Foggia, squadra da record

GOL!

Bentornato a casa Foggia. Messa alle spalle la trasferta capitolina ed il pirotecnico 3 a 3 contro l’Atletico Roma (fu Cisco, fu Lodigiani), Zemanlandia riapre i battenti sul terreno amico dello Zaccheria. Di scena ci sarà il Siracusa, penultimo e 8 punti incamerati sinora. L’impresa è tutt’altro che mastodontica per la compagine rossonera. Tanto più che, alla vigilia, i satanelli giungono con una serie di record inanellati in sole dieci giornate.

 GOL FATTI E GOL SUBITI – La vittoria di ieri del Novara, 3 – 0 sull’Albinoleffe, ha rovesciato le parti. Tuttavia, prima che la brigata Gonzales & Co schiantassero gli orobici, i ragazzi di Zdenko detenevano la vetta dell’ipotetica classifica di gol realizzati fra tutti i campionati professionisti. 24 reti in 10 giornate. Va detto però che, malgrado lo score di 26 palloni incasellati alla voce “gol fatti”, i novaresi hanno giocato due partite in più rispetto al Foggia (12 contro 10). E, dunque, il primato dei piemontesi è tutt’altro che solido. E, soprattutto, proporzionalmente inferiore (2.4 reti a partita per il Foggia, 2.16 per il Novara). Nessuna sorpresa. L’attitudine all’offesa è un classico delle squadre di Zeman. L’importante non è badare a non prender gol, ma farne uno in più dell’avversario. Una filosofia calcistica spettacolare ma pericolosa, che se esalta il gioco d’attacco, lascia spesso a desiderare in fase difensiva. I terzini con licenza di far male, i centrali alti ed i portieri quasi volanti, concedono vere e proprie autostrade agli attaccanti. Così, il Foggia di Zeman, conta anche la peggior difesa in assoluto con 21 reti subite. Demerito, certo, anche della scarsissima forma di un Ivanov mai impeccabile e spesso colpevole di magagne ridicole. Il Foggia precede il Cittadella che, compresa la gara vinta ieri con il Grosseto (2 – 1), di reti ne ha incassate 20. Vale, anche in questo caso, il computo fatto per il Novara, con i veneti che, in graduatoria, contano due partite in più rispetto ai satanelli ed una media di 1.6 gol subiti a partita contro i 2.1 del Foggia.

 LA FABBRICA GESTITA DALLA COOPERATIVA – Il Foggia è come un Soviet di fabbrica. Produce, produce produce. Sforna, nella fattispecie, gol a bizzeffe. Ma, quel che conta, è il gruppo. Così, questa fabbrica del gol diretta dall’uomo venuto dal freddo di Praga, va avanti grazie alla collaborazione di tutti. Ed ecco che, nella fabbrica, nasce la cooperativa del gol. Ed un altro record. Sono 11 gli operai andati a rete (uno in meno dell’intera stagione di serie B 1990-1991, quella della promozione in A, sempre con Mister Simpatia in panca). Per la precisione, 7 volte il folletto Sau, 3 “Coca Cola” Agodirin, Insigne e Laribi, 2 capitan Romagnoli, e una volta a testa Iozzia, Kone, “il Blasco” Regini, Rigione, “Tomo” Tomi e Varga. Anche in questo caso, nessuno come il Foggia.

Presi tutti i campionati professionistici italiani, a procurare ansia al primato del sodalizio dauno, c’è solo la brianzola Renate che, nel girone A della Seconda Divisione di Lega Pro, è attestato a 10 marcatori.

A parità di serie, la Salernitana – la squadra con il maggior numero di giocatori diversi andati a segno – è ferma a quota 9. Come l’Ascoli (serie B), e con un uomo di vantaggio rispetto alla Juventus (8).

 I PRECEDENTI – In realtà, malgrado i tanti gol realizzati, le squadre di Zeman mai o quasi mai si sono rette sul collettivo. Il Foggia che giunse ottavo nel campionato di serie B, stagione 1989-1990, mandò a segno soli otto calciatori: Beppe Signori (capocannoniere con 14 gol), Francesco Fonte (8), Roberto Rambaudi (7), Onofrio Barone (5), Paolo List (4), Mauro Meluso (3), Maurizio Codispoti (2) e Maurizio Miranda (1). Quel Foggia, inoltre, stabilì il record di esordienti nella serie cadetta: ben 13.

Nel famigerato e spietato Foggia della promozione (l’anno successivo, stagione 1990-1991) furono invece 12 i marcatori: Ciccio Baiano (22 e capocannoniere della serie B), Rambaudi (15), Signori (11), Barone, List e Alessandro Porro (3), Tomaso Napoli e Giovanni Bucaro (2), Codispoti, Mauro Picasso, Gualtiero Grandini e Stefano Casale (1).

Il glorioso ritorno in A si consumò con un record ed una cifra tonda. Primato di esordienti fra tutti i campionati professionisti: ben 17 su 19 componenti della rosa zemaniana, mentre 10 furono i cannonieri: Baiano (16 reti e bomber inarrivabile), Signori (11), Rambaudi e Igor Shalimov (9), Dan Petrescu (4), Igor Kolyvanov (3), Maurizio Codispoti (2), Alessandro Porro, Mauro Picasso e Pasquale Padalino (1).

 IL RECORD DEI RECORD – Zeman ed il Foggia sono sulla via giusta per eguagliare il record di tutti i tempi di squadra con maggior elementi in gol. Record che appartiene al Genoa 2002-2003 (che retrocesse ma che non vide l’allora serie C1 grazie alla riforma del campionato cadetto che, dalla stagione 2003-2004 divenne a venti squadre). I tre allenatori Onofri, Torrente e Lavezzini mandarono in gol ben venti giocatori. Prima e dopo nessuno ha fatto meglio dei grifoni. Ci sono andate vicine il Piacenza 2007-2008 ed il Treviso 2008-2009 (19 marcatori per entrambe) e, la passata stagione, Genoa ed Albinoleffe.

