Tutto l’imbarazzo di Pepe…

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Il notaio è imbarazzato. Per Antonio Pepe sono giorni complicati, stracolmi di veloci evoluzioni ed altrettante repentine involuzioni. Sale e scende il suo borsino di Presidente della Provincia a seconda dell’andamento e della quotazione di questo o quell’Assessore nella corsa per le Regionali dell’anno venturo. Perché è proprio a partire da questa base che si apriranno, nell’immediato, gli scenari più importanti per il centrodestra. Panorami che tengono insieme, in un unico sguardo, la casa (il Pdl), la Capitanata (quindi le sorti dell’amministrazione Pepe) e la Puglia (candidatura nelle liste in corsa per le elezioni di marzo). Fatti fissi gli equilibri, che rimangono sempre quelli, con la gara a rincorrersi e superarsi fra il senatore Carmelo Morra, il tandem forzista Lucio Tarquinio – Tonio Leone, il consigliere regionale uscente Roberto Ruocco e l’europarlamentare Salvatore Tatarella, motivo di accigliamento per il Presidente Pepe è il ruolo che, in queste Regionali 2010 avrà Leo Di Gioia. Il giovane Assessore, braccio destro del notaio, è considerato da più parti il vero padrone di casa a Piazza Venti Settembre. Pepe, sempre molto impegnato, gli ha delegato, sin dall’inizio della legislatura, tutti i poteri. Una situazione tutt’altro che comoda per l’ex consigliere comunale aennino. In virtù di questa sua posizione, Di Gioia è costretto a muoversi con un perenne passo felpato. Col rischio, sempre vivo, di pestare i piedi del Presidente. Impossibilitato a candidarsi a giugno nelle elezioni per il Consiglio Comunale, rischia di dover ritrarsi anche in questa nuova tornata pugliese. Pepe, dal canto suo, senza Leo non compirebbe un solo passo e porrebbe in discussione l’impostazione globale di una giunta già di per sé litigiosa da mesi, dove le divisioni sono all’ordine del giorno e dove l’Udc è sempre più incerto sul da farsi (la vittoria della mozione Bersani al congresso del Pd potrebbe anche essere la spallata finale al gigante post democristiano). Come dire, Di Gioia a Bari esautorerebbe il Presidente da ogni vincolo. Il che pone Pepe nel bel mezzo di una crisi personale prima ancora che politica. Il notaio non ha mai gradito l’investitura a Presidente di Palazzo Dogana. Che, sommato con il seggio in Parlamento, gli conferisce autorità, ma sottrae tempo al professionista. Gli accordi, ora più che mai, sono chiari. Ed il Presidente ha già in mano la decisione. Terminate le scadenze, tirerà i remi in barca, consegnando tutto a un sempre più istituzionale Di Gioia. Ciò che lo blocca e che, di fatto, mantiene viva la fiammella della sua amministrazione è, oltre al ruolo del suo delfino, anche il tacito patto di non belligeranza stipulato con Tonio Leone e Carmela Morra. I due, che esprimono un buon numero di propri assessori, non hanno, a differenza degli inquieti Santaniello e Tarquinio, nessuninteresse a mettere a rischio gli equilibri di Palazzo Dogana. Fatto sta che Leo scalpita. Il suo nome venne a galla, e con una certa insistenza, nella corsa alla sindacatura di Foggia (arrestato proprio da Pepe). Il che, probabilmente, avrebbe determinato la vittoria del centrodestra al primo turno. Sebbene in molti alludano al fatto che lui, tra le altre cose al di fuori dalle spartizioni e svincolato quasi del tutto da cordoni ombelicali che obbligano i politici locali ai rispettivi riferimenti nazionali, non abbia abbastanza voti neppure per garantirsi il seggio a Via Capruzzi. Leo incassa e va avanti. Già da tempo è impegnato nella campagna elettorale, forse certo che questa possa essere la volta buona. Per questo starebbe intavolando tutta una serie di incontri con i cittadini, con i settori produttivi, con esponenti del mondo dell’associazionismo. Altra situazione, questa, che tormenta il Presidente. Nella corsa alle Regionali è infatti lanciato anche Pico Pico De Leonardis, imparentato con lui. Un vincolo di sangue che difficilmente potrà essere eluso. E, nello stesso tempo, un motivo in più per tenersi stretto Di Gioia. La cui permanenza, paradossalmente, farebbe comodo anche agli eterni scontenti che si sentono poco rappresentati in giunta. pepe, si diceva, senza il fedele Leo non avrebbe alcuna ragione a tirare avanti. Anche se la sua candidatura sarebbe il segno di un allargamento degli equilibri interni al Pdl e costituirebbe la frattura dei vecchi sistemi di potentato (anche considerando quanto sgomitano altri homines novi del centrodestra di Capitanata, a partire dal gruppo lucerino appoggiato da Carmelo Morra). Il meccanismo, più volte evocato in estemporanee uscite di esponenti più o meno autorevoli del Pdl, potrebbe essere favorito anche dal turn over che il pdl sarebbe in procinto di attuare per puntare al ringiovanimento della rosa dei suoi competitors. In uscita ci sarà di certo Enrico Santaniello, che proprio in un’intervista rilasciata a l’Attacco, ha confermato la decisione di non voler sedere più in via Capruzzi. Rimane l’incognita Tarquinio. Dovesse passare, all’interno della formazione berlusconiana, l’azione di rinnovamento decisa all’interno della stanza del Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, allora le carte sul tavolo andrebbero a rimescolarsi. Ed il primo a rientrare nel giro dei giocatori potrebbe essere proprio Leo Di Gioia. Con tutti gli inevitabili grattacapi, ancora una volta, per Pepe.

(L’attacco, 18 ottobre 2009)

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Le Primarie del Pd in Capitanata

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Pierluigi Bersani è il nuovo segretario del Partito Democratico. Da ieri il più grande soggetto di centrosinistra parte per una nuova avventura. L’ex Ministro ha, quando andiamo in stampa, il 53.3% delle preferenze con il 73% delle schede scrutinate. I votanti sono stati, in Italia, quasi tre milioni. Un milione in meno rispetto ad ottobre 2007. Quando, tuttavia, i seggi chiusero alle 22 e non alle 20 come domenica. Il calo nazionale s’è ripercosso anche sul dato locale. In Puglia, dove due anni fa si mossero in 270 mila, sono stati 173 mila i votanti (qualche migliaio in meno per la scelta dei delegati regionali); mentre in Capitanata, la flessione è stata nell’ordine delle 15 mila persone. Rispetto ai 45 mila del 2007, in fila si sono messi in 29 mila.

Nazionale. 17.865 preferenze accordate a Pierluigi Bersani, 9.624 a Dario Franceschini, 1.298 ad Ignazio Marino. In percentuale siamo su livelli consolidati: 62,07% per l’ex Ministro, 33,42% per il segretario non rieletto, 4.50% per il chirurgo milanese. Il popolo delle primarie di Capitanata, così com’è stato definito sin dalla prima acclamazione di Romano Prodi, conferma il giudizio emesso dagli iscritti solo qualche settimana fa nelle convenzioni dei circoli. Che la provincia di Foggia sia un feudo del dalemismo, lo si legge nella patologia delle cifre. Il candidato piacentino, nuovo segretario eletto del Partito Democratico, ha ottenuto un riscontro superiore soltanto nell’altro possedimento del Presidente del partito. Vale a dire l’area jonico salentina, dove la mozione capeggiata da Pierluigi Bersani, spinta da un lato dal turbo del lider maximo e dall’altro dalla favorevole congiuntura di nome Sergio Blasi, ha fatto man bassa di preferenze: 66.25% il dato finale, inferiore solo rispetto all’exploit riscontrato in provincia di Taranto (72.5%). La Capitanata si tiene al passo di Brindisi (60.66%) e Lecce (57.78%) Il maggior successo, in termini di voti, Bersani l’ha ottenuto nella roccaforte Manfredonia (mentre in percentuale il 97.33% di Monteleone è stato il culmine), con oltre tremila persone che hanno indicato il suo nome per la segreteria nazionale. Il tetto delle mille croci, il neo segretario l’ha sforato anche a San Giovanni Rotondo (2157) dove l’ex sindaco Mangiacotti ha scelto di andare alla conta interna, Foggia (1918, ma con una proporzione abitativa, rispetto al centro di San Pio, di uno a sei) e Cerignola (1165). Nel centro sipontino, Bersani ha fermato l’asticella delle percentuali al 73.58%, segnando un netto calo rispetto ai livelli fatti registrare nella convenzione del circolo. Allorquando l’ex Ministro arrivò ben oltre il 90%. Chiave di lettura del fenomeno è la partecipazione al voto di risultati fatti registrare a San Severo (936) e Torremaggiore (881). Ben diversa, invece, la situazione in alcuni centri come Vieste. Nel circolo del coordinatore della mozione Franceschini in Capitanata, Aldo Ragni, dove la convenzione aveva creato spaccature e polemiche tra le parti in ballo con lo stesso ragni da un lato e Mauro Clemente dall’altro, il dato è stato letteralmente rovesciato. 369 preferenze per la mozione di Bersani, 486 per quella capeggiata dall’ex segretario pd Dario Franceschini. Che, dei 54 comuni totali della provincia, si è affermato appena in diciassette, con picchi a Foggia e Manfredonia (inutili le oltre mille preferenze, perché minoranza). Mentre il dato percentuale più alto, la sua mozione l’ha fatto registrare a Volturino (85%).

