Il catenaccio di Tremonti

(di Giuse Alemanno)

Il ministro Giulio Tremonti che, è noto, conserva per il Sud Italia la stessa simpatia che nutre per una eruzione cutanea, ha recentemente rilasciato una dichiarazione sconcertante: “Sì al posto fisso, è la base per un progetto di famiglia, la mobilità non è un valore”. Per la miseria! E questo sarebbe il nordico falco liberista?! Vabbè, prima di tutto l’Economista dovrebbe spiegare alla moltitudine di precari e disoccupati un posto fisso dove caspita sta, poi che un progetto di famiglia si rassicura con un posto fisso me lo ha detto sempre pure mia nonna Donata, vispa novantasettenne di Copertino; e, a ben ricordare, nel destinare alla mobilità una accezione negativa ci aveva già pensato quel misogino di Giuseppe Verdi che nel Rigoletto fa cantare ‘la donna è mobile qual piuma al vento, muta d’accento e di pensiero ’ . Ma qua, cari lettori, sembra che a mutar pensiero questa volta sia stato proprio il biondo ministro di Sondrio, uno che si porta appiccicata addosso l’etichetta di uomo colto, acuto e di scintillante intelligenza, perciò una dichiarazione siffatta, come innanzi riportata, merita riflessione perché è ritenibile nasconda un retropensiero che Tremonti, per ovvie ragioni, non può palesare, ovvero che la reale dimensione della crisi economica nella quale sguazziamo è superiore all’immaginabile, e che non si vedono vie d’uscita in tempi brevi. Inoltre è evidente che il Ministro del Tesoro veda l’approssimarsi delle elezioni del prossimo marzo come un guaio serio; i ripetuti appelli al rigore economico ne sono prova, giacchè i ministri famelici si sono già scatenati: per vincere le elezioni esigono siano messe a disposizione, in quantità, prebende e regalie pubbliche tali da poter addomesticare voti e consensi. Il ministro Tremonti sa bene che uno dei tumori da debellare per sanare le italiche finanze (per la cronaca: terzo debito pubblico mondiale ed evasione fiscale a quel biondo dio) si propaga proprio dall’incontrollata spesa pubblica, perciò alle smanie dei suoi colleghi egli tenta di rispondere asso di bastoni. Ma, e Tremonti ne ha contezza, tale resistenza non potrà durare per sempre: gli insopprimibili impulsi populistici del leader maximo brianzolo, uniti alle piripicchie fregole elettoralistiche, porteranno inevitabilmente a scelte economiche nefaste, e l’annuncio – tranquilli, è solo un altro dei soliti annunci… – dell’eliminazione dell’IRAP ne è testimonianza.
Perciò la lode al posto fisso ‘virtuale’ potrebbe essere interpretata come un suggerimento di difesa, di autentico catenaccio, destinato alle fasce più deboli della popolazione, dato che altri e gravi danni porterà ancora questa crisi infinita.
Comunque il nocumento più amaro è tutto nella deriva demagogico-autoritaria del leader maximo brianzolo, è questa che sta procurando agli italiani l’ostacolo più impervio: la quasi impossibilità di costruire cittadini coscienti. È fresco il ‘ghe pensi mi’ autentica antitesi di ogni forma di cooperazione perseguibile per raggiungere uno scopo comune e preventivamente concordato e voluto.
La crisi economica in corso dimostra in modo inoppugnabile che la somma di azioni economiche individuali spregiudicate miranti esclusivamente al conseguimento di successi privati conduce a conseguenze nefaste a livello planetario, alla faccia del capitalismo dal volto umano.
Si assiste ormai al fronteggiarsi di due entità in sofferenza: da una parte chi si affanna a ridurre organici e costi, ‘usando’ la crisi per una ristrutturazione aziendale interna preservando, però, intatta la capacità produttiva per non mancare all’appuntamento con la ripresa; dall’altra la galassia smarrita e frammentata dei lavoratori che assistono impotenti allo sfarinarsi del terreno sotto i loro piedi, incapaci, ed incapacizzati, a dare risposta/reazione unitaria a questo stato di cose.
Nasce probabilmente da tutto questo l’intuizione catenacciara del ministro Tremonti: “Sì al posto fisso”.
Verrebbe da dirgli “grazie” alla maniera di Checco Zalone.
Chissà se lo accetterebbe da un terrone come me.

Published in: on 25 novembre 2009 at 22.29  Lascia un commento  
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Ma che cos’è ‘sta crisi?


(di Giuse Alemanno)

Graduale, scema la timidezza sulle dichiarazioni di ottimismo relative alla fine della crisi economica che ha investito tutti i settori del vivere civile. In verità le grandi fabbriche, le banche e le imprese importanti sono state tuelate dal governo in un modo tanto vispo e tempesivo da destare stupore e perplessità; per i lavoratori ‘privilegiati’ sono state gonfiate le paperelle degli ammortizzatori sociali, il resto è stato affidato alla ventura, o alla malora. Così, alla ripresa settembrina, sono spuntati gli elenchi funebri delle aziende che dovevano aprire ma chiuse rimasero, si sono abbrunati i volti dei lavoratori rientrati rinvigoriti dalle ferie destinati ad estenuanti far nulla e si strozzano tante piccole economie private condannate, perando non risulti offensivo per i mitilicoltori, ad andare alle cozze. Nella mia qualità di lavoratore ‘privilegiato’ sto maturando una paura e, lo dico per chi non lo sapesse, a me la paura fa spavento. Per spiegarmi, però, ho bisogno di un preamblo, come usavano una volta i democristiani evoluti. Il lavoratore ‘massa’ è una entità forte in quanto è in grado di unificarsi in decisioni collettive superiori alla media individuale: la quntità diventa qualità; così un lavoratore ‘massa’ può proiettare la sua volontà nel futuro, dato che l’avvenire appare più importante e fertile del presente. Un lavoratore ‘individuo’, invece, sarà guidato solo dall’urgenza di soddisfare necessità (o mediaticamente indotti capricci consumistici) immediate, completamente in preda alle passioni del momento ed alle criticità del contingente. Come è facile intuire, le più importanti conquiste sociali sono state ottenute sempre dai lavoratori ‘massa’, giammai da quelli ‘individuo’ perchè il lavoratore ‘massa’ è possente, il lavoratore ‘individuo’ è debole. Partendo da queti presupposti temo che sia in nuce un tentativo bieco di trasformazione del mondo del lavoro sopravvissuto a questa crisi: il mondo padronale birbante proverà a mutare i propri dipendenti da ‘massa’ in ‘individui’, portando alle estreme conseguenze ciò che era stato inaugurato dall’epoca della precarizzazione selvaggia. Così sono partiti gli attacchi tesi a disgregare l’unità dei lavoratori, aggressioni con il bastone (le gabbie salariali) e con la carota (le defiscalizzazioni delle produttività). Ho ben chiaro l’uso che si farebbe sui lavoratori del bastone, come dimostrato dagli assalti delle forze dell’ordine agli operai della INNSE di Milano in rivolta; sulla carota solo la decenza mi impone di tacere: arriva dall’epoca pionieristica della Ford americana degli anni ’30 iltrucco capitalistico del miraggio dell’alto salario per mutare un lavoratore ‘massa’ in un gorilla ammaestrato. Questo aspetto è solo un aspetto di ciò che una mente raffinata definì ‘sovversivismo dall’alto’; altri sono le leggi ‘ad personam’, lo sfuggire per ‘lodo’ ai tribunali, l’indifferenza al conflitto di interessi. Ma c’è un altro aspetto, perniciosissimo, che genera in me ancor più preoccupazione; qualcosa che, a distrarsi, può diventare sul serio il grimaldello con cui scardinare la già traballante unità dei lavoratori. Se l’attenzione dei lavoratori si sposta su ciò che una azienda decide di fare in materia di riduzione della produzione e ricorso alla cassa integrazione (dunque, in prospettiva, sul rischio di perdre il posto di lavoro) è inevitabile si instauri la paura del peggio, soprattutto se tale paura è sostenuta abilmente dall’azienda malandrina con riduzioni di produzione e ricorso a rotazioni veloci di cassa integrazione. I lavoratori, in questo modo, diventano attori passivi e spaventati, pronti ad accettare qualsiasi soluzione stimassero salvante. Così anche i lavoratori ‘privilegiati’ sarebbero finalmente alla completa mercè di chi ha palesato da tempo quale risultato si prefigge: la precarizzazione totale del mondo del lavoro e la flessibilità appecorinata dei prestatori d’opera. E’ questa la sfida epocale lanciata al crepuscolo della crisi dal mondo di chi questa crisi ha creato contro chi, invece, questa crisi ha solo subito. Torna alla mente Brenno che calò a tradimento lo spadone sulla bilancia che misurava l’oro romano utile ad ammansirlo: ‘Guai ai vinti!’, strillò il barbaro. Ritengo sia bene si ricordi: i lavoratori per vinti non si sono dati mai. Sui nidi di resistenza sui tetti delle fabbriche lo sanno molto bene.