LEGGI SU http://www.statoquotidiano.it/31/10/2010/us-foggia-quando-si-dice-macchina-da-record/36667/

Figli d’Italia

C’è qualcuno che sostiene una teoria stramboide: prima di giudicare un libro, occorre averne letto almeno 99 pagine. Ebbene, mai come nel caso de “I treni della felicità” (Giovanni RinaldiEdiesse), questa definizione fu tanto sbagliata. Inizia con una telefonata, col trillo vivo di un telefono, e termina con un abbraccio, con il punto esclamativo sentimentale. In mezzo, è un sovrapporsi di respiri, parole, viaggi, vissuti, passati e presenti, foto, pietre e scontri. Manca il superfluo, quel surplus punzecchiante e fastidioso, il rutilare delle parole vane inchiostrate tanto per occupare spazio. Per questo, a Giovanni Rinaldi, di pagine ne occorrono molte, ma molte meno della metà per raggiungere il suo scopo: che è quello di riportare alla memoria collettiva una serie di episodi che, messi insieme, l’uno sull’altro, costituiscono un unicum storico.

“I treni della memoria” raccoglie, nella fattispecie, gli elementi per la ricostruzione del meccanismo solidale messo in piedi dall’Udi. La guerra era alle spalle, il dopoguerra portava a galla vecchie e nuove povertà. Le famiglie stentavano a trovare la quadra. Economica, innanzitutto. Ma anche a riequilibrarsi socialmente. Troppi figli ed un lavoro che, spesso, non rendeva. Furono allora le donne comuniste a dare un aiuto concreto acchè la situazione si sbloccasse. E vennero messi in piedi dei veri e propri viaggi della speranza. Vagoni carichi di bambini spediti a Nord presso famiglie più agiate. Per un pasto caldo, per un cappotto nuovo, per delle scarpe ai piedi. Alcuni tornarono col tempo. Mesi, anche un paio d’anni. Altri decisero diversamente. Giovanni Rinaldi va a riprendere queste storie ammassate per dar loro una nuova dignità storica. Eppure, il suo, non è propriamente un saggio. Piuttosto, ha la forma di un portolano antico narrato con un linguaggio marcatamente militante. È la traccia segnata, di punto in punto, di approdo in approdo, su una mappa che si snoda su più livelli. Moli sono i paesi tra cui l’autore fa da spola incessante per raccogliere le storie che sarebbero dovute confluire nel documentario “Pasta Nera” di Alessandro Piva. Battelli, i treni. Quella sommatoria di banchine e di vagoni, dimore di ricordi, capaci di trascendere il tempo e condurre nel passato.

Un diario che è un moto continuo fra Nord e Sud, fra Puglia ed Emilia Romagna, fra Campania ed Emilia Romagna, fra Lazio ed Emilia Romagna, fra Emilia Romagna ed Emilia Romagna. Pagine per annotare cosa ne è stato di quei bambini. Gianni Rinaldi cerca loro. E li fa parlare. Spesse volte fa in modo che si rincontrino. Eppure sfugge alla sindrome di Moccia. Non ha bisogno di ceselli, di dispensare buonismo a piene mani. Non spaccia panelle di pietismo a buon mercato. E certo che il terreno dell’infanzia è più che minato. Anzi, di fronte al sentire emozionale, si tira indietro, si mette in un cantuccio, intimorito, in disparte. Perché “I treni della felicità” è un libro che non vuole commuovere. Ma far pensare. E ci riesce. Con i suoi aneddoti, le battute, con la riproposizione di datati bigottismi. È un libro che emoziona, muove alla rabbia e muove alla gioia.

Per questo, cortesemente, non definitelo “storico locale”, Gianni Rinaldi. Perché è estremamente di più. È il custode di un passato che odora di pane rancido e stordisce come l’olezzo del sangue orgoglioso affossato dai fucili scelbini sui selciati del Meridione, dietro le povere barricate di carretti. È lo scrigno più prezioso delle gemme umane estraibili dalla Capitanata. Da preservare. E conservare. Con cura.

Giovanni Rinaldi, “I treni della felicità”, Ediesse 2009 Giudizio 4.5 / 5
p.ferrante@statoquotidiano.it

LEGGI SU http://www.statoquotidiano.it/30/10/2010/macondo-la-citta-dei-libri-6/36639/

Sotto attacco dell’idiozia

“FATTI SENTIRE DIVERSO […] IDIOTA da quando sei nato la tua vita è pilotata, da gente di merda che ti fa essere idiota, Vespa Fede Montanelli ogni giorno abbabbiat’, nu juorn’ aret’ a n’at’ fin’ a che si schiattat’ cu stampat’ ‘ncopp’ a faccia, stu sorris’ idiota, idiota, idiota, …”

“La deplorevole deriva di un giornalismo di parte che sfocia nella violenza. Decisamente da condannare e censurare. Un’intervento davvero inspiegabile di cui non si avvertiva proprio la necessità, soprattutto in un momento buio come questo (l’articolo non sembra neanche sfiorare la satira)…
Uno scivolone che, ahimè, …rappresenta una vera vergogna per l’intera categoria dei giornalisti… Poi, ci meravigliamo degli accadimenti di cronaca avanti come oggetto la violenza (i serbi a Genova, l’infermiera rumena a Roma, il tassista a Milano, ecc).” – MATTEO PALUMBO, FB-RADICALILIBERI, 28.10.2010

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“Se scendessimo al loro livello, dovremmo augurargli di imbattersi in un energumeno che rifili loro un paio di cazzotti. Chissà se affronterebbero il tutto con la stessa grottesca ironia. Europa, quotidiano del Pd, e Stato Quotidiano, giornale del Foggiano. Due fogli accomunati dalla stesso tono divertito per l’aggressione subita dal portavoce del Pdl Daniele Capezzone (nella foto). Il primo ieri riportava in prima pagina la battuta di tale «Robin»: «Capezzone, chiedi a Belpietro. Gli si è appena liberato un ottimo caposcorta». Il secondo ha addirittura ospitato un editoriale in cui si sanciva la soddisfazione per il pestaggio argomentando: «Capezzone è uno che se le tira».” – REDAZIONE DE “IL GIORNALE” (FAMIGLIA BERLUSCONI), 29.10.2010

http://www.ilgiornale.it/interni/chi_si_diverte_pugni_capezzone/29-10-2010/articolo-id=483287-page=0-comments=1

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“Definire articolo queste scempiaggini e’ ridicolo. Ben oltre i limiti della querela x ingiuria, e cmq niente giustifica la violenza. In un paese libero e democratico nessuno va preso a pugni x quelli che dice e che fa. Attacco da brigatista” SALVADF, STATOQUOTIDIANO, 29.10.2010

http://www.statoquotidiano.it/27/10/2010/e%E2%80%99-autunno-capezzone-coglie-castagne/36491/

 

p.s. per noi Capaminchione resta questo: http://nonciclopedia.wikia.com/wiki/Daniele_Capezzone

Occhio Puglia. Avanza l’Adriazia! Lunga vita all’Adriatico!