Regionale. La notizia dell’elezione di Sergio Blasi arriva nella serata. Sono circa le 18.30 quando, nella sede del partito a Bari, l’ex sindaco di Melpignano, dopo una giornata in tensione, scioglie ogni dubbio: “Il popolo delle primarie ha sancito che sono il segretario del Pd della Puglia”, rendendo inoltre noto di aver ricevuto le telefonate di Guglielmo Minervini (candidato per la mozione Franceschini) e del sindaco di Bari e segretario uscente Michele Emiliano che si era candidato alla riconferma fuori dalle mozioni nazionali. Per lui vale il ragionamento analogo a quello sostenuto a proposito di Bersani. Forte del ruolo di consigliere provinciale e di un sedimentato dalemismo, Blasi, che pure non ha superato il tetto del 50% (si è arrestato al 49.12%) ha fatto il pieno di preferenze nelle province di Lecce (66.25), Foggia (seconda, con 56.96% – 16161 preferenze), Taranto (56.52%) e Brindisi (52.42%). Preceduti sia il sindaco di Bari Michele Emiliano, che ha ottenuto il 30.70% (in Capitanata titolare di 6344 preferenze, per una percentuale di 22 punti) e l’assessore alla trasparenza della Regione Puglia, Guglielmo Minervini (5869 voti e 20.6% in provincia di Foggia).  Foggia e gran parte della sua provincia, dunque, hanno scelto Blasi che, ovviamente, si è potuto comodamente adagiare sui dati di Manfredonia (2893 voti e oltre 70%), San Giovanni Rotondo (1960 voti e il 62.80%), Cerignola (1057 e 51.24%), San Severo (787 e 52.89%) e, soprattutto, sull’incredibile risultato di Torremaggiore. Nel centro dell’Alto Tavoliere, Blasi ha ottenuto 897 voti su 961 elettori, per una percentuale che supera il 90%.Fa invece molto rumore il dato del capoluogo. A Foggia, data per terra di conquista bersaniana, dove Blasi aveva chiuso, di fatto, la campagna elettorale, il popolo delle primarie ha scelto la protesta. Relegato all’ultimo posto Guglielmo Minervini (meno di 500 voti per lui e nemmeno il 15%), le schede sono convogliate, come voto di protesta, su Michele Emiliano. Le accuse lanciate contro la dirigenza di via Lecce, evidentemente, non sono rimaste parole al vento. Il sindaco di Bari è giunto secondo per appena una cinquantina di voti (1472 per Blasi, 1417 per lui). Va specificato, senza nessun candidato nazionale a trainarlo in questa donchisciottesca battaglia. Ma, al di là del capoluogo, Emiliano non ha fatto registrare vittorie di peso, limitandosi a capeggiare soltanto in piccoli centri come Biccari, Troia, Rocchetta, Zapponeta. Quota mille raggiunta soltanto in un altro caso: Manfredonia; mentre importante anche la stima di San Giovanni Rotondo dove, malgrado la netta vittoria di Blasi, il primo cittadino del capoluogo levantino ha ottenuto un buon 23% e 730 voti. Il grande sconfitto resta, a questo punto, Guglielmo Minervini. L’Assessore sarebbe dovuto essere non l’outsider, ma il principale avversario dell’ex sindaco di Melpignano. Ed invece Minervini ha retto soltanto in poche realtà, prettamente piccoli centri. Buona la prestazione di Vieste (primo con 428 preferenze e una percentuale del 51.07%), discrete quelle di Cerignola (793 preferenze ed un ottimo 35.82%) ed Apricena (449 e 38%, nettamente avanti ad Emiliano). Meno buono, invece, il dato di Foggia, dove Minervini, preceduto da Blasi ed Emiliano, ha riscosso un modesto 14.55%.

(L’Attacco, martedì 27 ottobre 2009, pagina 2)

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La storia di Carmela, baraccata da 10 anni. Su Campo degli Ulivi al Comune di Foggia non resta che pregare

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Non dorme in un letto da dieci anni Carmela Longo. Nel suo container al Campo degli Ulivi, uno spazio di una ventina di metri quadri in cui risiede sin dal 2000, non c’è neppure la possibilità di farne entrare uno. Perché l’ambiente più grande è quello d’ingesso, che funge da salotto e cucina. Oltre a questo ci sono una piccola camera, televisione e divano – letto basso, ed un ripostiglio con lavatrice e scatoli con biancheria e tanta tanta roba che Carmela non è riuscita a sistemare altrimenti. Mucchi che “non ho più aperto da quando sono arrivata qui”. In effetti non è agevole la vita nei container che il Comune di Foggia, con delibera di giunta numero 290, ha acquistato dalla ternana Tecnifor per un costo complessivo di circa 560 mila euro. E la pioggia che, ieri, bagnava il capoluogo dauno non semplificava le cose. Le buche nell’asfalto, piene d’acqua, si trasformano in pericolose trappole per automobilisti e per residenti. Con il bel tempo, racconta Carmela, “i bambini corrono, giocano, scorazzano”. Ma in queste condizioni è impossibile. Troppo pericoloso. È solo una delle tante problematiche nascoste dietro quel cancello che separa la città da un pezzo di mondo apparentemente a sé.

Qui, nel 1998, il Comune di Foggia, all’epoca guidato da Paolo Agostinacchio impiantò 40 container. O, come le chiama da queste parti, “barracche”. Di quelli originari, attualmente, ne sono rimasti 36. Due estati fa, un corto circuito, “e non lo scoppio di una bombola” precisa Carmela, ne ha inceneriti quattro. “È stato quello l’evento più difficile di una vita tutto sommata tranquilla”. La signora Longo tiene a rassicurarci sulle condizioni generali sul campo. Perché, ricorda “c’è sempre qualcuno che sta messo peggio di noi”. Come nel centro di raccolta di Arpinova, dove altre dodici famiglie versano in condizioni nettamente peggiori.

Ma anche all’interno del Campo degli Ulivi, la normalità è altra cosa da quella del resto del territorio cittadino. Sarà per quella frontiera visibile concretizzata nel muro di cemento che una volta segnava l’accesso ad un impianto sportivo. Sarà perché l’impressione è quella di vivere in un condominio disposto in orizzontale, dove gli affari di una famiglia sono a disposizione di tutti.

L’aria è di provvisorietà. Una sensazione che se calza a pennello per una stanza d’albergo “non può diventare abitudine di vita”. Carmela riassume a modo suo, alternando italiano e dialetto, a suo modo. Con esperienze vissute e sentimenti personali. Pur senza cadere nello sconforto. Lei che è figlia “del cuore di Foggia” nata “nella zona del Cappellone delle Croci”, adesso si ritrova in un villaggio temporaneo. Prima di varcare la soglia che fa varcare anche a noi de l’Attacco, lei con marito e due figli risiedeva in un capannone adiacente all’Onpi. “Non eravamo in una reggia – rammenta – ma per lo meno era una dimora fissa e più agevole di questa di adesso”. La caduta di alcuni calcinacci fu il primo segnale dello stravolgimento. I primi controlli, la notifica dello sgombero. “La nostra casa, come quella di tante altre famiglie, venne dichiarata pericolante”. Carmela resistette un mese in albergo, a spese del Comune, poi il trasferimento al Campo degli Ulivi. Tutto il mobilio, inizialmente, venne messo a deposito all’interno di un capannone sito in via Lucera e pagato dal Comune. Fino a quando anche l’Ente di Corso Garibaldi non ha chiuso i rubinetti. “La nostra roba è stata gettata in mezzo ad una strada”. E, nell’impossibilità di sistemare tutto in uno spazio così piccolo come quello del container, la famiglia è stata costretta a gettare via anche pezzi importanti della propria storia domestica.