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Quando Forcella salvò Palazzo vescovile. E il Falso Movimento?

 

I tempi in cui la forza di una comunità consentiva di stringersi attorno ai suoi simboli, agli emblemi della rappresentazione visibile di sé stessa, sono quanto mai lontani. Ieri pomeriggio l’amministrazione comunale, con il suo consiglio a seguito, ha discusso del Falso Movimento, della possibilità di ridare fiato e corpo ad un cadavere ambulante. Già, perché il cinema di Giustino e Mauro Palma, oggi, è ben poco di diverso da questo. Se ne conosce il destino ultimo: a breve è destinato a spegnere le luci dei proiettori, a rombare gli ultimi decibel. Il tempo, circa vent’anni, non hanno fatto in modo che questa cattedrale laica potesse divenire vena pulsante della città, modello culturale da imitare, imprinting di un modo di fare impresa culturale che travalica il mero interesse. Non entriamo nel merito della questione del possesso dei locali. Curiali, diocesani, parrocchiali o cittadini, qui, interessa poco definirlo. Il Falso Movimento, con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi pregi, è questione di patrimonio comunitario. È un bene che la città possiede ed è unico più che raro. Come lo sono i teatri indipendenti e le compagnie che girano a spese proprie l’Italia esportando il brand artistico made in Foggia.  Difendere il Falso Movimento, come difendere queste realtà, è più di un semplice dovere. È un atto di coraggio, una presa di responsabilità, fiducia nell’arte e, contemporaneamente, che questa possa essere determinante per il futuro. È una scelta di campo che, a sua volta, impone una posizione forte. Forse un’inimicizia forte, che le istituzioni non dovrebbero temere. Nel caso specifico, si tratterebbe di salvaguardare i rapporti di vicinato con la parrocchia Cattedrale. Come, decenni fa, accadde con il potere economico delle assicurazioni. Correva l’anno 1963. Foggia era pioniera di un’esperienza nuova. All’epoca sì che il capoluogo dauno era un laboratorio politico attivo. Prima in Italia per sperimentazione di centrosinistra. In nessun altro Comune, democristiani e socialisti avevano dato vita ad un governo collettivo. A Foggia Carlo Forcella, dc era sindeaco; Salvatore Imbimbo, socialista non rivoluzionario ma neppure boselliano, era un duro e puro dell’anticlericalismo, vicesindaco. E tutta la sua truppa garofanata non era da meno. Erano gli anni in cui le ideologie avevano un peso. Ma anche i soldi, specie se spiattellati sotto il naso, non davano il voltastomaco. Il sindaco eletto nel 1962, ancora oggi è ricordato anche dai comunisti come una persona proba e dal forte senso della collettività. Appena insediato a Palazzo di Città si trovò con un progetto, firmato dal vescovo Paolo Carta nel 1956, di vendita del palazzo vescovile. Nulla di serio, se non fosse che il Piano Regolatore Generale firmato da Rebecchini e Rutelli aveva nelle sue previsioni, come ricorda Gianfranco Piemontese, il congiungimento di corso Garibaldi con via della Repubblica. Tradotto concretamente, l’abbattimento del palazzo stesso, del teatro Giordano e della chiesa di San Rocco. Uno scempio architettonico. Sulle rovine della casa del vescovo, ex convento domenicano di fondazione medievale, sarebbe sorto un palazzone imponente, sei piani, sede dell’Istituto Nazionale di Assicurazioni. Come ricorda a l’Attacco Gaetano Matrella, la lotta fu dura anche in sede decisionale. I socialisti ed i comunisti s’interessavano poco della questione, i democristiani erano schierati contro l’abbattimenti ma non tutti con foga barricadera. Fu un giorno che, in città, giunse un alto dirigente dell’Ina, accompagnato dall’architetto Carlo Vannoni (lo stesso, ricorda Piemontese, che era “l’autore del progetto del complesso degli Uffici Statali e di altre progetti non realizzati, come un grande Politeama in Via Dante”), che si materializzarono le paure. Davanti a quel pericolo, il sindaco Forcella, prese una decisione epocale: il Comune avrebbe riacquistato i locali del palazzo dell’Ina. 282 milioni.

(l’Attacco, 24 nov. 2009, pag.3)

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Comunisti, sipontini, senza… sosta

Adunata compagni! A Manfredonia i Comunisti Italiani hanno annunciato che apriranno la porta del partito per riunire, sotto la falce e martello, i “democratici sipontini” a sostegno di Angelo Riccardi. La pratica è quella antica dell’indipendentismo di sinistra, ereditata da socialisti e comunisti che se ne servivano per non perdere le anime belle del mondo intellettuale vicine all’idea della rivoluzione mondiale del sociale. La sovversione del golfo, piuttosto che sotto le effigi del lavoro, si consumerà all’ombra del delfino bioancoazzurro, emblema del Donia, di cui il candidato sindaco piddino è stato patron fino a pochi mesi fa. L’intento del PdCI è di quelli seri, una democratizzazione mascherata. Difficile, con i tempi che corrono, pensare ad una lista completa. Difficile, evidentemente, anche soltanto sedersi ad un tavolo per intavolare noiose discussioni sul questo è mio, questo è tuo. Le briciole che il Pd lascerà cadere contano meno della sperduta e misteriosa Kamchatka al gioco del Risiko quando si rimane senza carri armati per la difenderla. Evidentemente, briciola su briciola, i tavarish del golfo contano di potersi riempire lo stomaco e di portare alla sazietà anche il consigliere regionale del Partito Democratico. Ma la mossa muove all’indignazione gli iscritti del partito di Oliviero Diliberto. Sul sito manfredonia.net, infatti, l’agitazione si spinge fin oltre la diplomazia. A pagare, è il succo del discorso, saranno proprio i militanti. Qualora ci saranno eletti, resteranno fuori a tutto vantaggio degli ospitati. Beghe di dacia attorno cui già si prepara (e si aggiunge impietosamente) il cordone sanitario dei cittadini indignati contro i dieci anni di amministrazione Campo ed i cinque di governo regionale targato Nichi Vendola. Un manfredoniano infuriato, dichiara l’intenzione di votare, testualmente, “la Polo Bertone (Poli Bortone, ndr)” visto che “tra qualche giorno le farmacie farano pakare i medicinali pekè la reggione non paka le farmacie (cit.)”. E, nel gelo del mare sipontino, già si stanno allestendo, stando sempre ai commenti rilasciati su Manfredonia.net, le armate per la controrivoluzione preventiva. Soldati, come i salgariani indiani strangolatori, “i vechieti malati che vi strozerranno (cit)” usando per laccio l’arma del voto. Sarà un bel lavoro per i comunisti sipontini muoversi per la selva manfredoniana nel tentativo di dar corpo alla “sinistra diffusa”. Democratici o meno che siano gli ospitati.