A che serve poi menarla con la storia del riflusso...

E va bene, concediamoci una risata. Facile, di fronte a proposte dal vago sapore retrò. Un tempo era l’Italia. Unita, unica e coesa. Nulla di sognante, vivaddio. Il paese imperfetto per antonomasia. A Liberazione non ancora avvenuta, data di scadenza 1943, una geremiade di micro patriottismi a volte ridevoli, altre volte stucchevoli presero vigore. Fu Regno d’Italia contro Repubblica di Salò, come erano già state, prima, Repubblica Romana e Gallia Cisalpina, Papato e Impero, Regno delle Due Sicilie e Comuni. Lo sbarco alleato rintuzzò le voglie secessioniste della Sicilia, percorsa opportunisticamente da un movimento anglo-mafioso che ne pretendeva il distaccamento (anche politico) dal continente e, si disse, l’assoggettamento agli Stati Uniti. San Marino e Vaticano, fermi ed immoti, docent.

Torniamo al proposito iniziale: ridere. Almeno, sorridere. Internet è un fantastico portatore (in)sano di idee e proposte e, per giunta, un ottimo conduttore delle stesse. Che, anzi, spesso più sono pacchiane, più circolano. Eccola lì la palma d’oro del decennio: nasce l’Adriazia. Adesso, per carità, non creiamo allarmismi. Malgrado il nome idiota, il principio ancora più idiota e l’impianto comunicativo estremamente più idiota, non si tratta di una nuova influenza. Ma di un virus meno serio. E meno pandemico.

ecco a voi l'Adriazia

VIA DALL’ITALIA – Presupposto: l’Italia. Non come storicamente intesa. Venti regioni, la nazione dei (fu) cento capoluoghi. Nossignore. Ma un coacervo di spazi e dialetti “così unici – recita una sottospecie di manifesto programmatico – che diventano lingue”; di storie e di tratti somatici vari “germanici e arabi”. Senza dimenticare i “modi di pensare e di vivere legati alle tradizioni secolari”. Un copione perfetto per scenografare il video clip postumo della gaberiana “Io non mi sento italiano” (“Ma per fortuna o purtroppo lo sono”, sentenziava GG). Una sommatoria poetica e romantica, un po’ Saladino, un po’ Attila, un po’ Giulio Cesare, un po’ Federico Barbarossa, un po’ Carlo Magno, un po’ Federico di Svevia, repressa brutalmente da quegli sporchi e prepotenti risorgimentali. Meglio, “la mano di un Regno di ponente […] che ha unificato ciò che la storia ha sempre diviso”.

IL MONA – Che le divisioni storiche siano state dettate non dal lancio di un dado, bensì da capi militari, re e feudatari, conti e duchi, papi ed imperatori, poco conta. Perciò, è l’ora di dar vita all’Adriazia. Popoli dell’Adriatico unitevi! C’è da metter su un’intera nazione. Da Trieste ad Otranto, da Ancona a Venezia, da Pescara a Bari, una sola lunghissima striscia di terra bagnata dal mare che già Veneziani e Turchi si contesero.
D’altronde, si lamentano con solerzia dal M.O.N.A. (Movimento Organizzato Nazionalisti Adriatici) “dal 1996 esiste una nazione detta padania (con lettera rigorosamente minuscola, ndr) che ha dichiarato l’indipendenza, quindi la secessione, dallo stato Romano (sic, ndr). La pretesa eredità ancestrale dei padani è Celtica e Longobarda, da non mescolarsi con quella Mediterranea, da sempre propensa a non lavorare e suonare il mandolino”. Roba forte. E allora, si chiedono gli Adriaziani (a proposito, come caspita si chiameranno?), se Bossi e Borghezio hanno conquistato il potere a suon di eruttazioni e rigurgiti d’odio, perché non imporre alto anche il vessillo con giara e bicroce a sfondo giallo?

VIA DA ROMA, VIA DA MILANO. LE MANI SULLA PUGLIA – “Via da Roma, Via da Milano”. Il potere nazionale ritorni in riva all’Adrias, un tempo rotta commerciale, oggi commercialisti a frotte (in vacanza). Cartina alla mano, il piano d’azione c’è tutto e fa tremare i polsi a Berlusconi e Napolitano. Roba che le trame golpiste nemmeno si sognavano. Mentre attendiamo con trepidazione e timore l’alleanza del M.O.N.A con il F.L.N.G. (ovvero, Fronte di Liberazione Nani da Giardino), leggiamo dei piani di conquista. Che, senza scherzare e senza vergogna, definiscono “annessione”. Hitler, a questi MON-adi avrebbe fatto un baffo (probabilmente Mussolini un capello e Clinton chissà). E titubiamo. Perché sono tutti concentrati a studiare cosa farne della Puglia. Faccia attenzione Nichi Vendola, perché, per gli Adriatici, la Puglia è “speciale”, “testa di ponte per il Mediterraneo e i Balcani” Perciò, nei piani di anschluss, “si configura come una terra per sua natura integrata nella temperie culturale di quei popoli marittimi, quali gli Adriati, latori di una Weltanschauung cosmopolita, mercantile e, sostanzialmente, Levantina”. Resta, ai conquistadores, un solo dubbio: Taranto. La città dell’Ilva ha, balnealmente parlando, accesso allo Ionio. Dunque, geograficamente, dovrebbe essere estromessa. Tuttavia, “il M.O.N.A. in base ad alcune considerazioni (di carattere culturale, politico, militare ed economico accuratamente elencate punto per punto, ndr), si pronuncia per l’annessione di questa provincia, quindi dell’intera Puglia, all’interno della nazione Adriatica”.