Suo marito è operaio in un’officina a villaggio artigiani, il che garantisce una certa dignità di vita. “Non ci manca il pane, abbiamo la corrente, l’acqua, la fogna, i climatizzatori senza spese”. Ma oltre al pane c’è tutta un’altra vita che Carmela ha perso da dieci anni: “Non un solo sfizio in dieci anni”. Tutto concentrato nei beni essenziali. Austerity e cinghi tirata ben oltre l’ultimo buco.

Da queste parti sono passati, prima e dopo le campagne elettorali, tanti politici. Ultimo in ordine di tempo, Michele Salatto, con una promessa. Ha lasciato intendere, ci confessa Carmela, “che nell’arco di due o tre giorni avremmo avuto buone notizie”. L’ex Assessore all’Urbanistica, nove su dieci, si riferiva all’acquisizione delle trentasei baracche da parte del Comune. Una notizia che, all’interno del campo, non ha fatto stappare lo spumante a nessuno dei residenti. “Credo – teme Carmela – che questo possa significare un dilatamento sui tempi di trasferimento”. Con annessi e connessi. Domenica, dopo oltre dieci anni, c’è stato il primo furto in uno dei container. I rapinatori hanno portato via una televisione, pochi soldi, un computer. Inoltre alcuni residenti iniziano a divenire insofferenti. “C’è chi invecchia e, visto che lo spazio è quello che è, inizia ad avere a noia anche soltanto i bambini che giocano”. Senza contare quelli che, elegantemente, Carmela chiama “i toponi”, per far fronte ai quali sono stati letteralmente adottati una decina di gatti. La pulizia di questa zona, come quella di qualsiasi altra della città, tocca alla municipalizzata Amica. “Ma l’abbiamo vista pochissime volte intervenire”.

La speranza,ci dice Carmela mentre ci accompagna all’uscio, è tutta nella risposta ad una domanda: “Quando durerà tutto questo?” E lei rimane lì, in attesa di un segnale.

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Dotoli non è diventato amico di Montagano…

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“Non intenderò sopportare oltre il tanfo che ammorba la città”. Pasquale Dotoli, sindaco di Lucera, non si fa intimorire. Le dichiarazioni di guerra lanciate da Stefano Montagano, amministratore della Ecoagrimm s.r.l., azienda di compostaggio di cui l’Attacco si è occupato ieri, non lo spaventano. In una lettera rivolta al primo cittadino dalle pagine del periodico “Il Frizzo”, il ventiduenne imprenditore aveva scritto di non volere più intralci nella sua attività e restrizioni. Pena, la chiusura dello stabilimento, il licenziamento degli operai e domanda di risarcimento stimabile in13 milioni di euro.

La puzza.

La risposta di Dotoli è quanto mai ferma. Il sindaco pidiellino eletto lo scorso giugno, mostra i denti e le unghie. “Che sia chiara una cosa – esordisce – A me non interessa come lavora la Ecoagrimm, non ce l’ho con nessuno degli amministratori. Non metto in dubbio né il materiale utilizzato nel compostaggio, né tantomento ho interesse a mettere in discussione le persone che la gestiscono”. Quello che impensierisce il primo cittadino, che si dice “responsabile della salute della comunità lucerina”, è piuttosto “il fenomeno evidente che si ripercuote su tutti”. Cioè, il tanfo. E se, nell’intervista rilasciataci ieri, Montagano definiva quell’esalazione come “un odore normale di produzione”, Dotoli ci ride su in maniera ironica e risponde a muso duro: “Non la pensa così che lui. A me non interessano queste definizioni”. Come dura è la risposta che il sindaco fornisce in merito all’affermazione di Montagano, secondo cui il tanfo non sarebbe che il frutto di una suggestione. Un condizionamento di massa che l’imprenditore operante in località Ripatetta liquidava con il termine “psicosi”: “Montagano – s’inalbera – venga, una sera, a fare un giro per Lucera. Vada a Foggia, dove pure ci sono state denunce alla Procura e lamentele dei cittadini e gli spieghi che la loro è solo una psicosi”. Piuttosto “a me non pare corretto che diverse decine di migliaia di persone siano costrette a sorbirsi questo olezzo a dir poco disgustoso. Dica, minacci e scriva quello che vuole l’amministratore di Ecoagrimm, ma se c’è un problema avvertito dalla mia comunità io sono tenuto ad affrontarlo”. Chiude la questione così, con un pacco rispedito al mittente con tanto di timbro.

L’occupazione.

Nella lettera inviata a Il Frizzo, oltre che nell’intervista di ieri, l’imprenditore sanseverese ha tentato viepiù di smontare ogni assioma a lui avverso adducendo come argomento fondante il vantaggio occupazionale che la sua azienda ha portato in zona. Fino a prima dell’installazione della Ecoagrimm, è in sintesi il suo ragionamento, ci si lamentava della poca concentrazione aziendale. Ed ora che lo stabilimento c’è, si trovano altre occasioni di piagnisteo. Anche su questo la posizione di Dotoli è categorica. Il sindaco, infatti, non cede alle lusinghe del canto delle sirene dell’occupazione. “Lui ha venticinque operai ed io mi auguro che possa assumerne altri venticinque”. Ma “come la mettiamo con il calo occupazionale degli agriturismi e dei ristoratori che sono d’intorno? Il peggioramento delle condizioni dell’aria ha determinato il calo del numero delle presenze e degli introiti e, naturalmente, mette in pericolo altri posti di lavoro”. Il ricamo di Dotoli, quindi, è ben più ampio rispetto a quello cucito su Ripatetta da Montagano.

Le mosse istituzionali.

Ad agosto, quando il caldo causò l’amplificarsi del fenomeno, le amministrazioni di Lucera e Foggia tentarono un approccio comune alla questione. Ci fu uno scambio di telefonate tra Gianni Mongelli e Pasquale Dotoli e l’impegno, dall’una e dall’altra parte, a vigilare. Dal capoluogo, Palazzo di Città si disse disponibile a mettere in campo tutte le forze di controllo possibili. In particolar modo i Vigili Urbani. Tuttavia non è mai stato approntata una strategia d’intervento organica a strutturata. Fondamentalmente, fa sapere Dotoli, “perché ci sono altri organi preposti alla cosa”. Il sindaco del centro federiciano si riferisce all’Azienda Regionale per la Protezione Ambientale della Regione Puglia. “Abbiamo segnalato la situazione all’Arpa ed all’Asl di Foggia”. La richiesta è stata inoltrata affinché s’avviasse un monitoraggio approfondito sulla salubrità dell’aria della zona. “Ma – si spinge in avanti Dotoli – anche qualora, come sostenuto dall’Ecoagrimm, l’aria dovesse essere ritenuta salubre e non nociva il problema rimane identico”. Il tanfo resta. “Tanto più in alcuni momenti della serata, forse in corrispondenza di alcuni processi particolari di rimescolamento dei concimi”. Il che, tuttavia, “non toglie che il Montagano deve intervenire”.

Le accuse e le minacce.

In un passaggio dell’atto di accusa contro l’amministrazione di Lucera, Stefano Montagano, ha minacciato che, qualora dovessero esserci altri obblighi cui verrà sottoposta la sua Ecoagrimm, lo stabilimento chiuderà e l’azienda intenterà causa nei confronti Comune. A Dotoli, l’amministrazione dell’azienda ha anche rinfacciato l’annosa questione dei mulini Sacco. “Chiedesse i danni – risponde piccato il primo cittadino – ci citasse in Tribunale, facesse quel che vuole. Io difenderò i miei cittadini contro questa violazione della loro libertà”. E, rincara la dose ricordando a Montagano che “la tua libertà personale finisce quando va ad intaccare quella degli altri”. E sui mulini Sacco: “Un parallelo fuori luogo”.