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Arpinov-hell… L’inferno a due passi da casa

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4 MESI IN MEZZO… MALGRADO LE PROMESSE, NEL CAMPO NOMADI DI ARPINOVA POCO O NULLA E’ CAMBIATO… ECCO I PEZZI PUBBLICATI SU L’ATTACCO IL 25 LUGLIO ED IL 10 NOVEMBRE 2009…

LUGLIO 2009

Dodici famiglie, tutte foggiane, da quattro anni sono relegate nel dimenticatoio civile della città. Ai bordi di Foggia, località Arpinova, svolta a sinistra pochi metri dopo il Parco Archeologico di Passo di Corvo. Proprio laddove sopravvivono, o vivacchiano se lo si preferisce, oltre seicento rom. Di cui, dato impressionante, duecento bambini. Ieri il caldo era di quelli atroci. Il sole della Capitanata, quello che fa crescere il grano e porta a maturazione i pomodori, non si faceva scrupoli nel giocare al ruolo dell’impietoso sulle baracche, i container e le roulotte di Arpinova. Quarantadue gradi all’ombra quando sono appena le 10.30 del mattino. Basta entrare nel campo recintato per rendersi conto dello stato d’abbandono in cui versa questa parte di città. E questo pezzo di cittadinanza. Gli italiani sono in baracche di ferro l’una addossata all’altra. Al sole s’arroventano e diventa impossibile finanche passagli accanto. Ad un primo, rapido sguardo balza subito agli occhi una struttura che è più grande delle altre. Era il vecchio refettorio dell’originario campo nomadi. Da oltre quattro anni, dopo che il Comune ha trasferito qui le famiglie (si torna indietro con gli eventi fino al marzo del 2005), è stato diviso con artigianali muri in cartongesso. Casa divisa da casa. E, all’interno delle case, stanze divise soltanto dagli stessi artigianali metodi. Ognuno s’è adattato alla meglio. Forse, sarebbe più opportuno dire alla meno peggio. Dopo una diatriba con Palazzo di Città, alcuni residenti sono riusciti per lo meno ad ottenere i climatizzatori. Che, tuttavia, spesso, quando la temperatura s’innalza a livelli insostenibili come sta accadendo in questi giorni, rischiano di saltare. I sovraccarichi sono frequenti. D’estate e d’inverno la corrente salta facilmente. I black out arrivano a durare alle volte fino a tre, quattro ore. Negli ambienti climatizzati la situazione non è delle peggiori. Lo scenario, di contro, cambia nel momento in cui ci si sposta negli altri spazi domestici. Il caldo diventa insostenibile, l’afa attanaglia il fiato e la sopportazione viene messa a dura prova. Qualcuno dei residenti, indirettamente, fa capire di non credere più alle false promesse. Né alla stampa: “Oggi ne parlate, domani ve ne siete già dimenticati. Voi, come il sindaco e la cittadinanza”. Le condizioni igieniche del campo sono pessime, al limite dell’umana concezione. Diverse volte sono state inoltrate richieste al comune. I pozzi neri sono stracolmi, il liquame straborda dappertutto, invadendo il campo. Le erbacce crescono dappertutto fungendo da facile ricettacolo per gli insetti e da rifugio per animali di varia risma: dai serpenti ai ratti. I bambini, tanti, giocano nel mezzo dei cortili esponendosi ad inevitabili rischi. In qualche episodio è accaduto anche che alcuni piccoli di etnia rom siano stati morsicati dalle serpi. Dal lato “italiano”, molte sono anche le donne incinte. In generale, tuttavia, è difficoltoso differire lo spazio sulla base delle divisioni etiche. Soltanto una rete metallica, una spartana cancellata messa di traverso, segna grossolanamente il confine. Dopo l’incendio del 19 dicembre 2007, quello che provocò la morte di un bambino di tre anni, incenerì una parte del campo e causò il sequestro dello stesso per circa sei mesi, i nomadi sono stati costretti a spostarsi più vicini alle baracche dei residenti italiani. “C’è – denuncia a l’Attacco Aldo Viola, il portavoce degli abitanti del luogo e leader delle lotte per la casa – una vera e propria promiscuità. Ormai non comprendiamo più nulla di quello che sta accadendo”. Tuttavia, non si può dire che ci siano rivalità, conflitti o inimicizie tra i gruppi di abitanti. Anzi, italiani e non sono perfettamente integrati. Sebastiano, il portavoce dei rom, ci accompagna in giro per (e nelle) le roulotte del campo. Chiacchiera fitto, si ferma, discute con Aldo Viola. Indica 26 dei 48 container qui già installati dal Comune di Foggia. Volano anche parole dure contro la vecchia giunta, contro alcuni assessori, come Francesco Paolo De Vito, che avevano promesso tanto e che, invece, stanno contribuendo a far accumulare ritardo su ritardo. “O sbloccano la situazione oppure noi sfondiamo le porte dei container ed entriamo”. Nell’interno delle roulotte il caldo è insopportabile. Una cappa di afa ed umidità. Non c’è acqua, non c’è neppure la luce. Non ci sono i climatizzatori. La gente è ferma, seduta su sedie sfondate, all’ombra di qualche albero. Il vento di scirocco che spazza Foggia alza la polvere che arriva dai campi limitrofi. In terra, i tombini sono per lo più aperti. Vere e proprie trappole. I residenti hanno tentato di porre rimedio alla situazione adagiandovi delle tavole di legno, dei mattoni forati, materiale di scarto vario. Tuttavia, soprattutto nei pressi dei nuovi container, ne rimangono molti a cielo aperto. E non funzionanti. È la zona che tutti chiamano il “bagno delle donne”, una struttura in pietra grigia, anche questa senz’acqua, con cinque porte bianche. Il servizio è chiaramente insufficiente per soddisfare le esigente dell’intero campo. Oltre al fatto che, mancando l’approvigionamento idrico, non è funzionante. Così, tutto il pavimento, ed anche all’esterno della struttura, è tutto un pullulare di escrementi. Il tanfo che si alza è nauseabondo. Sebastiano guarda, ci obbliga a fermarci. “Mi piacerebbe che il Sindaco o chi per lui si fermasse qui anche solo per un’ora. Sempre che ci riesca”. Ed invece è difficile credere che l’amministrazione conosca fino in fondo i problemi di questa parte di mondo.

Mentre assistiamo allibiti allo spettacolo indecente dell’incuria istituzionale, siamo attorniati da bambini scalzi, da donne incinte, da uomini curiosi. Un capannello di gente che non attende che di dare voce alle proprie frustrazioni, di divenire protagonista del proprio destino. Ci parlano con determinazione. Chiedono a noi di intercedere affinché la situazione si sblocchi. “Non chiediamo chissà cosa – argomenta un ragazzo – Molti di noi sono nati in Italia. Perchè non possiamo avere almeno i diritti di base?” L’italiano che parla è perfetto. E si lascia andare anche al dialetto con una semplicità disarmante. “Ho vissuto quindici anni in una casa famiglia, poi sono tornato in mezzo alla mia gente. Per rimanere senz’acqua?”

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OGGI

Lo si legge nei loro occhi e nella spietata tristezza che pervade la voce. Hanno perso ogni speranza di venire a capo della situazione. O almeno, sanno che la loro attesa non sarà breve come promesso da Palazzo di Città. Disperano perché a maggio avrebbero dovuto avere tutto; a luglio, quando l’Attacco già si recò sul posto, non avevano niente; oggi soltanto qualcuno di loro vive degnamente. È l’amaro destino dei profughi del campo di Arpinova. Dei quarantotto container garantiti, soltanto ventiquattro, attualmente, sono stati dissigillati, aperti ed abitati da altrettante famiglie. Gianni Mongelli e la sua giunta, in visita solo qualche mese fa tra le buche ed il fango, ne hanno promessi dieci supplementari. Saranno trentaquattro, in tutto. La teoria non chiederebbe che l’impianto. Ma la pratica è la dimostrazione dell’incapacità di far fronte alle esigenze di una parte di città che pullula di bambini nati a Foggia e quasi tutti malati per colpa del freddo e della pioggia di questi giorni e di queste ore. A distanza di quattro mesi dal nostro reportage, come sotto la calura di fine luglio, sono ancora quasi tutti lì, piedi scalzi, molti senza cappotto, a giocare negli acquitrini. Si avvicinano, incuriositi. Tre bambine al massimo di tre anni maneggiano come bambole pietre e mattoni; i bambini pezzi di legno raccolti da una sorta discarica a cielo aperto collocata giusto di fronte ai container nuovi. È in questo largo spiazzo che dovrebbero essere impiantati i nuovi. Il Comune aveva promesso l’esecuzione dei lavori di urbanizzazione. La fogna c’è, anche se le due strutture in pietra adibite a bagni non ne sono servite. Ma l’urgenza rafforza lo stomaco. La gente li utilizza comunque. Solo perché non può farne a meno. Ed il risultato è una grande latrina chiusa da quattro mura. Come quest’estate, avvicinarsi è problematico. L’olezzo è troppo forte e vento e freddo non fanno fronte alla drammaticità della situazione.