“IL FONDANTE SILLOGISMO DI CEPPAGATTI” – La rivoluzione adriatica è pronta. In nome “del famosissimo e fondante sillogismo di Ceppagatti: Se può esistere la Padania, può esistere anche l’Adriazia. Se non può esistere l’Adriazia, non può esistere neanche la Padania”

Caro Piero, Caro Matteo

VENGO A CONOSCENZA, PUBBLICO E RISPONDO:

“La deplorevole deriva di un giornalismo di parte che sfocia nella violenza. Decisamente da condannare e censurare. Un’intervento davvero inspiegabile di cui non si avvertiva proprio la necessità, soprattutto in un momento buio come questo (l’articolo non sembra neanche sfiorare la satira)…
Uno scivolone che, ahimè, …rappresenta una vera vergogna per l’intera categoria dei giornalisti… Poi, ci meravigliamo degli accadimenti di cronaca avanti come oggetto la violenza (i serbi a Genova, l’infermiera rumena a Roma, il tassista a Milano, ecc).”

Matteo Palumbo, addetto stampa del Parco Del Gargano, è l’incarnazione della peggio gioventù. Pennivendolo invidioso e senza predisposizione al contatto con gli altri. Un ameba pallido e patetico.

Di politica capisce poco o nulla. Anzi, proprio nulla. Che io sappia, non ha nessuna militanza, nessuna esperienza di comitati politici, direttivi di circolo, congressi di partito, assemblee pubbliche… Ma è una persona cui piace parlare.

Dopo il mio post su Capezzone, apparso, in forma ridotta, su Stato Quotidiano (http://www.statoquotidiano.it/27/10/2010/e%e2%80%99-autunno-capezzone-coglie-castagne/36491/), Matteo Palumbo (che potete leggere in tutto il suo splendore nel commento corsivo, incapace ad usare gli apostrofi per accordare articoli e nomi – UN INTERVENTO, SANNO ANCHE I BAMBINI, SI SCRIVE SENZA APOSTROFO…) ha pensato bene di commentare con terze persone il fine del post stesso.

Le opinioni sono quelle di cui sopra. Ovviamente, non mi fanno nè caldo nè freddo. A dire il vero mi fanno un pò pena. Mi fa pena sentirlo parlare di giornalismo da censurare, di scivolone. Il tutto in un lessico che vuole essere alla Montanelli ma che, al massimo, è da cronista di strada.

Ahilui, si lamenta. Eh già. Il “deplorevole” scempio di un giornalismo che non si pone a novanta gradi, solidale con tutto e con tutti è indigesto al soldatino Palumbo. Di cui, sia chiaro, sono stato collega per un anno e mezzo. Le nostre strade si sono incrociate e divise senza sfiorarsi. Un contorsionismo strano ma vero. Un rapporto evidentemente bastevole, per lui. Tale da permettergli di levarsi, ora, qualche sassolino dalle scarpette linde e pinte.

La vera tristezza, caro Matteo, è quella procurata da giornalisti che, in nome e per conto di schifosi intrallazzi personali, arrivano a chiedere la censura di altri giornalisti. Che, arroccati nelle torri d’avorio che oggi ci sono e domani chissà, credono di poter liberamente motteggiare, additare, ergere a paramentro altrui la propria servitù. Difendere, dunque. E difendere sempre.

E si che tu dovresti sapere che le mie stilettate vanno a destra, sì, ma spesso anche a manca. Leggilo, questo mio blog e fatti, se ci riesci tutto da solo, un’idea (notare l’accento). Io ne dubito, ma i miracoli, in fondo, possono accadere…

Published in: on 28 ottobre 2010 at 22.29  Comments (5)  
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Bye Bye Silviè… Fli in Capitanata fa proseliti

Silvietto strabuzza, Gianfrà lo addita. Era il 22 aprile

Foggia – SEI mesi. Tanti ne sono trascorsi dalla Direzione nazionale del 22 aprile che sancì di come Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi fossero, chiaramente, due mondi a parte. Due capi, due posizioni. In mezzo, fra loro, un muro dalle pareti lisce, liscissime. Di qui, con il premier, lo sciame dei soliti noti, intervenuti a sostenere non una linea, ma un credo; di lì, con il Presidente della Camera, i “pochi ma buoni”, i coraggiosi ed imprudenti. All’inizio non erano che undici. Quanto i titolari di una squadra di calcio.

Mezzo calendario dopo, sono molti, ma molti di più. La corrente interna è diventata grande, ha camminato, rafforzando le gambe ed imparando la strada. Ne è nato Futuro e Libertà, la cosiddetta “formazione di Fini”. Chissà perché, anche adesso che il destino è segnato, nessuno si permette ad assurgerle alla dignità di partito. E sì che, a differenza del Pdl, lo è sul serio.

Gianfranco non scherza. E non scherzano i suoi marescialli. Il dito puntato contro Berlusconi non fu che il principio. Lì a Roma il pensiero si fece verbo, il verbo si fece carne, la carne si fece partito. Il modo migliore per differenziarsi: rinascere dalle ceneri. Ogni connubio politico è stato la Fenice di un altro antecedente. La Democrazia Cristiana del Partito Popolare, Alleanza Nazionale del Movimento Sociale, Democratici di Sinistra e Rifondazione Comunista del Partito Comunista, Forza Italia, del marcio di ognuno di questi.

Così il PdL che non trova la quadra e che si apre allo sfascio, perde la parte più marcatamente inserita nella disciplina di partito. Quella che non sbaglia le firme. Lo ha detto anche Ernesto galli della Loggia, sul Corriere di una decina di giorni fa: “il Pdl, di plastica o no, comunque non è un vero partito. Nel caso migliore una corte di ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze”. Fli, al contrario, può diventarlo.

 LA CAPITANATA – Prendiamo la Capitanata, ad esempio. E prendiamo il suo esponente di punta, Fabrizio Tatarella. Trentatré anni ed una lunga militanza politica già incamerata. Ovvero, le condizioni capaci di assicurare, nel contempo, la garanzia di solidità e la certezza del futuro. Futuro e Libertà riparte da dove si è interrotta An: costruendo sulle certezze. La visita di Fini a Foggia e la prima Direzione provinciale sono la prima pietra miliare di un cammino che nasce per essere lungo. Tutti contenti e tutti entusiasti, i finiani. Che, mentre incassano i sì di amministratori e dirigenti pidiellini, ed attendono gli incerti, badano bene, parole di Tatarella a Stato Quotidiano “a partire dal basso”. Per contrappasso: evitare i cantieri lunghi – la fase di transizione del Pdl ha tutta l’aria di essere ancora in corso – e le tentazioni elitarie. La fotografia, d’altronde, è impietosa per il partito di Berlusconi. Che, seppure faccia leva su preferenze talora oceaniche, è assuefatto a poche personalità, autentiche casseforti elettorali. Manca l’organigramma definitivo, confuso in beghe di potere locali; manca l’indirizzo, sperso in una fumosa cortina, mancano le tessere e l’attività di circolo. Manca, soprattutto, un progetto. Il coordinatore provinciale, Gabriele Mazzone, ha fatto il suo. Ha 83 anni, mezzo secolo esatto più di Tatarella ed è in balia dei potentati interni. Non parla mai e, quando parla, sciorina un politichese d’antan. Al contrario Tatarella racconta e si emoziona finanche per “la ritrovata passione politica”, parla di voler fondare Fli sui giovani e sulla gente.