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Senti che puzza… scappano i cani

puzzapuzzapuzzaNon sono pochi mesi, ma anni. Almeno un paio, a memoria d’uomo. Il tanfo che ammorba Foggia e Lucera, è storia vecchia. Una vicenda che ha ripreso quota quest’estate, quando il vento caldo e la decomposizione più accelerata, hanno amplificato il fenomeno. Nel corso del tempo si sono avanzate diverse congetture. Talune plausibili, altre semplicemente bizzarre. Sfoglia il campionario delle possibilità vagliate, Michele Camerino, un giovane poliziotto che, a Foggia, è impegnato in una raccolta firme. “Si è parlato – ricorda a l’Attacco – di discariche, di fognature, finanche dello zuccherificio che, però, è chiuso da sedici anni”. Solo alla fine di un lungo cammino si è arrivati ad individuare nella Ecoagrimm s.r.l. di Stefano Montagano, l’origine del cattivo odore. La società, sita in località Ripatetta a Lucera, si occupa di produzione di ammendamenti e concimi. Eppure, come scrive Pasquale Trivisonne, gli estremi per capire che la provenienza fosse questa c’erano tutti. Gia nel maggio 2007, scrive su Adesso Il Sud Trivisonne, “all’azienda Ecoagrimm vennero posti i sigilli dalla Procura della Repubblica di Lucera, a seguito delle segnalazioni di abitanti della zona, di numerosi esercenti e delle RSU di sette aziende del circondario, che lamentavano, in una lettera-denuncia, la presenza di un tanfo “insopportabile che rende irrespirabile l’aria con conseguenti enormi difficoltà di permanenza nell’area e con pesanti conseguenze che incidono fortemente non solo sul benessere fisico, ma anche sui livelli di attenzione necessari per il lavoro svolto e sul rendimento lavorativo”. Ma poco o nulla è cambiato. Molti residenti e gestori di agriturismi in zona lamentano una situazione all’apice della sopportabilità. “Siamo arrivati al punto – fanno coro – che associano i nostri locali al tanfo”. Il che ha ricadute dirette (e determinanti) sull’economia di ogni azienda. “Siamo circondati di mosche. Sembra non esista più né l’estate, né l’inverno. Ed anche la notte gli insetti sono dappertutto”. A seguito di quella sospensione delle attività (cui, l’anno successivo, ne è seguita una seconda), Montagano denunciò alla Procura della Repubblica di Lucera per reati in fase di accertamento tutti i Funzionari dei vari Enti firmatari dell’arbitraria, superficiale ed illegale azione di “sequestro preventivo dell’impianto”. Le indagini, affidate al Sostituto Procuratore della Repubblica di Lucera Lucianetti, sono ancora in corso di accertamento, per appurare i motivi e le cause della predetta azione restrittiva, e le eventuali responsabilità soggettive. Ma la questione, in effetti, è molto complicata. Secondo le testimonianze dei residenti ed i lavoratori della zona, come si denuncia dall’esposto di due anni fa, l’aria di Ripatetta è praticamente irrespirabile. Il quid resta la provenienza. Perché quella di Montagano non è l’unica azienda in zona. Ed il diretto interessato ha sempre smentito. Anche le istituzioni sono alquanto restie ad esprimersi sulla vicenda. Foggia e Lucera, presso le cui Procure sono giunte denunce e segnalazioni, si rimpallano le responsabilità. Gianni Mongelli e Pasquale Dotoli sono in contatto stabile tra loro. Dal capoluogo sono più volte stati mandati sul posto diversi controlli di polizia municipale. Senza, tuttavia, mai riscontrare particolari problematiche. Un paio di settimane fa, il sindaco del centro federiciano, invece, ha fatto di più. Carta e penna, ha scritto alla Regione Puglia e all’Asl per denunciare di come, con “l’entrata in esercizio dell’impianto [Ecoagrimm], si è registrato un pesante peggioramento della qualità ambientale causato dalle emissioni atmosferiche fortemente maleodoranti provenienti da detto impianto”. Situazione che lo ha indotto a domandare uno stretto giro di vite per quel che riguarda i controlli sull’impianto e “qualsiasi altro accertamento ritenuto utile e/o necessario a prevenire ogni forma di inquinamento e a ristabilire condizioni di normale qualità dell’ambiente”. Ma la richiesta del sindaco Dotoli, ad oggi, non ha ancora ottenuto risposta. Anzi, alla fine di settembre, una sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale ha dato ragione a Montagano in una causa da questi intentato contro la Provincia. Lo stesso Ente che, in due diversi momenti, ha autorizzato, e con due diverse determine, sia lo scarico – nel torrente Vulgano – delle acque provenienti da eventi meteorici che impattano sulle superfici esterne dell’impianto (det. N. 377/2007), sia le emissioni in atmosfera di quanto proviene dall’impianto di produzione di concime agricolo (det. N. 1315/15/2008) come confermato a l’Attacco anche dal Responsabile Ambiente dell’Associazione Valle del Celone, Antonio Chiella. Che denuncia un’altra situazione paradossale: “Non è mai stata condotta una seria azione di valutazione d’impatto ambientale”. Che, aggiunge, l’associazione e questo punto chiede con forza. Tornando alla sentenza del Tar. La Provincia, attraverso il Dirigente Francesco Dattoli, nell’ottobre dello scorso anno, aveva provveduto a ridurre a 83 mila tonnellate l’anno la quantità di miscela di materiali da trattare. L’Ecoagrimm, tuttavia, ha fatto ricorso al tribunale pugliese e vinto. In tal modo, mancando i “presupposti di fatto” per la limitazione (Palazzo Dogana non si è presa neppure la briga di valutare il v.i.a.), Montagano, spiega Trevisonne, ha chiesto di passare “dal regime ordinario a quello straordinario, immettendo, tra l’altro, tipologie diverse di rifiuti”. Forte della sentenza, l’imprenditore, in una lettera al periodico lucerino “Il Frizzo”, si difende e scaglia il suo j-accuse contro le istituzioni. Parla della Ecoagrimm come di un’azienda “profanata”, altro che “letamaio”. Nella lettera, Stefano Montagano segnala del controllo effettuato in sede da funzionari preposti della Polizia Provinciale. “Che tuttavia – rimprovera Chiella – non hanno competenza in materia”. Nel verbale emesso alla fine del controllo, si legge che il cattivo odore è tipico “della lavorazione del compost”. Insomma, non ci sarebbe nulla di strano e di inconsueto rispetto al fine lavorativo dell’azienda. Nella lettera, Montagano sottolinea il valore dell’attività della sua azienda, all’interno della quale confluiscono diverse tipologie di rifiuti organici. Ivi compresi quelli della recente AR. Ma anche a tal proposito le critiche si sprecano. Dalle colonne de Adesso il Sud, sempre Trivisonne constata un altro fenomeno strano e inquietante: “Nonostante le denunce e le segnalazioni agli uffici competenti, nulla è stato fatto, e il traffico di camion puzzolenti che arrivano soprattutto dalla provincia di Napoli e Caserta aumenta sempre di più”. Segno che la differenziazione è andata al di là dei confini della regione. L’amministratore della Ecoagrimm, però, è quanto mai deciso ad andare avanti. Anzi impugna il coltello dalla parte del manico e denuncia Pasquale Dotoli che “se a causa di Sue richieste e/o mancata difesa da parte delle Istituzioni, verrò investito da restrizioni e/o altre prescrizioni illegittime, verrà cessata l’attività di compostaggio per tutti i motivi sopra riportati e verranno chiesti, senza alcun altro preavviso nelle opportuni sedi legali il rimborso dell’importo di € 13.000.000,00 pari alle spese che la Ecoagrimm ha sostenuto per l’investimento industriale insediato, autorizzato e omologato, oltre che il rimborso di tutti i danni morali e materiali che potranno essere riconosciuti in corso di causa”. La palla, piena di liquami, è, quindi tutta nelle mani del sindaco.

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La (seconda) discesa di king Michele

Emiliano, Ciccarelli, Caruso, Ferrante, D'Errico

Come sempre aggressivo. Michele Emiliano, ieri mattina in conferenza stampa nella sede provinciale del Partito Democratico in Via Lecce, torna a Foggia dopo la bomba piazzata nel bel mezzo del patito di Capitanata prima delle convenzioni di circolo. Questa volta con meno rumore, con meno clamore, segno di una tensione che s’allenta gradualmente. L’occasione è la presentazione di “Semplicemente pugliesi”, lista collegata con la sua candidatura alla segreteria regionale. Il sindaco di Bari, accompagnato dal suo staff, ha dispensato le accuse, ripartendole (quasi equamente) fra centrodestra e bersaniani.