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L’acqua non serve tutte le roulotte. In alcune vivono famiglie anche di nove, dieci componenti. Fare una doccia è impossibile. “A stento – ci dice una donna – abbiamo l’acqua per cucinare”. Ma al di sotto dei tappeti che molti usano come pavimento, le piogge hanno creato dei veri e propri acquitrini. Già, perché per vivere c’è bisogno di spazio e, addossati alle roulotte sono stati ricavati degli spazi in legno. Sono le donne quelle che stanno peggio. Ci conducono all’interno, tra mosche ed umidità. In una di queste in cui entriamo ci sono due gemelli di tre anni. Anche in “casa”, malgrado ieri mattina l’aria fosse clemente, portano il cappotto.

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Tutti nel campo pensano a loro, ai bambini. Per fortuna, il servizio navetta messo in piedi dal Comune funziona ancora. Molti sono in classe. Altri genitori sognano per loro un futuro nelle aule, insieme con gli altri bambini italiani. Ma fino a che punto il desiderio non è che un’utopia? Un ragazzo di 27 anni, macedone, spiega che la maestra di suo figlio, sette anni, li accusa di non badare alla loro pulizia. Si stupisce: “Noi vogliamo tenerli puliti, ma come si fa? Chi lo dice alla maestra che noi, italiani, non abbiamo neppure l’acqua per lavare i nostri figli?” Mostrano il permesso di soggiorno per farsi titolari dei diritti. Per lo meno di quelli di base. “Come si fa a vivere così, fratello?” dice rivolgendosi a noi. Racconta quasi in lacrime che, pochi giorni fa, ha rischiato di dare fuoco alla sua roulotte nel tentativo di accendere una stufa. “Dopo le dieci di sera, le nostre roulotte sono come un frigorifero”.

I bambini. Un altro giovanissimo padre ci mostra la comunicazione di “un assistente” che cura la figlia. Si legge: “Controllare la cisti operata perché Suki sente dolore quand’è seduta”. Ma curare è un lusso che da queste parti non ci si può permettere. “Non abbiamo soldi”. Ed il resto lo fa la paura della legge. Che non violano neppure, non essendo clandestini.

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Mentre il mondo grida alla pandemia diffusione dell’H1N1, le condizioni igienico – sanitarie del campo nomadi di Arpinova sono altrettanto allarmanti. La Croce Rossa non arriva da queste parti. I medici se ne tengono alla larga. Finanche l’Opera Nomadi, cui è affidata la gestione, è immobile. Ci sono donne diabetiche allo stremo, bambini malati di cuore e tantissimi sono  i casi d’influenza. A ciò si aggiunge il fatto che i pozzi neri non vengono spurgati da mesi e, nei pressi, l’aria è impestata ed antipodica rispetto alla salubrità. Di fronte, la vita è quella scombussolata di tutto il resto del campo. Le donne lavano i piatti  all’esterno degli spazi abitativi, in lavabi artigianali con appena un fiotto d’acqua che esce da una pompa, puliscono e detergono tappeti in gomma con olio di gomito per impedire alla polvere di entrare con il vento. A poca distanza passano ratti e alcuni bimbi giocano con grossi cani. Poi il cielo si annuvola ed inizia a piovere. E tutti tornano all’interno. Chi nei container, chi nelle roulotte.

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Carmela Panico, la pasionaria Cgil

Il 27 luglio, appena tre giorni fa, Carmela Panico era stata insignita di una tessera speciale della Cgil. Un omaggio al suo impegno, la consacrazione di una vita spesa a servizio dei braccianti. Ventiquattr’ore e Carmelina non c’era già più. Nella mente della gente, come nei campi dell’agro di Cerignola, riecheggiano le sue ultime parole. Un testamento spirituale consegnato con la semplicità grintosa della combattente: “Coraggio compagni, avanti nella lotta e buon lavoro”. Un auspicio di consolazione o uno sprone. Per Carmela il vocabolario non è mai cambiato. Sin dagli anni in cui, giovanissima, addirittura ancora minorenne, aveva abbracciato la causa del Partito Comunista. Facile, nella Cerignola del dopoguerra. Il regno di braccianti e sfruttati. Il regno di Peppino Di Vittorio. Come lui, Carmela Panico univa, nel suo essere, la tenacia e il carattere alla sensibilità verso gli ultimi. La politica aveva, per lei, un significato profondo. Era donarsi. Una causa, una missione, un indirizzo. E, in quanto tale, un vincolo. Gli anni Cinquanta la videro eletta Consigliere Comunale a Cerignola; il decennio successivo, impegnata a Foggia nel sindacato rosso per eccellenza prima nell’Unione Donne Italiane, poi nella Federbraccianti della Cgil. Era il periodo del boom economico, del progresso economico che segnava il regresso sociale. Nell’organizzazione bracciantile di Capitanata, Carmela ricoprì incarichi di segreteria, divenendo una delle primedonne della politica foggiana. Vizio endemico, simbolo di famiglia. Sotto la falce e martello trovò riparo ideale anche suo fratello, Pasquale. Ed il marito, Vincenzo Pizzolo, fu uno dei maggiori esponenti del movimento proletario e comunista della Daunia.

Carmela percorse i campi e le piazze vivendo ogni evento cruciale della lotta bracciantile. Spese ogni sua forza a servizio di una causa. Come nel 1969 quando percorse in lungo e largo le campagne, presidio per presidio, posto di blocco per posto di blocco, per garantire la riuscita degli scioperi a favore del rinnovo del contratto dei lavoratori della terra. Guerrigliera del diritto, Carmela. La sua dimensione era la terra. Tanto che le immagini indelebili tracciate di lei restano quelle dei giorni di fermento. “La prima volta che vidi Carmela Panico – ricorda l’ex Presidente della Provincia ed ex segretario provinciale del sindacato del quadrato rosso, Giulio Miccoli – era in un campo, seduta su un tufo enorme, che tentava di spiegare alle braccianti l’importanza del contratto di lavoro e della lotta”. Un’istantanea fissata nella mente di molti, questa. Una donna a contatto e al servizio di altre donne. Tutte uguali, tutte unite nella lotta allo sfruttamento, contro le angherie dei kapò dei campi. Non ci sono mai state venature di buonismo nelle battaglie di Carmela Panico. Il suo femminismo non pagava dazio all’obbligo, al predefinito, allo scontato. Le femministe non l’amavano anche per questo. Oltre che per il suo indissolubile legame, per la sua cieca obbedienza al partito. Per Carmela, quello della donna era uno status di natura, piuttosto che un termine di merito o di demerito. E Carmelina Panico era una donna temeraria, temprata dalla fatica e dai sacrifici, genuina. Una donna meridionale e comunista. “Il Partito – è l’epigramma di Peppino Tavoliere – per gente come Carmela era la vita; e la vita era il Partito”. Razza pura, di sangue rosso, Carmela appartiene all’ultima generazione di militanti comunisti per cui la rivoluzione s’attendeva con la dedizione totale alla causa del socialismo. Merce rara ormai. Ne sono rimasti in pochi. Animali da macello prima, sotto il fascismo di Mussolini, terroristi schizofrenici nei monocolori democristiani, antiquati e anacronistici nel veloce e scambievole commutarsi delle idee nel mondo moderno. Carmela, ricorda Tavoliere “è vissuta fino all’ultimo respiro con il mito della militanza e della rivoluzione proletaria”. Una rivoluzione sincera, guidata dal Partito e condotta dal sindacato. “Perché – ricorda di lei Geppe Inserra, suo genero – mamma Carmela credeva fermamente nella lotta organizzata. Puoi avere le migliori idee del mondo, ma se non hai una base solida che ti regga in piedi, allora puoi stare sicuro di aver perso”.