 FOGGIA, PALAZZO DOGANA – A Foggia, lo stallo sta innervosendo molti militanti. E non solo. L’avvocato cerignolano coordinatore di Fli conferma che “molti consiglieri comunali e provinciali sono perplessi nei confronti del Pdl, ma timorosi a venire con noi”. Ed “attendono l’occasione, il momento buono”. Qualcuno, però, ha giocato d’anticipo. Come Emilio Gaeta, consigliere a Palazzo Dogana. Proprio nella sede di Antonio Pepe e Leo Di Gioia. Rispettivamente, capitano ed aiuto capitano del barcone fallato dell’Amministrazione di centrodestra. Proprio loro che Tatarella bolla come “i più finiani di tutti”, da sempre, hanno scelto l’attendismo. Poltrona sicura e, per ora, va bene così. Restano, ovviamente, i dubbi strategici, oltre a quelli valoriali. Perché Pepe, onorevole vicinissimo da sempre a Gianfranco, adesso non dà segni di vita? Il pericolo della crisi amministrativa è dietro l’angolo, certo. Ma la fase è delicata e tanto vale rimettere tutto in discussione. “Per ora – assicura cauto Tatarella – mi sento di escludere stravolgimenti a Palazzo Dogana”.

 LE MIGRAZIONI – Appunto, per ora. Il motivo è presto detto. C’è l’urgenza di puntellare lo scacchiere militante. Contare circoli ed iscritti, misurarsi con le prime prove interne, testare il grado di fedeltà e inzuppare il frollino Fli nel futuro. Le sedi si stanno spargendo a vista d’occhio. Foggia ne ha addirittura quattro. Due Cerignola e San Severo. Uniformemente, Gargano, Tavoliere e Monti Dauni, sono investiti dall’onda finiana. “Che è onda entusiastica”, certifica Tatarella. Che aggiunge: “Oggi abbiamo aperto le sedi di Lesina e Poggio Imperiale. Tolti Chieuti, Anzano, le Tremiti e quale piccolissimo comune, abbiamo circoli ovunque”. Con il grande apporto di Generazione Giovani.

 Ma per chi tituba, c’è chi si espone. Futuro e Libertà ha spostato dalla sua il primo sindaco, Rino Lamarucciola, sindaco di Pietramontecorvino, molti consiglieri, ed il Presidente del Consiglio Comunale di Orta Nova, Valentino D’Angelo. Ha incassato i sì di Umberto Candela e Roberto Iuliani, ex dirigenti pidiellini, e si appresta “a scuotere dalle fondamenta il sistema di potere interno al Popolo delle Libertà”. L’obiettivo è di creare il ponte giusto per favorire l’esodo di massa. Egira, quella dal partito di Mazzone, di cui Tatarella si dice “certo”: “Sono allo sbando, il berlusconismo è al capolinea”. Eppure, le migrazioni stanno avvenendo anche dal fronte centrista e dal Pd. Militanti delusi, per la maggior parte, ma non solo.

 LE POSTAZIONI E LE STIME – Ci sono. E sono nei grandi centri. Foggia e Cerignola, innanzitutto. Il capoluogo, notoriamente finiano; la città divittoriana, centro d’irradiazione dei Tatarella verso il basso Tavoliere soprattutto. Ma anche San Severo e Lucera. È qui, che potrebbe consumarsi la vera sorpresa e la differenziazione. Nel centro federiciano, la politica è in crisi, centrodestra e centrosinistra sono entrambe allo sbando. Pasquale Dotoli, sindaco PdL, vincitore l’anno scorso a seguito di un vero e proprio plebiscito, è alle prese con difficoltà gestionali sempre maggiori. La maggioranza si frantuma ed il Pd, al contrario, latita silente. In questo contesto, i finiani puntano a fare il colpo grosso, sbancare il tavolo ed immagazzinare una buona fetta di consensi.

Consensi che vengono stimati dallo stesso Tatarella nell’ordine delle due cifre. E con Stato ragiona: “Consideriamo che An – parte da lontano – poteva contare a livello regionale su un buon 12%, che saliva al 15 in Capitanata”. considerando l’imbarazzo e le problematiche iniziali “siamo nell’ordine del 13%”. Avesse ragione lui, sarebbe una rivoluzione.

LEGGILO ANC HE SU http://www.statoquotidiano.it/27/10/2010/siamo-il-popolo-che-ha-ritrovato-la-passione-tatarella-presenta-fli/36529/

Giochi, merende, fiabe e teatro. I sabato pomeriggio scaldàti da Ubik

Cinque incontri, a partire dal 6 novembre (conclusione, di conseguenza, il 4 dicembre), ogni sabato pomeriggio. Appuntamento fisso con la rottura dello schema che vuole il tempo libero assuefatto alla monotonia catodica della televisione. Apertura, fantasia, creatività. Tornare indietro affinchè, quel dietro, possa rappresentare una forma di intrattenimento e, insieme di formazione. Tornare a vivere la magia delle favole, dello stare insieme. Dopo il successo della scorsa stagione torna, anche quest’anno, “Merende da favola”, laboratorio di lettura e narrazione animata di fiabe, allestito dalla Libreria Ubik di Foggia in partnership con il Teatro dei Limoni. Protagonisti, anche per quest’anno, i bambini di età compresa fra i 5 e gli 8 anni. Saranno avvinti da un mondo altro, una dimensione parallela fatta di colori e di spazi fantasiosi. Muoveranno i loro passi nei regni del passato. Quegli stessi che sono stati calpestati, ancor prima, dai fratelli maggiori, dai cugini più grandi, dai genitori. E, chissà, dai nonni. Tuttavia, loro lo faranno concretamente. Le favole saranno non soltanto raccontate “per” i bambini, ma “con i bambini”. Il tutto grazie alla collaborazione con la compagnia foggiana di Via Giardino, che metterà a disposizione i suoi attori.