Già, perché un Emiliano in evidente assetto da Regionali, bastona, e non certo teneramente, il suo collega e candidato pdl alla presidenza di via Capruzzi Stefano Dambruoso. Prima lo accusa di essere una scelta forzata per il territorio, un nome calato dall’alto, da Roma. Per poi entrare nella sfera personale: “È un magistrato come me, ma non lo stimo”.

Risponde a tutto big Michele. Cammina rilassato, ride di gusto delle battute e ne fa a sua volta. Prima che prenda la parola, lascia parlare Gaetano Prencipe (“per Michele abbiamo raddoppiato il nostro impegno”), Claudio Sottile (“Semplicemente Democratici è una lista che abbiamo tarato su Foggia, ritenendo il capoluogo fondamentale per le strategie politiche del pd che verrà”) ed il sindaco di San Giovanni Gennaro Giuliani (“Michele è il passo in più per impedire a questo partito di ripiegarsi su sé stesso fino ad implodere”).

Emiliano riannoda il filo da dove l’aveva troncato, cioè dall’attacco frontale ai seguaci di Pierluigi Bersani in Capitanata: “Anche a Foggia il controllo del partito è, per loro, la cosa più importante”. Un fine che, puntualizza, “induce spesso a perdere di vista l’obiettivo comune”. Cioè, “la vittoria elettorale”. Il sindaco si serve un auto assist per concludere a rete. Non manca di sottolineare la “ridicola sconfitta” delle Provinciali 2008. da via Lecce, al contrario di quanto fatto da piazza mercato, non cita mai direttamente Paolo Campo e Michele Bordo. Ma le allusioni sono chiare. Oltre che insistenti. Emiliano riapre anche una vecchia ferita, quella della composizione della giunta di Foggia. Lo fa forte della presenza, in lista, di quattro consiglieri comunali (oltre a Sottile, capolista, ci sono Peppino D’Urso, Paolo Terenzio e Francesco Paolo De Vito). E rinvia a giudizio lo stesso Mongelli: “Non ci si illuda della vittoria qui a Foggia – parte – Oltre al fatto che il pd è debole, va ricordato che è stato portato avanti da pochi consiglieri il cui peso non è stato tenuto in considerazione nella composizione dell’esecutivo”. Nel momento in cui i candidati cercano di abbassare i toni, il sindaco levantino si tira fuori e continua per la sua strada. Perché è pur vero che “il Partito Democratico resta”, ma intanto c’è un congresso da affrontare e vincere. Pur senza “fare in modo che le divisioni tra di noi siano più marcate di quelle che dobbiamo segnare con la destra”. Emiliano gioca con le parole. Così si scaglia, ancora una volta, contro “i professionisti della politica”. Contro quei burocrati di partito “che entrano quando sono dei bambini e hanno la pretesa di rimanere al timone fino alla pensione senza fare altro nella vita”. Vien fuori il magistrato Emiliano. “Queste persone – stiletta – avranno una vita noiosa al di fuori del partito”.

Poi è la volta della “socialdemocrazia”. Il sindaco si scruta attorno ed indica le immagini ritraesti Peppeino Di Vittorio, Palmiro Togliatti e Sandro Pertini. “Se dovessimo pensare ancora con canoni di sessant’anni fa – attacca – andremmo contro il loro steso pensiero. Erano innovatori, mica sono tornati indietro a Giolitti o a Crispi piuttosto che a Carlo Alberto”. Le dita roteano e si spostano da una foto all’altra. “Se, alla fine del congresso – chiosa – il pd dovesse dirsi un partito socialdemocratico sarà la fine: perché non sarà capace di dialogare con la gente”.

(articolo pubblicato su l’Attacco del 20 ottobre 2009)

Published in: on 20 ottobre 2009 at 22.29  Lascia un commento  

Alessandro Pepe… Finalmente uno con le palle sotto davvero

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Prime pagine su tutti i quotidiani nazionali; fiumi d’inchiostro per denunciare una situazione che tiene l’Italia al giogo di una mentalità antica come il permanere di un perbenismo che è più di facciata che reale. Il Parlamento italiano, l’assemblea rappresentativa di tutti i cittadini “uguali di fronte alla legge”, ha bocciato, due giorni fa, la legge contro l’omofobia proposta, come prima firmataria, dalla deputata piddina eletta in Puglia, Paola Concia. 285 i si, 222 i no e 13 astenuti. Un voto strano, incrociato, che ha proiettato Paola Binetti verso il centrodestra e finiani e Radicali verso il centrosinistra e che ha fatto sbraitare la Concia: “È un parlamento omofobo – ha urlato abbandonando l’aula di Montecitorio – I froci si buttano al macero”. Un atto, quello del rigetto della proposta di legge che, ha accusato ieri in serata l’Alto Commissario per i diritti umani, Navi Pillay, riporta l’Italia “indietro” di anni luce. Tuttavia, anche all’interno della comunità lgtq, non tutte le voci cantano all’unisono. Già durante la manifestazione svoltasi a Roma lo scorso 10 ottobre, in molti lamentavano la mancanza di una proposta ad ampio raggio, che inglobasse, al suo interno, diritti e trattamenti parificati per tutte le categorie di “diversi”: oltre ai gay e le lesbiche, anche i trans. La comunità omo foggiana tace e non risponde. Chiusa ne suo mutismo, si è barricata senza dare risposte. Questo anche perché il numero dei casi di outing è molto più limitato rispetto alla capillarità del fenomeno in sé. Chi, invece, si è posto da sempre in prima fila nella lotta contro la discriminazione, è Alessandro Pepe. Capelli rossi cotonati, abbigliamento che lui stesso definisce “appariscente”, il ventunenne truccatore ed acconciatore foggiano, è uno di quelli che lancia i suoi anatemi contro la legge della Concia. E non usa mezze parole: “Dal punto di vista legislativo, ci troviamo di fronte ad una vera e propria pagliacciata”. Una “legge monca”, vieppiù “facilmente aggirabile”. Perché, spiega Alessandro, di fronte ad un’aggressione “è sufficiente che l’aggressore dichiari che non ha agito per motivi omofobici”. Fatta la legge, dunque, trovato l’inganno. E con il minimo sforzo. D’altronde, Alessandro è più che certo che, fosse anche entrata in vigore questa restrizione, non ci sarebbe stato alcun passo avanti. Le zone a bollino rosso delle città sarebbero rimaste off limits per certi gruppi sociali e l’emarginazione non sarebbe venuta meno. E questo, spiega “in qualsiasi parte d’Italia, dal Nord sino a Foggia”. Il capoluogo dauno è tutt’altro che immune dal virus discriminatorio sessista. Alessandro ne vive quotidianamente la drammaticità sulla sua pelle. Dichiaratosi a 13 anni, in poco più di otto ha subito oltre un centinaio di aggressioni fisiche. “Oltre alle innumerevoli quotidiane: offese, insulti, cattiverie varie”. Una volta racconta di essere stato bersaglio di un violento lancio di uova da una macchina in corsa. Talmente violento che “parti del guscio, finite sotto pelle, dovettero rimuovermele in pronto soccorso”. Ma se la sanità può medicare le ferite fisiche, non può fare altrettanto con quelle morali. Meno ancora può fare con i protagonisti di questi blitz. “Ecco perché promulgare una legge serve a poco se poi non cambia la cultura”. Un sottobosco d’ignoranza che ammorba Foggia e che Alessandro definisce “figlio di una mentalità fascista” nei modi di fare prima ancora che nelle posizioni politiche. Dice fascista e dice arretratezza, voglia di mantenimento di uno status quo in cui “non si vuole che ci siano le differenziazioni”. Un morbo pandemico che colpisce. “Di discriminazione si muore” denuncia a l’Attacco il giovane omosessuale. “Ma si muore realmente, nel vero senso della parola”. Di casi esemplificativi ne son piene le cronache sin dagli anni Sessanta e Settanta. “Oggi è solo un ritorno in auge del fenomeno”. In parte dettato da un aumento visibile dei casi di aggressioni a sfondo omosessuale, in parte per la sovraesposizione mediatica. Ma, soprattutto, per una cattiva interpretazione del senso civile. “Sembra quasi che l’italiano medio rientri in un sistema sociale dove una cosa o è consentita o è proibita”. Il che, di fatto, riduce a zero la legge morale. Non stupisce , così, che facciano notizia casi eclatanti. La non proibizione, che si traduce anche in un “mancato riconoscimento anche dei più basilari dei nostri diritti”, e le dichiarazioni dure di autorevoli personaggi pubblici (Alessandro ricorda, con sgomento ancora vivo, e lo fa più volte, le parole di Benedetto XVI che ha definito gli omosessuali “la terza piaga dell’umanità”) non fanno che fomentare azioni estreme come rigetto della persona e di chi la circonda. Il padre di Alessandro, ad esempio, professore di religione, ha rischiato di essere espulso dall’insegnamento ai tempi in cui i docenti erano sotto contratto con la Chiesa cattolica. Motivazione: incapacità di educare il proprio figlio ai sacri dettami dell’insegnamento di Cristo. Uno schiaffo che, fortunatamente, non ha lasciato che un livido di poco conto. Ma Alex è uno abituato a non fare danni e a non piangersi addosso. La durezza della quotidianità l’ha rafforzato a tal punto che, adesso, non fa fatica a parlare, ed in maniera anche abbastanza cruenta, delle colpe della comunità omosex foggiana come della falsa morale della città. Sui primi: “Se realmente vogliamo andare avanti ed acquisire parità di trattamento, urge un cambiamento anche da parte nostra”. Alessandro, così, sente la necessità di porre un freno alla “pratica comune che accomuna molti omosessuali e trans per cui basta una scopata con un camionista fatta a Via Galliani per sentirsi liberi”. Occorre “alzare la voce, scendere tra la gente, spiegare, fare educazione, mettere in piedi campagne informative dirette”, in quanto “la gente non ci conosce”. Sui secondi, snocciola dei numeri: “Foggia e la Capitanata sono tra le più considerevoli mete del turismo omosessuale, ai livelli del resto della Puglia; San Severo è la sede di uno dei più grossi centri di prostituzione transex in Italia e da qui vengono smistate tantissime escort trans; e se si entra in una chat gay della Capitanta ci rende conto dell’elevatissimo numero di omosex e lesbiche presenti”. Perché, perciò, continuare a moraleggiare ancora?

