di contro, una difesa colabrodo. Ma poco importa. Se non vince la squadra, vincono pur sempre i ricordi. Già, perché il Foggia di Zemanlandia è un patrimonio collettivo. Un po’ come il colosseo. O, qualcuno vorrebbe, la Resistenza. Non è più monopolio di una città e forse non lo è mai stato; non è più duopolio di una città e della Capitanata; non è più triopolio di una città, della sua provincia e dell’intera regione. Quel Foggia che sconfiggeva la Juve e la Fiorentina, faceva passare brutte ore a Milan ed Inter, che faceva tribolare la sua curva, non è più, ora più che mai, nel solo pantheon sportivo di qualche centinaia di migliaia di spettatori. È una ricchezza, un esempio emulativo, la dimostrazione che, talora, le evocazioni sono più forti del business, la prestazione più importante e soddisfacente del risultato finale.

Ma se i tifosi rischiano pericolosamente di vivere di ricordi, il Foggia di Zeman, la fondazione rivista e corretta della città del boemo, attira dall’esterno. A Campo Tures, ai piedi delle Alpi austiache, ad un tiro di schioppo dal confine di stato, a far visito allo storico ritiro fu Studio Sport, approfondimento sportivo di Mediaset. Seguito a ruota da giornalisti francesi e canadesi. Prima ancora, il ritorno da star di Mister Simpatia era stato festeggiato con enfasi da tutti i quotidiani sportivi. Il Foglio di Giuliano Ferrara, a firma di Beppe Di Corrado, rievocava con nostalgia il gesto storico delle caramelle porte prima di ogni incontro come panacea per scuotere dal torpore agonistico una piazza di primo piano, regina indiscussa degli anni Novanta. La Stampa, quotidiano torinese vicino a Confindustria, riprese l’idea del “sogno” risorto. E persino il manifesto, notoriamente distante dallo sport come un gabbiano dall’entroterra, dedicò un editoriale con attacco in prima a firma del regista Giuseppe Sansonna.

Ed oggi, dopo innumerevoli pezzi, giorni dopo giorni di vicinanza sportiva alla creatura che prendeva corpo e realizzava gol a carrellate sin dal pre-campionato, il 4 a 4 contro gli umbri del Foligno, non certo mostri del palleggio e del dribbling, ha attratto l’attenzione di Repubblica. Il quotidiano diretto da Ezio Mauro, sul suo canale web, Rebubblica tv, ha dato spazio, fra i suoi video, ai goal della partita di Vasto, esultando perché “Zemanlandia è tornata” e per “i goal a valanga” del sodalizio rossonero. In attesa delle vittorie basterà la notorietà? Zeman ha chiesto alla squadra lo spettacolo prima di tutto. E, finora, nessuna disillusione.

http://tv.repubblica.it/copertina/e-tornata-zemanlandia-ultimo-pareggio-4-4/53052?video

IL PEZZO è TRATTO DA http://www.statoquotidiano.it/13/09/2010/foggia-se-non-vince-la-squadra-vincono-i-ricordi/34217/

E SEGNALATO SU GOOGLE ALERT

Published in: on 14 settembre 2010 at 22.29  Lascia un commento  
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