I piccoli saranno stimolati nella rappresentazione e nell’invenzione. Spetterà a loro spargere la polvere magica suelle ali dei pomeriggi e renderli volanti, leggeri come farfalle. Gioco e creazione; immagini e lettere, musica e personaggi. Tutto sarà sovrapposto o sovrapponibile. Tutto raccontato o raccontabile. Senza limiti, senza convenzioni, senza filtri, se non quello del divertimento. Il filo rosso che legherà i cinque incontri sarà la fiaba italiana. Cardine, e non sarebbe potuto essere diversamente, il lungo lavoro di raccolta messo insieme da Italo Calvino. Non ancora Propp, ma comunque consistente.

Ma raccontare significa anche vivere. E vivere è interagire, socializzare nella vita quotidiana, nella realtà. Così, scomparsi cavalli e castelli, dame e prigioni, draghi e regni, fate ed orchi, tornati nello spazio eventi di Ubik, i bambini si confronteranno con gli altri. Attraverso la parola ed il gioco. Ed anche attraverso quegli attimi così preponderanti per loro che sono quelli durante cui consumano la “merenda”. A coronamento di ogni incontro, infatti, il biscottificio foggiano D’Onofrio, produttore della Doemi, offrirà i dolci del territorio. Informazioni e costi, sono disponibili presso la libreria di Piazza Giordano.

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E’ autunno. E Capezzone coglie castagne. In faccia…

Al lavoro!

Non fischiettiamo impassibili. Avremmo voluto farlo tutti. Vuoi mettere un cazzotto in faccia a Daniele Capezzone? La soddisfazione di scompigliargli quell’aria di sufficienza coatta che ha stampato in volto? Vuoi mettere a farlo tacere? Capezzone è uno che se le tira e qualcuno non se l’è tenuto. In un’ipotetica classe, sarebbe il folklorisrico ma immancabile sfigato occhialuto: aria saccente, altezzoso, e troppa voglia di parlare. Per sé e, soprattutto, per gli altri. Capezzone è l’attore non protagonista, il perfetto zelante da “lo dico alla professoressa”. Prestato indebitamente alla politica, Daniele-faccia-da-castagnone, è più Daitan che l’Uomo Tigre. Nel senso che ha rinunciato volontariamente ad accettare il male come un mezzo di perseguimento della causa onorevole; piuttosto, di onorevole, Al Cap(ezz)one ama lo stipendio, la fama, la ridondanza mediatica, l’eco dei flash nelle stanze chiuse da conferenze stampa. E, come un robot giapponese perde e riprende pezzi, sfoggia parole di inzuccheramento di massa. Si adegua all’avversario ma, soprattutto, al suo comandante in capo, l’esimio Mr. Silviomery Burnesconi…

Il primo pugno preso da Capezzone

È un tipo da scompisciarsi dal ridere, Capezzone. Come un bimbo pacioccone, lo metti nel seggiolone e nel seggiolone rimane. Fin tanto che, qualcuno, non gliene regali uno nuovo. Prima il cuscinone radicale sotto il culetto delicato di inesperto della comunicazione (ma sempre con lo sguardo fisso alla telecamera, più convinto di Tom Cruise, più deciso di Brad Pitt, più glaciale di Clint Eastwood), a spendere e spandere minuti e comparse, gentilmente sponsorizzato dalla spalla clownistica Chiambretti, in televisione. Una vita catodica. Pendolare sì. Mai sulle reti ferroviarie, ma sempre su quelle televisive. Con indifferenza di preferenze, Rai, Mediaset, La 7. Sempre e solo lui. Con Marco Pannella in cabina di regia ed Emma Bonino alla scenografia, il giovanotto frigido è stato costretto a crearsi una sua personalità, a ritagliarsi un suo spazio. Che poi, stranamente, il ritratto venuto fuori è “nessuna personalità e nessuno spazio proprio”, poco importa. Resta la gioia disonorevole ma remunerativa di brillare della luce degli altri, di dar voce a quello che gli altri vogliono che tu dica, con sintagmi che non sono nemmeno i tuoi.

Un po’ Pietro, un po’ Giuda, l’apostolo Capezzone. Il favorito di tutti, il coccolato, il delfino le cui molteplici boiate erano catalogate alla stregua di peccati di gioventù. Normali e forse anche pedagogici. In fondo soltanto chi non fa nulla non sbaglia mai. Qualche dubbio iniziò a venire al suo Messia benedicente allorchè si rese conto che lo sbarbatello non solo sbagliava spesso, ma aveva la capacità di farlo pur nella sua immobilità. E, in un infuocata Direzione radicale, glielo rinfacciò con la storica frase, da manifesto: “Ma ti credi davvero di essere  un grande stratega mentre gli altri sono tutti stronzi?” Fu l’epigrafe dell’appartenenza di Capezzone alla Rosa nel Pugno.

Poi, il salto a destra, a fare il buffone del marajà Silvio Berlusconi. Alla corte dei miracoli non mancava che lui. Una riconversione rapida, un mascheramento senza neppure cambiare la maschera, un trasformismo negli stessi vestiti, e Waylon-Dany-Smithers, oplà, ce lo siamo trovato dall’altra parte. Una folata di vento e la bandierina è finita dritta dritta nel campo nemico, sciuscià del potere più potente, al sicuro da nuovi ostracismi. Già, perché si è scelto il padrone giusto, il fido Capezzone. A Silvietto piacciono i viscidi, gli esecutori degli ordini, le bocche senza il filtro del cervello, gli SSS. Cioè, gli Scipiti Soldati Semplici. Don Silvio, si sa, è un padre buono. Uno che perdona che gli errori di gioventù. Chi, in fondo, non ne ha fatti? E poi proprio lui che è il campione dell’umanità, della giustificazione della debolezza della carne di fronte ad altra carne, al luccicare goloso del denaro, al desiderio sbavato di fama. E al cavaliere, è storia risaputa, piacciono da morire anche le puttane. Non a caso, Capezzone è una mignotta impenitente, una di quelle che si vende per il gusto divendersi; una zoccola impudica e di basso bordo. Una lucciola da statale e fuoco acceso nel barile in ferro, una prostituta da roulotte. Non carne di lusso, ma in scatola. Non una escort, nè una geysha. Danieluccio è una di quelle battone che tutti, menager pervertiti e vecchi imbottiti di viagra, possono permettersi. E’ da Via del Campo, mica da Hilton…

Perciò, nessun peso a chi abbia detto cosa e di chi. Meglio pensare di cosa dire in futuro su cosa. Meglio, non dire… Ma la memoria “fa un lungo giro e poi ritorna”. Come gli amori di Venditti. Ed allora, eccola qua una sequela di scatti del vecchio Daniele. Argomento: il nemico psico nano.