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Ninuccio Viggiani, cavamonte, una vita a servizio del pci

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Martino Viggiani cammina per Apricena ed ogni dieci passi riceve un saluto. “Cià Ninù”. In paese lo conoscono tutti così: Ninuccio. Sin da bambino. Ninuccio Viggiani è stato il figlio di tutti nel paese dell’alto Tavoliere. La sua è una storia che, benché malinconica nella sua straordinarietà, accomuna molte famiglie della provincia di Foggia, in una lunga catena che fonde San Severo e Cerignola. Persone come numeri, sottomesse alla logica del padrone della terra o, come nel caso di Ninuccio, della cava. Logiche, dice, “di sopraffazione dell’uomo sull’uomo”. Il suo sguardo non ha rabbia, né risentimento alcuno. Tradisce appena quel pizzico di commozione prodotto dalle immagini che roteano frenetiche negli occhi. Fotogrammi di battaglie per la dignità, scontri con i missini; soprattutto le lotte per spremere quel pizzico d’oro ad una vita fatta di lavoro saltuario. Nel vocabolario di Ninuccio, che incontriamo nella sede del Pd di Apricena (sede che fu per vent’anni del Partito Comunista e che lui chiama “casa”), ritornano concetti antichi. Alcuni che avocano dolori sociali, altri che ridanno senso ad un’era politica cartabollata troppo frettolosamente in maniera negativa. Ideologica, vero, ma soprattutto ideale.

Ninuccio è il frutto più puro di quell’albero. La sua vita incominciò nel 1947, nel mezzo della provvisorietà. A guerra appena conclusa e con le truppe alleate appena uscite dalla provincia dopo averne succhiato l’anima. A dodici anni, appena bambino, iniziò a lavorare in miniera. Troppi pochi gli introiti del padre. “Il pane era poco”. Così il 13 giugno 1959, Ninuccio varcò la soglia della cava proprietà della “Veneziano Marmi”. Ancora non ne era consapevole, ma quei passi che compiva avvicinandosi al cancello, gli avrebbero cambiato la vita. L’impatto fu traumatico. Torme di gente impoverita dalla guerra alla ricerca dello scatto per ripartire. Cento lavoratori, settanta adulti, trenta ragazzi. “Ed io non ero nemmeno tra i più piccoli”. Con lui bambini di sette, otto, dieci anni. Ma a tanto lavoro, sua fortuna, corrispondeva uno stipendio ben più che dignitoso. “Ogni settimana, dopo appena due mesi, portavo a casa 6.660 lire”. Più del padre, più di molti adulti del paese. Prezzo da pagare per l’agio, però, si chiamava cottimo. Le monete sonanti venivano cedute dal padrone in cambio del frusciare della banconota umana. Dieci, dodici ore di duro lavoro, e poi a piedi sino a casa. Il cottimo lo richiedeva. “Più lavori più guadagni”. Nessuno curava l’altro, ogni operaio era in competizione con l’altro. Non uno sguardo, non una parola. In cava ogni uomo era un fortino a baluardo del proprio stipendio. “Era straziante”, ricorda quel bambino ora sessantaduenne.

A diciott’anni, Ninuccio venne ingaggiato come apprendista. Una piccola soddisfazione, ma il lavoro rimase duro. L’eldorado dell’assunzione alle porte. “Mi promettevano che mi avrebbero messo a posto”. Ed invece il castello che si stava man mano costruendo sulla sua testa era destinato a crollare nella maniera più rovinosa. Dopo 24 anni di lavoro, quando i padroni vendettero la cava, lui, con tutti gli altri “compagni”, scoprirono il gioco sporco del padrone. “Scoprimmo di avere appena quattro anni e otto mesi di contributi versati”. Uno scossone che lo gettò in terra.

Fu il momento in cui si acuì quella fede politica che era maturata in lui sin dai vent’anni. a quell’età, infatti, Ninuccio entrò “nel partito avanguardia dei lavoratori”. Il Partito Comunista era il cuore pulsante dell’attivismo degli sfruttati. Non a caso ad Apricena il Pci raccoglieva consensi, ne era una fortezza delle più forti. Fu da quel presidio che Ninuccio condusse tutte le sue lotte più forti. E al Pci Ninuccio dette tutta la sua vita, la sua gioventù. Al Pci affidò le sue idee, le sue aspirazioni, i suoi sogni.

Ninuccio è canonicamente il militante comunista degli anni Sessanta e Settanta. Era il tempo di Enrico Berlinguer, Di Aldo Moro, di Giulio Andreotti, della lotta di popolo, delle Brigate Rosse. Ma soprattutto, erano gli anni di Giorgio Almirante, del neofascismo sdoganato che rialzava la testa. Ed Almirante era il bersaglio quasi scontato dei comunisti. E non è un caso che Ninuccio, che parlando siede sotto una parete vuota dove una volta campeggiavano le foto di Togliatti e Gramsci, ricordi le scene di guerriglia contro i missini. “I neri”, li chiama. Più spesso “i fascisti”. Riporta alla mente un comizio del ras del Movimento Sociale a Foggia. “Ci organizzammo, salimmo in pullman per protestare”. Comunisti di Apricena, Torremaggiore, San Severo, Poggio Imperiale tutti insieme. “Appena passati sotto la sede della fiamma scoppiarono tafferugli”. La polizia non riuscì ad arrivare in tempo. “Volarono botte e bottiglie”. Da una parte e dall’altra furono feriti.

Per Ninuccio, come per tutti quanti gli altri suoi compagni, lo scontro con i fascisti era un modo per affermare i valori della libertà e della dignità umana. D’altronde, ancora in quegli anni, l’Italia viveva le lacerazioni antiche. Erano alle porte gli anni di piombo, le stragi di stato sarebbero presto diventate quotidianità. Essere, come lui, nel servizio d’ordine nel partito dei lavoratori, era così come assolvere alla missione di salvatore della patria e dei valori della democrazia nata dal sangue dei partigiani. La vita era a servizio della causa. E la causa erano i “compagni” di Roma.