(L’Attacco del 30 luglio)

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Lentamente muore (Pablo Neruda)

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Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non
fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli
chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.

Published in: on 10 novembre 2009 at 22.29  Lascia un commento  

Che bella la Chiesa dei morti!!!

Ci sono voluti vent’anni di ricerche, forse anche più, perché dall’antro della memoria familiare sbucasse fuori quello che ricercatori ed addetti ai lavori andavano cercando. Già, perché sin dalla chiusura della chiesa dei Morti, del quadro posto al centro dell’altare maggiore non si è saputo più nulla. Le ricerche svolte sul campo risultarono infruttuose. Nessuno, tra gli abitanti del quartiere, ha mai fornito indicazioni utili per risolvere il problema. Un po’ per dimenticanza, un po’ per timore. Un po’, probabilmente, per omertà. Di quella tela, che per dimensioni non doveva passare inosservata, si hanno ricostruzioni frammentate. E teorie abbozzate ma non certe. Sarà difficile entrare nei particolari almeno fino a quando, in mano, non si avrà una ricostruzione efficace e per lo meno verosimile dell’opera. Qualcuno sostiene la possibilità che il quadro sia stato trafugato dalla nicchia in marmo dell’altare della chiesa e venduto come opera di pregio. Sino a qualche anno addietro, in zona, aveva sede anche un rigattiere, chiamato “Gorilla”, i cui locali di deposito erano attigui ai sotterranei dell’edificio sacro. Potrebbe essere una pista interessante da vagliare, meno fantasiosa, esempio, di quella che vorrebbe il quadro come parte di in una collezione privata di New York. Dopo l’appello lanciato su l’Attacco dall’architetto che sta curando i lavori di restauro della chiesa, Michele Stasolla, è stato possibile risalire ad un’immagine. Una traccia, sbiadita e confusa. Si tratta di una foto, confusa ed ingiallita dal tempo, scattata il 3 gennaio del 1950 in occasione del matrimonio fra Teresa e Carlo Forcella (poi divenuto sindaco democristiano di Foggia). Uno scatto amatoriale, come conferma la donna, attribuibile ad un invitato, “un amico”. Sull’altare maggiore c’è il quadro, ancora al suo posto. La figura rappresentata è inintelligibile per l’usura della foto. Appositi strumenti potrebbero aiutare a far luce in proposito. Quello che colpisce di primo acchito, tuttavia, è la ricchezza globale degli interni. Malgrado il bianco e nero, e malgrado la poca professionalità dell’autore dello scatto, viene alla luce tutto lo sfarzo che la distingueva fra le chiese di Foggia. Statue di marmo bianco, marmi policromi, imponenza delle suppellettili interne. È il trionfo del Barocco di Capitanata, regalato alla città dalle maggiori e più influenti famiglie del Seicento e, poi, del Settecento. La signora Teresa, con un pizzico d’emozione nella voce, torna indietro nel tempo a sessant’anni fa. Scava nei meandri della sua memoria per riportare alla luce il periodo in cui, in prima persona, visse in prima persona quegli spazi. Erano gli anni complessi del secondo dopoguerra. La Chiesa dei Morti era, allora, la struttura al cui interno si svolgevano tutte le celebrazioni rituali della Fuci, l’Associazione universitaria cattolica. Vicina alla Democrazia Cristiana. La signora Forcella ne fece parte, come dice lei stessa, “fra il 1943 al 1947”. Quattro stagioni prima della laurea. L’impressione che resta viva è lo stupore del colore. Amalgamato col candore del bianco delle statue. Bastano parole semplici a Teresa per descriverla: “Era una chiesa stupenda, prestigiosa, di lusso”. La ricorda così, come l’epifania costruttiva dell’alta borghesia foggiana. Prima ancora delle mille voci, prima ancora della chiusura forzata ed infinita, prima ancora dei lavori nel pozzo di un paio di settimane fa. “Solo facevano tristezza tutti i teschi. Erano dappertutto”. In quegli anni, ma anche in quelli avvenire, unirsi in matrimonio nella chiesa dei Morti era una pratica per lo meno inconsueta. Probabilmente proprio per l’aria lugubre, forse per le tante storie che già sin da allora si narravano. Una di queste identificava la chiesa e, particolarmente, la cripta come un cimitero della Controriforma. Le diverse decine di salme ossificate rinvenute potrebbero anche suffragare questa ipotesi. Che, tuttavia, i documenti non sono ancora in grado di supportare. Né, va detto, di confutare. Il matrimonio dei coniugi Forcella fu celebrato comunque. In barba alle credenze. E, addirittura, “a furor di popolo”. “Tantissimi giovani, soprattutto fucini, molti parenti non solo di Foggia” elenca Teresa. Le immagini confermano. L’ambiente unico stracolmo di gente. A celebrare don Renato Lusi, a concelebrare don Vincenzo Forcella, fratello di Carlo. “È per questo, per la mia gioventù, per il nostro matrimonio, per tutto quello che ha significato per la mia famiglia, che sento la chiesa dei Morti come fosse ancora mia”. Sebbene sono anni che non ci metta piede, resta l’affetto. Il ricordo mai sbiancato delle celebrazioni “della Foggia bene”. All’una di domenica, subito dopo lo struscio per il corso. Gentiluomini foggiani ben vestiti. L’altra faccia di una città a fortissima vocazione contadina, bracciantile, operaia, impiegatizia. Essenzialmente professionisti, tutti riuniti nello scrigno di Piazza Purgatorio – Via San Domenico faccia all’altare, a recitare preghiere in latino. Ma la chiesa dei Morti fece anche da grimaldello del progresso. In seguito alla decisioni conciliari del Vaticano II, insieme con la parrocchia di San Giovanni Battista e grazie all’azione di don Teodoro Sannella, animatore di un gruppo di ragazzi dell’Azione Cattolica, qui si abbandonò quasi immediatamente la celebrazione in latino ed altrettanto rapidamente i giovani imbracciarono le chitarre per sostituire gli originari canti di lode gregoriani. Fino alle voci, le polemiche, la chiusura.

(pubblicato su l’Attacco del 3 novembre 2009)

Published in: on 3 novembre 2009 at 22.29  Lascia un commento  

“Morire di carcere”: dossier ottobre 2009

carcere

Continua il monitoraggio sulle “morti di carcere”, che nel mese di ottobre registra 8 nuovi casi: 3 suicidi, 3 morti per malattia e 2 per cause ancora da accertare.

Nome e cognome

Età

Data morte Causa morte Istituto
Roberto Capri 31 anni 04 ottobre 2009 Suicidio Poggioreale (Na)
Gennaro Cerbone 41 anni 11 ottobre 2009 Malattia Lanciano (Ch)
Elio O., detenuto italiano 35 anni 13 ottobre 2009 Da accertare Frosinone
Detenuto romeno 24 anni 17 ottobre 2009 Suicidio Tolmezzo (Ud)
Stefano Cucchi 31 anni 22 ottobre 2009 Da accertare Regina Coeli (Rm)
Rahmoni Wissem 30 anni 26 ottobre 2009 Malattia Isernia
Francesco Gozzi 52 anni 27 ottobre 2009 Suicidio Parma
Marcello Calì 50 anni 28 ottobre 2009 Malattia Poggioreale (Na)

Suicidio: 4 ottobre 2009, carcere di Poggioreale (Na)

Si è tolto la vita impiccandosi al soffitto con la cinta dei pantaloni nella sua cella presso il carcere di Poggioreale dove era detenuto dallo scorso agosto. Per Roberto Capri, 31 anni, non c’è stato nulla da fare sabato sera quando gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno soccorso: il ragazzo era già morto. Una sorte che lo accomuna la padre Pasquale e allo zio Pierpaolo, entrambi deceduti dietro le sbarre anche se per motivi di salute.