LE LEGGI TALEBANE. “Il primo ministro Berlusconi si è sdraiato per due ore sulla prima rete televisiva, riversando sugli spettatori la sua soddisfazione per trionfi, miracoli, successi che nessuno, ormai, scorge da nessuna parte, a parte i tenerissimi Emilio Fede e Sandro Bondi […] Ciascuno può vedere a che punto siamo dopo due anni e mezzo nei quali Berlusconi ha avuto una maggioranza di 100 deputati alla Camera e di 50 senatori a Palazzo Madama: nulla di quanto fu promesso allora si vede oggi, e, per sovrammercato, sono state varate (o sono in via di perfezionamento) leggi letteralmente talebane”
29 maggio 2004

DITTATORUNCOLO SUDAMERICANO. “Berlusconi si sta piuttosto orientando verso il modello sudamericano”.
12 dicembre 2004

DON LURIO. “Ho sentito che Silvio Berlusconi si è paragonato a don Luigi Sturzo, ma a me sembra che sia più l’erede di Don Lurio

8 dicembre 2005

LA PAR CONDICIO. PER GLI ALTRI. Leggo che Silvio Berlusconi torna a dire che dovrebbe essere tolto ogni spazio politico in tv, in campagna elettorale, ad un soggetto politico nuovo che dovesse presentarsi con un simbolo nuovo. Trasecolo. Se infatti questo criterio berlusconiano fosse stato adottato nel 1994, un partito nuovo come Forza Italia (destinato a divenire, alla sua prima presentazione, partito di maggioranza relativa e perno della coalizione vincente) avrebbe avuto in tv zero ore, zero minuti, zero secondi. Se ciò fosse avvenuto ovviamente Berlusconi avrebbe gridato contro il complotto comunista o qualcosa del genere… La mia impressione è che Berlusconi ignori l’abc della democrazia politica: e regola elementare vuole che, almeno in quei quaranta giorni, almeno in campagna elettorale, tutti partano dalla stessa linea. Altrimenti molto semplicemente, la corsa è truccata”
15 gennaio 2006

BISCARDI. Il primo processo a cui Berlusconi si è presentato spontaneamente è quello di Biscardi, poi si è fatto prendere la mano e non si è più fermato”

DO NASCIMIENTO. “Il Premier mi ricorda sempre di più l’indimenticabile Mago do Nascimento eroe di tante telepromozioni televisive. Lui sta, francamente, scendendo di livello: da venditore ambulante di tappeti mi pare divenuto un venditore ambulante di cravatte. E ormai, giorno dopo giorno, dà l’impressione di non ricordare più né le promesse né le bugie dette il giorno prima. Io, da militante radicale, sono in ogni caso fiero del dna liberale di Radio Radicale, dove parlano soprattutto gli avversari. Insomma, il contrario di quel che accade a Mediaset, per fare un esempio…”
11 febbraio 2006

MATTO. “Con la sobrietà e l’understatement che ormai abbiamo imparato a riconoscergli, Silvio Berlusconi si è ieri paragonato a Napoleone, e oggi a Winston Churchill (quest’ultimo paragone è stato poi rigorosamente fatto parlando di sé in terza persona, come era solito fare Giulio Cesare, e, in tempi più recenti, Diego Maradona…). Ormai, il premier mi ricorda la nota barzelletta dei due matti in manicomio, uno dei quali dice: “Io sono Mosè, sono sceso dal Monte Sinai, e Iddio mi ha dato le tavole della legge”. E l’altro matto, offesissimo, replica: “Ma guarda che io non ti ho dato niente!” Ecco il Premier potrebbe tranquillamente essere scritturato per il ruolo del secondo matto; resta da capire se la parte del primo (del novello Mosè) verrà affidata a Bondi, a Emilio Fede, o a chi altri…”
24 febbraio 2006

TOTò E PEPPINO. Sto ascoltando l’esordio del discorso di Silvio Berlusconi al congresso Usa, pronunciato in lingua inglese, o almeno questa doveva essere l’intenzione… Torna alla mente, ascoltandolo in questa che appare per lui un’improba fatica, l’immortale scena di Totò e Peppino a Milano col colbacco, che si rivolgono al vigile dicendo: Noio voleva’n savuar…”
4 marzo 2006

IL PREMIER CANNATO. “Dopo l’ultima sortita di Berlusconi, che pensa bene di trattare da ‘coglioni’ la maggioranza degli italiani, mi sorge il dubbio che si sia fatto una canna. Ma forse una canna normale non avrebbe prodotto effetti simili: e allora che gli ha dato il pusher per fargli dire una cosa del genere? Comunque, stia attento: dopo la nuova legge del suo governo e dopo le tabelle rese note oggi, rischia grosso…”
5 aprile 2006

Le menzogne del potere contro sè stesso. Wikileaks parla di Marracino

Il re è nudo ed è costretto a prestare alla verità il suo fianco debole. Anche se, facendolo, paradossalmente mostra il suo volto più spietato e crudo. Insabbiamenti, silenzi, normalizzazioni forzate. Come nel bel mezzo della guerra fredda, occorre edulcorare le conseguenze per giustificare le scelte che ad esse portano.
Chermes la femme. Il neo è allo scoperto. E, a metterlo in mostra, ci ha pensato ancora una volta il vituperatissimo Wikileaks.

Shot!