Nel 1974, racconta il cavamonte, gli toccò “l’onore” di scortare l’attuale Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Dopo un comizio che tenne ad Apricena in Piazza dei Mille, toccò a me riaccompagnarlo a Foggia”. Le consegne furono categoriche. Un solo ordine: “consegnare il compagno Napolitano soltanto nelle mani di Pietro Carmeno, all’epoca segretario federale del Pci”. Partirono da Apricena in quattro, a bordo della Simca 1100 di Viggiani. L’appuntamento venne fissato sulla circonvallazione. Ed andò a buon fine.

Qualche anno più tardi, anche se la memoria di Ninuccio qui lascia il campo all’emozione del ricordo, a Nino toccò sorvegliare Enrico Berlinguer. “Fu l’emozione forse tra le più grandi della mia vita”. Dalle parole che spende per il segretario del Pci,. C’è da giurasi che sia stato così: “il migliore tutti”, “la persona più onesta che abbia conosciuto”, “un vero compagno”. Berlinguer, per quattro notti, dormì nella federazione di Via Lecce. E per quattro notti “stetti dietro la porta del segretario, a vigilare sulla sua sicurezza”. In cambio, ricevette un solo insegnamento, direttamente dalla bocca di Berlinguer: “Non toglierti mai il cappello davanti a nessuno”. E Ninuccio, di questo insegnamento, ne fece una promessa da mantenere ad ogni costo. Era ad ogni manifestazione dove “si lottava per la dignità e per il lavoro”; ad ogni 25 aprile ed ogni primo maggio, quando le strade di Apricena “diventavano un festa di popolo” e i suoi compaesani fornivano ospitalità “ai forestieri, tanti, che venivano da Bari e dalla provincia”. E lui era in prima fila, con i suoi baffi “di trenta centimetri” che ora non ci sono più ed il suo “fazzoletto rosso a coprire la testa”. Ed era in prima fila quando si girava per le campagne, sotto il sole di agosto, per racimolare il grano da vendere per pagare la sede del Partito. La passione politica non è ancora sfumata. Ora milita nel Pd e al congresso voterà per Dario Franceschini. “Non mi piace non avere più le foto dei compagni, ma va affrontato un ultimo sforzo”.

La storia di Ninuccio, però, ha anche un altro epilogo, oltre a quello politico. Infatti, il bambino ed il ragazzo sfruttato, alla fine di una favola poeticamente triste, quella cava l’ha comprata. Ed ora estrae la pietra, a mano, da solo, con un altro ex bambino.

(pubblicato su l’Attacco del 13 ottobre 2009)

Published in: on 13 ottobre 2009 at 22.29  Lascia un commento  

Minervini il rabdomante. “Meglio i principi attivi delle cene elettorali”

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“Io immagino un Partito Democratico che sia un po’ come l’Attacco”. Guglielmo Minervini, Assessore alla trasparenza della Regione Puglia, candidato alla segreteria regionale, entra nella metafora giornalistica per illustrare la sua idea di partito. Raggiunge la redazione del nostro quotidiano verso le 11, dopo aver presentato, presso l’Aula Magna della facoltà di Economia, il progetto “Ni, mondlokaj civitanoj”, traduzione esperanto di “Noi cittadini globali – locali”, un meeting pensato dalla Regione Puglia per mettere in correlazione, tra di loro, le giovani generazioni dei paesi del bacino mediterraneo e di tutto il mondo. Il che rientra alla perfezione nella visione politica che Minervini intende riportare nel Pd.

Partiamo da questo punto, dalle energie vitali che lei intende potenziare. Se la sente, Assessore Minervini, di fare una mappatura del territorio sotto questo punto di vista? Dove ha individuato, nel territorio pugliese, i mondi più vitali?

Noi abbiamo in tutti gli ambiti delle potenti energie di cambiamento. La Puglia, in questo senso, è un pezzo anomalo di Sud. Non è una regione devitalizzata come la Calabria e nemmeno una regione fortemente corrotta come la Campania. È una regione in cui i margini per vivere un cambiamento nel tessuto della società ci sono tutti. Sul territorio operano tutta una serie di esperienze interessanti che azzarderei a definire trasversali rispetto a competenze. Per esempio, in questi anni ho frequentato molto il reticolo di cittadinanza attiva che rappresenta un pezzo sano della società pugliese. Così come c’è un economia del cambiamento e dell’innovazione molto più ricca di quella che percepiamo, in quanto quella che percepiamo è filtrata, in maniera egemonica, dalla cosiddetta bad economy, che è l’economia di tipo tradizionale. Un’economia che non si arrende alla sua fine.

Quando dice bad economy si riferisce, sostanzialmente, all’economia trainante del mattone o a quella della sanità?

Sostanzialmente si. Uso il termine bad economy per definire quel pezzo dell’economia che si muove a ridosso della politica, legata alla politica e ai trasferimenti di risorse. È un’economia anomala che non si misura, in effetti, con il mercato. È mercato per così dire. Ai margini di questa economia che svolge una funzione egemonica, fa cultura, crea ed è un modello, sono sorte in questi anni tutta una serie di esperienza interessanti, dall’economia della conoscenza alla green economy che non creano ancora cultura, ma stanno facendo passi da gigante. Sono la risposta più avanzata al contributo che la Puglia può dare al superamento di questa crisi. Così come un altro soggetto che ritengo fondamentale nel cambiamento sono i giovani. In questi miei quattro anni e mezzo alla Regione ho mostrato che lì ci sono i presupposti culturali per il cambiamento. È una generazione che si porta dietro un’assenza di memoria. Il che renda più agile e dinamico lo sguardo alle sfide del nostro territorio. Uno sguardo rivolto unicamente al futuro, svincolato ed emancipato rispetto al passato. Quello che è mancato in questi anni è la costruzione di un luogo politico in cui questa Puglia del cambiamento potesse sentirsi accolta. Purtroppo, ancora oggi, abbiamo una politica ancora troppo attenta a quell’altra idea di economia.

Che consapevolezza hanno, del loro ruolo, nuova economia, giovani e reticolo associativo in cui lei legge la speranza?

Purtroppo manca la consapevolezza dalla missione da svolgere. Questi tre soggetti sono riconosciuti socialmente. Ma la Puglia parte da tre se il taglio trasversale incide non solo sulle attività ma anche sul territorio. Secondo me i soggetti enzimi del cambiamento li trovi nei gruppi ed anche negli ordini professionali, così come nelle comunità locali. Quello che manca è la capacità di mettere insieme questi elementi in una visione dio futuro condivisa. E questo è il compito della politica.

È anche questa la battaglia dentro il Partito Democratico?

Assolutamente si. Io penso che in Puglia il luogo politico del cambiamento o è il pd o non c’è da altrove. È il bisogno inespresso che il pd ha il dovere di occupare. Ma per farlo deve rompere una serie di legami che lo ancorano ai mondi della conservazione.

Questo è quello che diceva ieri (due giorni fa per chi legge, ndr) in un’intervista rilasciata a Repubblica quando parla del pd come “partito dei faccendieri”?

Certamente. Ma quando dico faccendieri, non mi interessa il rilievo penale. Mi interessa il rilievo politico. Io sono più incuriosito dalla scoperta di un principio attivo che mette in campo, che so, interessanti proposte sul terreno dell’eolico, come il caso di due ingegneri che stanno tentando di capire se si può ideare una pala eolica orizzontale, piuttosto che dal faccendiere che viene a sedurmi con una cena piuttosto gradevole. Ecco, allora il punto è su chi ti poni come interlocutore politico.

Lei non dice questo, in qualche modo, con il suo discorso: cioè che il Meridione, e la Puglia in particolare deve partire dall’individualità, dal nome e cognome, dalla persona capace, dal professionista virtuoso, che c’è una scorciatoia dettata dalle biografie personali?

Io penso che il cuore del nostro discorso siano le persone. Il problema è che noi non siamo più in grado di parlare alle persone e con le persone. Le persone sono la risorsa fondamentale del territorio e del cambiamento. Se non ricostruiamo la politica come la ricostruzione delle relazioni tra le persone, come modo per ringalluzzire il senso di comunità, allora il meridione rimane imbrigliato. Il problema è che non abbiamo mai immaginato il Mezzogiorno come un gigantesco investimento sulle persone. Sotto questo punto di vista, il progetto regionale Bollenti Spiriti è stato l’indicazione della strada maestra lungo cui spingersi. In questo modo hai dato fiducia alle energie dei ragazzi, fatto in modo che le tirassero fuori e si è innescato il cambiamento. È la dimostrazione di come una generazione intera, e non il singolo giovane, può divenire un soggetto sociale.