A suo carico pensanti capi di imputazione: due distinte indagini condotte, dalla Dia e dai carabinieri, gli sono costati accuse di minaccia e tentata estorsione aggravata dal metodo camorristico. Motivi per i quali fu arrestato nell’agosto del 2009. Tornato in libertà, in attesa di giudizio, Capri fu poi arrestato dagli agenti della Squadra Mobile, invece, a novembre dello scorso anno in quanto ritenuto colpevole di aver sparato, in un centro scommesse di Largo Antica Corte, ferendo il 21enne Ciro Persico.

Non si conoscono al momento ulteriori dettagli sulla vicenda. Ma resta il mistero sugli oscuri motivi alla base del gesto estremo. Intanto per questa mattina dovrebbe essere stato disposto l’esame autoptico sulla salma per capire almeno la causa del decesso. Nelle prossime ore saranno interrogati anche i suoi familiari per cercare di individuare il motivo, o l’esistenza di eventuali situazioni di depressione. Il fratello, Francesco, è invece detenuto a Spoleto. Il 10 aprile del 2006 anche lo zio Pierpaolo Capri fu trovato morto nella sua cella, era detenuto nel carcere di Bari.

I medici accertarono che la causa del decesso, in quella circostanza, fu un infarto per sospetta overdose o possibile attacco di epilessia. Nell’ottobre del 2006 aggredì il nipote di Angelo Ubbidiente con il calcio di una pistola, una vendetta trasversale nei confronti del boss diventato un pentito di camorra. Un anno dopo gambizzò Persico nel centro storico per motivi d’affari.

Capri, difatti, si era specializzato in estorsioni non soltanto con richiesta di pizzo ma imponendo anche i propri scagnozzi come security. Per questi motivi, prima dell’arresto, Roberto Capri era “attenzionato”, come anche il suo ex socio in affari, poi diventato il suo bersaglio, Vincenzo Persico. Insieme, secondo gli inquirenti, avrebbero messo a segno diversi colpi, fino alla rottura.

Alla lite in pubblico, con tanto di scambio di minacce, sulla quale gli investigatori cercano ora di far luce. Piccoli boss emergenti circondati dall’omertà dei loro fedelissimi. Roberto avrebbe dovuto gestire, in prima persona, gli affari di famiglia consapevole delle importanti amicizie che la famiglia Capri era riuscita a stringere negli anni precedenti. Il fratello Francesco, ad esempio, è ritenuto dagli inquirenti il referente del clan Iannaco-Adinolfi. (Il Mattino, 6 ottobre 2009)

Malattia: 11 ottobre 2009, carcere di Lanciano (Ch)

Hanno chiesto di vederlo un’ultima volta quando ormai era in fin di vita per una emorragia cerebrale, ma dal magistrato di sorveglianza non hanno ottenuto risposte. Solo ieri mattina, due ore dopo la sua morte, l’anziana madre e i fratelli di Gennaro Cerbone, 41 anni, di Napoli, detenuto a Lanciano ma ricoverato all’ospedale di Teramo, nipote di Raffaele Stolder, uno dei boss della camorra, sono riusciti a vedere il loro congiunto.

“Ci hanno detto che c’era una questione di pericolosità sociale”, racconta la sorella Serafina Cerbone, “ma mio fratello non era un criminale. Aveva il diritto di vedere sua mamma e i suoi fratelli un’ultima volta prima di morire. Ma purtroppo così non è stato”. La donna racconta che il fratello a luglio era entrato in carcere per scontare un cumulo di pene di qualche mese.

“Si era presentato da solo nel carcere di Poggio Reale per pagare il suo debito con la giustizia”, dice, “da Napoli poi era stato trasferito a Lanciano. Noi che si era sentito male lo abbiamo saputo dai familiari di altri detenuti. Nessuno ci ha avvisati”. L’uomo si è sentito male lunedì, mentre era nella sua cella. Improvvisamente si è accasciato a terra. Le sue condizioni sono subito apparse molto gravi. Dopo essere stato trasportato all’ospedale di Lanciano è stato immediatamente trasferito nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Teramo.

“Martedì”, racconta ancora la sorella, “abbiamo saputo quello che era successo e ci siamo subiti messi in movimento per venire a Teramo. Abbiamo chiesto l’autorizzazione per poterlo vedere, almeno per farlo vedere un’ultima volta alla madre. Ma, nonostante fosse ormai in fin di vita, ci è stato vietato. Crediamo che sia stato un atto di grande disumanità per noi familiari”. Gennaro Cerbone è morto alle 11.40 di ieri. “Solo dopo qualche ora dopo”, continua la sorella, “lo abbiamo potuto vedere. Ma la burocrazia ci è ancora ostile. Volevamo riportarlo subito a Napoli, ma dobbiamo aspettare ancora qualche giorno perché ci hanno chiesto il suo atto di nascita, che naturalmente si trova a Napoli”. Forse solo domani la salma potrà lasciare l’ospedale di Teramo. (Il Centro, 12 ottobre 2009)

Cause da accertare: 13 ottobre 2009, carcere di Frosinone

Pubblichiamo la lettera scritta dall’avv. Marco Cinquegrana, che ci dà notizia della morte di un suo cliente detenuto nel carcere di Frosinone. Il detenuto si chiamava Elio O. ed è morto il 13 ottobre. Ciò che colpisce, a quanto si apprende, è la causa del decesso. Overdose di droga. Insomma, pare che, dopo il caso del Carcere Marassi di Genova, un altro istituto penitenziario non sia impermeabile al traffico di sostanze stupefacenti.

“Volevo segnalare a Radiocarcere il decesso avvenuto nel carcere di Frosinone del mio assistito Elio O., 35 anni, deceduto in data 13 ottobre. Nell’incarico peritale conferito dal Pm della locale procura si ipotizzano reati di cui agli art. 586 c.p., 73,80 Dpr 309/90, quindi devo presumere che Elio sia deceduto per overdose di sostanze stupefacenti che qualcuno ha illegittimamente introdotto in carcere. Ogni commento è superfluo visto che il povero Elio O. aveva 35 anni. Vi farò sapere qualcosa appena avrò la possibilità di parlare con il pm della procura di Frosinone, dott. De Bona, che si occupa della vicenda”.

(www.radiocarcere.com, 26 ottobre 2009)

Suicidio: 17 ottobre 2009, carcere di Tolmezzo (Ud)

Un romeno di 24 anni si è suicidato impiccandosi nel carcere di Tolmezzo. La notizia è stata confermata alla deputata Radicale Rita Bernardini dalla direttrice dell’istituto di pena, Silvia Della Branca “che ancora una volta, come tutti i direttori dei penitenziari italiani, ha stigmatizzato l’insostenibile carenza di personale”. (Apcom, 27 ottobre 2009)

Cause da accertare: 22 ottobre 2009, carcere di Regina Colei (Rm)

Verità su Stefano Cucchi. E in tempi rapidi. La invocano la famiglia, i legali e la politica. Tutti insieme oggi hanno convocato una conferenza stampa in Senato per chiedere di fare luce sulla morte del 31enne romano, fermato giovedì 16 ottobre nel parco degli Acquedotti perché in possesso di venti grammi di sostanze stupefacenti, e morto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini giovedì 22, dopo essere passato per il Tribunale, il Regina Coeli e il Fatebenefratelli. Otto interminabili giorni durante i quali la famiglia ha tentato invano di vedere il loro caro e di parlare con i medici che lo avevano in cura.

Per sollecitare l’opinione pubblica, il padre Giovanni e la sorella Ilaria hanno distribuito le foto del corpo di Stefano scattate dall’agenzia funebre dopo l’autopsia. Immagini “drammaticamente eloquenti”, come le ha definite Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto e promotore dell’iniziativa: “Da sole dicono quanti traumi abbia patito quel corpo – aggiunge – E danno una rappresentanza tragicamente efficace del calvario di Stefano. La famiglia ha pensato molto se distribuirle, perché oltre ad essere scioccanti fanno parte della sfera intima”.