LA VERSIONE UFFICIALE – La storia di Salvatore Marracino, 28 anni, sanseverese, parà della Folgore di stanza in Iraq, sembrava essersi definitivamente chiusa con l’allestimento immediato di una versione ufficiale. “Fatalità” fu il termine usato allora per porre il lucchetto alla questione. Un’allora che risale al 15 marzo 2005. Durante un’esercitazione, Marracino, si sparò accidentalmente in faccia. Morendo sul colpo. Sfortuna e fatalità. Sembrava solo una coincidenza macabra, la sincronia fra l’ostruirsi della canna della sua pistola, ed il colpo che parte. Ed invece, cinque anni dopo, emerge una nuova testimonianza che rischia di mettere in discussione la ricostruzione. Diciamolo in italiano: per un lustro si è portata avanti una menzogna. Una perversione atroce e controproducente. È da brividi, alla luce di quanto emerge ora, leggere le dichiarazioni di Marco Follini, a quel tempo vicepresidente del Consiglio, sponda Udc, oggi traslocato, armi e bagagli, nel Pd: “Marracino è morto tentando di risolvere un inceppamento della sua arma”. Nel migliore dei casi, una delle cariche più alte del Paese di appartenenza del soldato defunto era stato tenuto all’oscuro delle cause della morte di un soldato in missione ufficiale. Nel peggiore, Follini ha mentito sapendo di mentire.

IL RAPPORTO – Ed allor va la pena di leggerlo il documento sputtanato in faccia a governi e gente di poca fede dal sito americano. Si tratta di un rapporto americano dello stesso 15 marzo, ovviamente top secret. Registra che “alle ore 13, un (militare italiano) stava prendendo parte a un’esercitazione di tiro a Nassirya. È stato accidentalmente colpito (alla testa)”. Stando così i fatti, ci sono pochi dubbi che ad ammazzare il giovane sanseverese sia stato il fuoco amico. Tuttavia, a causa di molti omissis, mancano ulteriori precisazioni. Rimangono i passaggi successivi: il trasferimento del ferito al campo e poi in ospedale. E, soprattutto, la classificazione dell’accaduto “come incidente”. Insomma, nessun colpevole.

Mah

I DUBBI – Ma che qualche dubbio si nutrisse in ambito militare, lo testimonia l’inchiesta avviata, a 48 ore dalla morte di Marracino, dal Procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, non del tutto convinto delle dinamiche dell’ “incidente”. Troppa, innanzitutto, l’esperienza del parà della Folgore, per credere che si rivolgesse contro il volto un’arma inceppata. Impegnato in missioni militari operative all’estero (Kosovo ed Afghanistan) da quasi dieci anni. E strana, inoltre, la ferita. L’autopsia, affidata a Vittorio Fineschi, direttore della scuola di specializzazione in medicina legale dell’Università di Foggia, accertò che il colpo fosse non al di sotto dello zigomo (come inizialmente confermato da fonti militari e come sarebbe normale alla luce della posizione assunta dal militare nel controllare la canna), ma all’altezza della fronte.

LA MAMMA – Ma insinuarono qualche interrogativo anche le parole pronunciate dalla mamma di Marracino, Maria Luigia Grosso, che, in occasione dei funerali di Stato riservati al figlio, pretese che fossero rischiarate le zone d’ombra. Maria Luigia che, oggi, intervistata dall’Ansa, torna a ribadire il fatto che, per anni, alla famiglia è stata concessa una sola verità. Ovvero, quella ufficiale. Che, paradossalmente, è quella probabilmente falsa.

Zemàn (o Zemanne?) sotto ar cuppolone…

Zemàn o Zemanne? È uguale. Che si pronunci alla foggiana o alla romanesca maniera, Mister Simpatia resta sempre la personificazione di un tripudio emozionale.

Eccettuato questo inizio di stagione inatteso ma entusiasmante, l’Atletico Roma non ha mai avuto dalla sua un’orda di fan. Non facile, sia chiaro, in un contesto sportivo monopolizzato non da una, ma da due società calcistiche. C’è ‘a Roma e c’è ‘a Lazio. Eppure il Flaminio, in questo pazzo pazzo sabato di fine ottobre, sembrava, in confronto al solito grigiore, il Maracanà. Per una settimana intera i quotidiani sportivi nazionali non hanno avuto occhi, Lega Pro parlando, che per la rimpatriata di Zdenek sotto ‘ar cuppolone. Una temperie di ricordi scatenata a bella posta per scomodare la vigilia di quella che, a tutto merito, è forse la sfida più entusiasmante del girone B ma che, senza il suo simbolo dell’Est, non sarebbe altro che una noiosa partita di scarso interesse.

È finita 3 a 3. Ed è sempre più chiaro che non c’è nulla da sbigottirsi o da strabuzzare gli occhi. Né di fronte ad una difesa altissima ma colabrodo. Né tantomeno ammirando – direbbe Lotito – le res gestae delle punte rossonere. Una domenica il folletto Sau; un’altra lo scugnizzo Insigne; un’altra ancora l’altalenante Laribi. Stavolta, nella scorpacciata del sabato, è stata la volta di quella scheggia impronunciabile di nome Agodirin.

È finita 3 a 3 e forse non c’è di che meravigliarsi se gli arbitri godono a strombettare allegramente contro i Satanelli, quasi come il Foggia fosse un bersaglio e falli e cartellini le freccette. Sua Granitudine Casino Casillo fa sapere che, dovesse andare avanti così, ritirerà la squadra. Boutade capitoline. Dicesse sul serio, scoppierebbe la Rivoluzione (d’ottobre, in questo caso) dauna.

È finita 3 a 3 e, sull’affollamento dei tabellini, mancavano soltanto i nomi degli spettatori. Che erano tutti per Zemanne, a buttare qualche sguardo agli spalti. Dei circa 3500 presenti, 2500 montavano in petto cuore rossonero, altre svariate centinaia erano curiosi e vip a sostegno dell’ex coach della Maggica. Ma Zdenek fa il modesto e, ai microfoni di La7, li ridimensiona con una fase sbruffona come un motteggiare di Rocky Balboa: “Nostalgici di me? No, solo amanti del bel calcio. Ovvero, del suo. Gigi Di Biagio e Fabio Fratena, giocatori. Bobo Craxi, parlamentare. L’identikit dello zemaniano è vasto e vario come il mondo.

Ma, più di tutti, non poteva mancare Antonello Venditti. Che, al boemo – almeno così si racconta –, ne ha cantata una delle sue: “Mister, non ti riconosco più, mi hai tolto una punta a dieci minuti dalla fine (Laribi) per difenderti?”. Un sorriso, un abbraccio e via, muto ed impassibile a scrutare il prossimo impegno di campionato.