Tuttavia ci sembra di riscontrare una diffusa crisi di fiducia. La nostra sensazione è che se ne possa venire fuori ripartendo dalla credibilità e affidabilità delle storie personali. Insomma, ci sembra di capire che il Mezzogiorno possa ripartire (se si riparte) da qui, da biografie agili e spesse al contempo. Che ne pensa?

Questa idea che si riparta dalle persone che mettono in gioco la propria credibilità non è estranea alla crisi della politica. Anche lo spazio della politica si sta affollando di persone che fanno della circolazione delle idee il proprio profilo d’interesse. E la politica recupera credibilità nel momento in cui la suo interno inizia a crescere il numero di persone che rispondono a quel bisogno sociale diffusissimo di coerenza. Le persone, infatti, non ci chiedono di essere brillanti su tutto, ma di essere coerenti: che quello che dici fuori corrisponda a quello che fai quando sei in una postazione di gestione.

Sa dare un volto, in Puglia, alla Puglia che funziona, al di là dei ragazzi di Principi Attivi?

Qualche giorno, per esempio, a Polignano, mentre ero con Ermete Realacci, si sono presentati due giovani imprenditori agricoli (si interrompe: Occhio a quello che sta facendo in questo momento la Coldiretti, sta tentando di far venir fuori processi interessanti) che si sono posti la questione di come ridurre l’impatto ambientale dei tendoni delle loro vigne. Mettendo insieme qualche amico chimico hanno creato dei cellophane totalmente biodegradabili per la copertura dei tendoni. In quella stessa zona sono partiti anche i primi esperimenti per piazzare sui tendoni i pannelli fotovoltaici. Si stanno studiando soluzioni per ampliare il riscaldamento dei pannelli. Insomma, quando si parla di cambiamento, quando si parla di futuro, si parla di questo.

Questo è il futuro, poi c’è il passato. Parlavamo prima della sua intervista e dei “faccendieri”. Ci aiuta a capire dove, come si annida il partito dei faccendieri del Pd e quali sono le logiche? Anche Emiliano, da noi intervistato durante la sua visita a Foggia, ha denunciato chiaramente questo grumo interessi, tentando di recuperare alla politica quel ruolo di ascolto e di mediazione, mentre oggi appare la sensazione di questo impasto inestricabile tra ragioni della politica e quello dell’impresa…

(interviene) di un certo tipo di impresa che ha bisogno della politica per agire sul mercato. L’immagine che considero emblematica di questo evo politico che stiamo vivendo è proprio quella di Giampaolo Tarantini. Credo che sia un’immagine destinata a svolgere questo ruolo di simbolo in quanto lì dentro c’è questo impasto inestricabile. Lì dentro sono ammucchiati tutti gli attori che in un contesto sano sarebbero chiamati a svolgere ruoli distinti in una relazione dialettica. Lì, invece, hai il potere politico, un pezzo di gestione del potere sanitario – e già tra questi due attori occorre mantenere una dialettica chiara che permette di distinguere i due ruoli – e l’economia parassitaria. Generare questa commistione di ruoli, assumendo come interlocutori privilegiati quegli imprenditori di questo sistema, è la premessa per la degenerazione. Io dico così: in cene come quelle si firmano le cambiali. Poi non mi interessa chi, quando, con rilevanza penale o non con rilevanza penale, onora quelle cambiali, ma lì c’è la radice di un problema molto serio con cui noi dobbiamo fare i conti ma con il quale non abbiamo intenzione di fare i conti. Su questo vogliamo dire parole chiare? Visto che ci accingiamo anche a giocarci una campagna elettorale in cui la questione morale avrà un ruolo rilevante?

Ma Tedesco non è stato proprio questo paradigma, una reductio ad unum?

Sulla sanità c’è stato un peccato originale politico a monte. Noi abbiamo usato coraggio dappertutto, ma nella sanità abbiamo scelto la prudenza, la continuità. Tutto deriva da questa scelta. Dalla nomina dell’assessore fino ad una serie di decisioni anche interne al sistema sanitario. Io penso che gli eventi ci debbano indurre ad una sana ammissione dell’allora compiuto. Per quel che mi riguarda credo che quella scelta sia stata un errore.

Insomma, Tedesco era insieme politica, impresa, finanza politica… Era tutto dentro. In questo senso noi abbiamo un esempio anche in Capitanata. Noi abbiamo più volte raccontato di un’operazione del segretario provinciale del pd, Paolo Campo. Il sindaco di Manfredonia, detto brutalmente, sta creando una banca, con pezzi di ceto imprenditoriale di Manfredonia e le lobby del mattone foggiane. La sensazione è che sia tutto dentro… E cioè che Campo sia il partito, la politica, le imprese, la finanza…

Quando finisce la dialettica dei ruoli finisce anche la vitalità della democrazia. Questo tipo di commistioni creano l’assopimento delle energie. Servendosi di queste dinamiche, il potere depriva gli altri della capacità d’azione. Sono meccanismi di spoliazione del territorio. La ricchezza e la democrazia crescono nel momento in cui ciascuno fa la sua parte. Questa situazione che mi viene descritta è la palese dimostrazione del fatto che non siamo ancora capaci di individuare il tema. Stiamo eludendo la sfida che la questione morale ci pone di fronte. Ed è un tema, lo ripeto, squisitamente politico. La domanda, quindi, è questa: qual è il ruolo che ti assegni all’interno del cambiamento sul territorio? È un ruolo che ha un profilo chiaro, certo, netto o un controllo ipertrofico sull’intera società? In coloro che vivono questa dimensione ipertrofica della politica, c’è una lettura, una visione arcaica della società. In mente hanno un’idea vecchia, di una società povera, priva di energie, di una società così spoglia che si può pensare di sottoporla ad un controllo assoluto. Io credo, e questo è uno snodo cruciale della mia battaglia congressuale, che siamo di fronte ad una Puglia vitale, dinamica, ricca di energia. Insomma, adesso, siamo di fronte ad un bivio: ci sono due visioni del partito, due visioni della politica.

Senta, tornando al pd. Girando per la Capitanata ha riscontrato delle esperienze positive?

Qui da voi c’è un pezzo di ambientalismo del Gargano che sta conducendo una battaglia nobile ed innovativa. Dovessi citare un esempio di bella amministrazione che lavora alacremente, direi Sannicandro Garganico, con Costantino Squeo. E per me anche Aldo Ragni è stata una scoperta in positivo. Anche in Capitanata, insomma, ci sono forze positive che stanno vivendo questa nostra vicenda congressuale per creare rete.

Quindi il congresso più come opportunità di articolazione politica che come selezione delle classi dirigenti?

Entrambe le cose. Nel momento in cui costruisci questo discorso politico, selezioni quelli che ci stanno, che si sintonizzano. È un cammino grazie al quale stiamo già iniziando la ricostruzione.

Parlava prima di questione morale. Il centrodestra che domani (oggi per chi legge, ndr) dovrebbe presentare ufficialmente come suo candidato presidente per la corsa alla Regione Stefano Dambruoso, non vi ha spiazzato?

Assolutamente si. Dal punto di vista politico è una scelta molto intelligente. Per questo arrivare claudicanti o, peggio ancora, fare gli struzzi sulla questione morale, significa mettersi nelle condizioni di gestire una campagna elettorale tutta in salita. Abbiamo il dovere di guardare in faccia il problema, riconoscere l’errore e dimostrare che nel pd c’è la lucidità per superarlo. Nel partito come nella coalizione. Ma se da parte di Vendola questo segnale è arrivato, il partito non sembra aver voglia di darne uno a sua volta. È questo è il modo peggiore di gettarci alle spalle una brutta pagina per ricominciare in modo nuovo.

Che futuro vede per Nichi Vendola? Enrico Santaniello, ieri, lo considerava ancora fortissimo…

Vendola sarà il Presidente della Regione 2010 – 2015.

E politicamente? In quale processo lo inquadra?

Più il pd realizza sé stesso, più il pd incarna il senso di quella sfida, di quella scommessa, di quella speranza che ha suscitato agli esordi, più si riducono le distanze che lo separano dal presidente e da tanti che, come Vendola, in fondo sono alla ricerca di un grimaldello con il quale aprire un orizzonte nuovo.

Published in: on 8 ottobre 2009 at 22.29  Lascia un commento