Si vede così un corpo estremamente esile (dai 43 chili del fermo è passato ai 37), con il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura.

Al momento è stata aperta un’inchiesta d’ufficio. Il legale della famiglia, Fabio Anselmo, spiega che “l’atto di morte è stato acquisito dal Pm, per cui non abbiamo in mano nulla se non queste foto e un appunto del nostro medico legale”. Dal quale si evince che “sul corpo non sono stati riscontrati traumi lesivi che possano aver causato la morte, ma escoriazioni, ecchimosi e presenza di sangue nella vescica. Aspettiamo gli esiti dell’esame istologico”.

L’avvocato, poi, ci tiene a precisare che “noi non accusiamo nessuno. Stefano è uscito di casa in perfette condizioni di salute e non è più tornato. Chiediamo che non ci sia un valzer di spiegazioni frettolose e spesso in contraddizione tra loro e di risparmiare alla famiglia un processo su quello che è stato Stefano”. Il prossimo passo sarà la costituzione di un pool di medici esperti in grado di “vagliare criticamente il poco materiale che abbiamo”.

Anche il mondo della politica farà la sua parte. Così promettono Emma Bonino, Flavia Perina, Renato Farina e Marco Perduca, presenti oggi alla conferenza stampa. “Cose di questo genere – ha detto Perina – succedono nel far west e non in uno Stato di diritto”. Secondo Bonino, poi, “è in gioco la credibilità delle istituzioni. Lo Stato deve rispondere all’opinione pubblica”. Marco Perduca, infine, annuncia che “come commissione parlamentare sui diritti umani prenderemo in considerazione una missione ispettiva al reparto detentivo del Pertini”. Farina, che ha visitato il nosocomio, ha riferito infine di “una struttura peggio del carcere”.

Il padre: chiediamo chiarezza al ministro La Russa

“Mio figlio in quei momenti era sotto la tutela dello Stato e dunque questa vicenda non può passare sotto silenzio. E dato che è stato preso in consegna dai carabinieri chiediamo chiarezza al ministro della Difesa, Ignazio La Russa”. È quanto ha affermato Giovanni Cucchi, padre di Stefano, il 31enne romano arrestato il 16 ottobre per possesso di droga e morto il 22 ottobre all’ospedale Pertini dopo essere stato rinchiuso nel carcere Regina Coeli.

Nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta in Senato, Giovanni Cucchi è apparso visibilmente provato (“Siamo una famiglia distrutta dal dolore”), ma determinato, e ha tentato di raccontare il figlio: “Era un ragazzo come tanti, pieno di vita, cordiale. Era un geometra, in passato incappato nella droga, da cui però era uscito grazie a una comunità di recupero”. Quindi ha rivolto una serie di domande: “Chiediamo allo Stato perché non è stato chiamato il suo avvocato di fiducia, come aveva chiesto, quando è stato arrestato? Perché ha subito le lesioni? Chi e quando sono state prodotte? Perché ci è stato impedito di parlare con i medici? Perché in sei giorni ha avuto una tale debilitazione?”.

La sorella, Ilaria, ha commentato le dichiarazioni rilasciate ieri dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nel corso di un question time alla Camera: “Lo ringrazio, spero che ora inizi a interessarsi davvero perché non mi sembra che abbia risposto o abbia detto qualcosa di nuovo. Ha letto gli atti”.

Anche lei, poi, ha ricordato suo fratello Stefano: “Lo abbiamo visto uscire di casa sano e lo abbiamo rivisto in condizioni pietose. Mio fratello è stato lasciato morire in solitudine, aveva chiesto una Bibbia perché sapeva che stava per morire. Nessuno lo ha tutelato”. Inoltre, Ilaria Cucchi ha voluto precisare anche che “è stato fermato per una modica quantità di hashish. Quello che qualcuno ha detto essere ecstasy, in realtà erano due pasticche regolarmente prescritte dal medico perché mio fratello soffriva di epilessia”.

Marroni (garante detenuti): esposto a procura su morte Stefano Cucchi

“Auspico che le indagini avviate dal Prap e dalla Procura della Repubblica, di cui ha parlato oggi il ministro della Giustizia, contribuiscano a fare piena luce sulla morte di Stefano Cucchi, una vicenda che presenta lati oscuri non ancora del tutto chiariti che meritano un approfondimento”. È questo il commento del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni dopo aver ascoltato la riposta del ministro della Giustizia Angelino Alfano all’interrogazione presentata dai parlamentari Bernardini e Giachetti sulla vicenda del 31enne romano morto il 22 ottobre nella struttura sanitaria protetta dell’Ospedale Sandro Pertini. Sul caso, il Garante dei detenuti ha preannunciato anche l’invio di un suo esposto alla Procura della Repubblica di Roma.

Spero che l’impegno del ministro a fare piena luce sull’accaduto abbia un immediato riscontro – ha detto Marroni – Però, come Garante ho l’obbligo di contribuire a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti nelle carceri della Regione, primo fra tutti quello alla vita. Per questo, non disponendo di poteri specifici di intervento, al fine di accertare l’eventuale commissione di reati mi limito a riferire i fatti alla magistratura”. Nel suo esposto alla Procura il Garante ripercorre, per sommi capi, la vicenda del giovane Cucchi, arrestato nella notte tra il 15 e 16 ottobre per possesso di una modesta quantità di stupefacente e morto una settimana dopo.

“Dalle verifiche condotte dall’Ufficio del Garante presso le autorità sanitarie e quelle penitenziarie – riferisce la nota del Garante – risulterebbero, in particolare, due punti importanti: il pomeriggio prima della morte i medici dell’ospedale Pertini avrebbero avvisato con una relazione allegata alla cartella clinica, il magistrato delle difficoltà a gestire le condizioni del paziente, che avrebbe tenuto un atteggiamento di rifiuto verso i trattamenti terapeutici. Inoltre, il personale sanitario non sarebbe mai venuto a conoscenza, se non dopo la morte, della richiesta di colloquio dei familiari, per altro ritenuto dai medici fondamentale in ogni caso”.

“Ora – conclude Marroni – attendiamo l’esito degli esami autoptici per comprendere cosa è esattamente successo a questo ragazzo. Al di là tutto, io credo che aver impedito ai genitori di vedere il figlio per giorni è un fatto di una gravità estrema, così come è grave, se vera, la circostanza riferita dai parlamentari secondo cui al perito della famiglia sarebbe stato impedito di assistere all’autopsia”.

Manconi: lesioni e traumi sul suo corpo

“Ho avuto modo di vedere le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata”: è quanto dice, in una nota, Luigi Manconi, già sottosegretario alla Giustizia, presidente dell’associazione A Buon Diritto.

È inconfutabile – aggiunge – che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi, come testimoniato dai genitori, è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale ma già dopo quattordici ore e mezza il medico dell’ambulatorio del palazzo di Giustizia e successivamente quello del carcere di Regina Coeli riscontravano lesioni ed ecchimosi nella regione palpebrale bilaterale; e, la visita presso il Fatebenefratelli di quello stesso tardo pomeriggio evidenziava la rottura di alcune vertebre indicando una prognosi di 25 giorni.

È inconfutabile – dice ancora Manconi – che, una volta giunto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto, anche solo sotto il profilo deontologico, di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro. È inconfutabile che l’esame autoptico abbia rivelato la presenza di sangue nello stomaco e nell’uretra. È inconfutabile, infine – aggiunge – che un cittadino, fermato per un reato di entità non grave, entrato con le proprie gambe in una caserma dei carabinieri e passato attraverso quattro diverse strutture statuali (la camera di sicurezza, il tribunale, il carcere, il reparto detentivo di un ospedale) ne sia uscito cadavere, senza che una sola delle moltissime circostanze oscure o controverse di questo percorso che lo ha portato alla morte sia stata ancora chiarità.

Venier (Pdci): Alfano faccia chiarezza su caso Cucchi

Quante persone “cadono” nelle caserme e nelle carceri italiane? Ciò che ha detto il Ministro Alfano è del tutto insufficiente a fare chiarezza su una vicenda che rischia di minare la credibilità delle Istituzioni come è già successo in altri casi terribili. Speriamo di non dover assistere alle stesse sofferenze che hanno dovuto affrontare i familiari di Federico Aldovrandi e Aldo Bianzino per ottenere un minimo di giustizia per la morte dei loro cari”. È quanto afferma Jacopo Venier, dell’ufficio politico del Pdci – Federazione della Sinistra, riferendosi alla vicenda di Stefano Cucchi.

Alfano: la morte di Stefano Cucchi esige immediati approfondimenti

La morte di Stefano Cucchi, come tutte le morti avvenute in condizioni apparentemente non chiare, esige un approfondimento immediato che ho già avviato, per i poteri di mia competenza”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano, nel corso del question time alla Camera. Alfano ha poi voluto precisare: “Io personalmente seguirò con estrema attenzione tutti gli sviluppi della vicenda e adotterò ogni iniziativa di mia competenza che possa risultare utile per fare luce sugli eventi”. Il Guardasigilli ha anche comunicato che: “La Magistratura inquirente romana ha avviato le indagini e acquisito la documentazione medica del detenuto conferendo un incarico a un perito per l’esame autoptico al fine di appurare le cause e i mezzi che hanno prodotto la morte”.

Alfano, in base ai dati riferiti dall’Amministrazione penitenziaria, ha ricostruito in Aula la vicenda del detenuto morto il 22 ottobre. “Stefano Cucchi è stato tratto in arresto il 15 ottobre per rispondere del reato di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti – ha ricordato Alfano – il 16 ottobre è stato condotto dinanzi al Tribunale di Roma per la convalida dell’arresto e quivi refertato dal medico dell’ambulatorio della città giudiziaria”. Il medico, ha riferito Alfano, ha riscontrato “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente” e, ha aggiunto, “ha avuto riferite dal Cucchi medesimo, lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori e queste ultime non verificate dal sanitario a causa del rifiuto di ispezione espresso dal detenuto”.

“Condotto al carcere di Regina Coeli – ha continuato il ministro nella sua ricostruzione – il detenuto è stato regolarmente sottoposto alla visita medica di primo ingresso. Il referto redatto in istituto – ha detto Alfano – ha evidenziato la presenza di ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione e arti inferiori”. Il medico, inoltre, ha continuato Alfano, “ha dato atto di quanto riferito dal detenuto”. Vale a dire, ha spiegato, che il detenuto “ha detto di una caduta accidentale dalle scale, necessitante, a parere dello stesso sanitario, di una visita ambulatoriale urgente presso un ospedale esterno, ove il Cucchi è stato accompagnato alle 19.50 dello stesso giorno”.

“Visitato presso l’ospedale Fatebenefratelli – ha continuato il ministro – gli sono state riscontrate, “la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea”. Sebbene invitato al ricovero, il Cucchi ha rifiutato l’ospedalizzazione ed è stato quindi dimesso contro il parere dei sanitari”. “Il giorno 17 – ha continuato Alfano – il Cucchi è stato nuovamente visitato dal medico di Regina Coeli il quale, riscontrati quelli che il detenuto riferiva essere i postumi di una caduta accidentale, verificatasi il giorno precedente, ha disposto ulteriori accertamenti da effettuarsi presso il Fatebenefratelli. Trasferito nella struttura ospedaliera, il Cucchi ha chiesto il ricovero per via del persistente dolore nella zona traumatizzata e per riferita anuria”.

“Alle ore 19 del medesimo giorno – ha aggiunto Alfano – il Cucchi è stato ricoverato presso il reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini dove è deceduto la mattina del 22 ottobre per presunta morte naturale, come da certificazione medica rilasciata dal sanitario ospedaliero”.

“Faccio presente – ha detto il ministro al termine della sua ricostruzione – che il 23 ottobre, con un provvedimento della competente Direzione generale dell’Amministrazione penitenziaria, è stata affidata al provveditore regionale per il Lazio un’indagine immediata, volta ad appurare le cause e le circostanze e le modalità dell’accaduto”. (Redattore Sociale – Dire, 29 ottobre 2009)

Malattia: 26 ottobre 2009, carcere di Isernia

“È triste pensare che Rahmoni non ci sia più”. L’improvvisa morte del detenuto 30enne di origine tunisina stroncato lunedì da un infarto cardiaco nel carcere di Isernia provoca sconcerto e dolore fra i detenuti ed il personale di custodia di Torre Sinello. Fra le mura del carcere di Punta Penna, Rahmoni Wissem ha trascorso otto mesi. Un passato di droga alle spalle, il giovane tunisino a Vasto ha lasciato molti amici. Lo ricordano tutti in buona salute.

“Se Rahmoni soffriva di problemi cardiaci è stato molto bravo a nasconderlo, certo non aveva un carattere facile: a volte era allegro e ben disposto verso tutti, altre volte era cupo, si chiudeva in se e discuteva per un nonnulla con i compagni di cella”, raccontano alcuni operatori. Arrestato nel 2008 a Perugia per reati legati allo spaccio di droga, il giovane tunisino è arrivato a Vasto dopo aver trascorso prima un periodo di reclusione in Umbria. Nonostante gli sbalzi d’umore, era riuscito a integrarsi e a farsi voler bene. All’inizio del mese è stato trasferito ad Isernia.

Nessuno ha più avuto notizia di lui fino a due giorni fa quando è stato trovato morto nella sua cella del carcere a Ponte San Leonardo da un agente di custodia. L’intervento dei medici non è servito a nulla. Il referto parla di “blocco dell’attività cardiaca”. La Procura di Campobasso non ha ritenuto necessaria l’autopsia ed ha messo la salma a disposizione dei familiari. La polizia penitenziaria, attraverso l’ambasciata tunisina a Roma, ha avviato le ricerche dei parenti. (Il Centro, 28 ottobre 2009)

Suicidio: 27 ottobre 2009, carcere di Parma

Un presunto affiliato alla ‘ndrangheta, Francesco Gozzi, di 52 anni, esponente della cosca Latella di Reggio Calabria, si è tolto la vita nel carcere di Parma dove stava scontando, in regime di 41 bis, la condanna all’ergastolo. Gozzi si è impiccato utilizzando alcuni fogli di giornale intrecciati in modo da formare una corda. La Procura della Repubblica di Bologna ha avviato un’inchiesta ipotizzando il reato di istigazione al suicidio. In precedenza Gozzi aveva attuato altri due tentativi di suicidio. Stando a quanto emerso Gozzi era psicologicamente provato dal regime carcerario cui era sottoposto. Una situazione che era stata segnalata dai difensori di Gozzi, gli avvocati Carmelo Malara e Lorenzo Gatto, che avevano chiesto, senza ottenere alcuna risposta, il trasferimento dell’ergastolano in un centro clinico specializzato. (Ansa, 29 ottobre 2009)

Malattia: 28 ottobre 2009, carcere di Poggioreale (Na)

Il detenuto morto la scorsa notte all’ospedale Cotugno di Napoli stava scontando nel carcere di Poggioreale – nella sezione destinata ai definitivi – una pena all’ergastolo. A Poggioreale era giunto nello scorso mese di maggio. A quanto si apprende, l’uomo – che era originario della Sicilia – era sottoposto ad un particolare regime di vigilanza. Il detenuto morto, Marcello Calì, 50 anni, era stato arrestato nel 1990. Era stato condannato per violenza sessuale su una bambina di sei anni e per omicidio. Nel 2004 Marcello Calì, originario di Aidone, un piccolo centro della provincia di Enna, tentò il suicidio nel carcere di Sulmona: si taglio le vene ma venne soccorso in tempo dagli operatori della polizia penitenziaria.

A Poggioreale era stato trasferito la scorsa primavera dal penitenziario di Reggio Calabria e proprio a causa delle sue condizioni di salute era stato destinato al centro clinico del penitenziario napoletano. (Asca, 29 ottobre 2009)

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