Primarie si, primarie no, primarie via mail, primarie c’hanno rotto i…

Primarie. Dieci mail al giorno di altrettante difformi personcine che ci tengono, con cura e dovizia, informati sulla campagna elettorale di Nichi Vendola, sulle interviste televisive (es. “Questa sera Nichi Vendola a La7!Seguilo anche tu”. Oppure: “sintonizzati su Rai Due! C’è Nichi!”) e sugli articoletti di giornale.

A loro, per dovere di educazione dobbiamo qualche risposta:
A. Non abbiamo la televisione e non ci interessa averla. Risparmiamo sul canone Rai e sulla corrente e leggiamo tanti libri in più
B. Anche se avessimo la televisione, piuttosto che toccarci estasiati e orgasmici sulle fisime di Nikita, Pierlu e Renzino Renzi, ci caveremmo gli occhi
C. Tranne in casi eccezionali, non compriamo i giornali. In particolare, non compriamo i giornali filo-governativi, filo-israeliani, anti-cubani, filo-filati e stracazzi di tal risma. Usiamo internet e, per giunta, interessandoci di notizie politicamente serie e di cultura. Tutto il resto, per quel che ci riguarda, è fuffa buona per essere incenerita negli impianti che Nikita ha regalato alla Marcegaglia
D. Non voteremo alle primarie perché ci fa schifo il processo della democrazia/cabina telefonica (metti il gettone e voti). E perché, noi, con due euro, compriamo 20 chili di legna per quest’inverno

Dunque, ricontattateci quando vorrete lottare con noi. Fino ad allora: esimetevi

Abbiamo perso (sfogo di/da sinistra)



E no vabbé, diamine, questo no! Vivaddio, ma giudicare l’avversario politico perché ha violato la no fly zone che attornia un sovrano, un re, un monarca, questo non ci sta proprio. La battaglia politica plastificata e cieca, incappucciata sotto il passamontagna della casualità, arriva a tanto? A schierarsi contro perché il proprio contro ha penetrato l’intagibilità di un potente? Diamine, no. Nel giorno della festa della Repubblica, poi. E’ il punto apicale di un’opposizione ipotetica, che ha lasciato che la lotta politica abdicasse, abituata com’è a vivacchiare di piccoli occasioni. La sinistra, il centrosinistra, molti dei giornali di parte sono oggi sostenitori del protocollo liberale, del galateo ossessivo che condanna le classi inferiori ad una obbedienza guercia. Si è bestializzata nel tentativo di divorare belve incarognite, già spolpate dal tempo.

Ha provato a nutrirsi del sangue lasciato in terra da Tangentopoli, a soddisfare la bramosia ingorda della gola inghittendo quintali di carte, giustizialismo ad oltranza, sposando le teorie forcaiole che sono sempre le stesse che hanno bastonato il movimento bracciantile, caricato gli operai, azzerato la lotta di classe, ad aggrapparsi alla speranza delle gambe di una ragazzina marocchina, sfruttata volontariamente e volontariamente parte del circuito del suo stesso sfruttamento. Ha tentato di fagocitare, nella sua lotta mediatica, starlet e puttanoni, ha intessuto le lodi degli avversari più lerci per averne in cambio uno straccio di dialogo. Ha modulato le teorie, le idee, i valori sulla base di una crociata desertificata dei contenuti. I processi, le mignotte, le esternazioni. Tutto utile alla causa. Tutto, ma non le armi della politica. La sinistra, con la concussione di un sindacato venduto e corrotto, Camere del Lavoro ridotte a Uffici del Lavoro, ha chiamato in ballo la piazza a suo piacimento. Le ha detto cosa fare, dove, come e perché. Le ha imposto il limes delle autorizzazioni, ha sterilizzato la valenza di uno sciopero con la becera minaccia della precettazione.

La sinistra liberalizzatrice, filoebraica, oppressiva, prostituita ed asservita ai peggiori anacronismi, al femminismo giustificatore della svendita della dignità, al sessantottinismo d’outlet, più Fonzie che Che Guevara, che beve Coca Cola e trangugia patatine San Carlo. Stop, fine, alt. E’ il capolinea. Non c’è nulla da fare. Amarezza, tanta. Di quella fra le peggiori. Capisci di aver perso una battaglia politica nel momento in cui quello che hai difeso pur conoscendone i limiti e che fuori, all’esterno, viene considerato poco meno che un eroe, non è che uno degli ingranaggi, per giunta tra i più lubrificati, dell’intero sistema.

Abbiamo perso tutti. A sinistra abbiamo deciso di perdere nel momento in cui abbiamo affidato la redazione della nostra dignità a cannabinoidi occupanti di piazze più simili ai campeggiatori delle Baleari che alle schiere popolari dei diritti lesi. Abbiamo perso quando abbiamo accettato la sfida del berlusconismo, credendo di aver invertito una tendenza, in realtà, non facendo altro che perpetuarla. Solo con termini diversi. Abbiamo perso quando le prime femministe hanno pronunciato l’attributo “mia”, sancendo la fine di una dimensione collettiva della lotta che, quella sì, era corpo degno di salvaguardia. Abbiamo perso quando abbiamo accettato di metter in cantina i buoni maestri per adottarne di nuovi. Abbiamo perso quando abbiamo propinato ai nostri figli “Harry Potter” invece di incitarli ad una sana giornata di pallone in strada. Abbiamo perso quando abbiamo creduto in una cultura esclusiva, chiusa nelle cabina di regia, nei palazzi di città borghesi. Abbiamo perso quando, nei Settanta, negli Ottanta, abbiamo fatto del cinema e della letteratura la nostra unica ragione di comunicare, mentre don Milani ci rinfacciava il modello giusto, studenti con in mano i contratti di lavoro, cervelli pensanti in vece delle nuove generazioni pecoresche. Abbiamo regalato la scena ai Fellini, ai Pasolini, ai Feltrinelli, credendo che la propulsione fosse il chiudere il sipario sul proletariato gretto. Abbiamo preferito il diritto del dandy debosciato a quello di milioni di famiglie, per il timore di sembrare vecchi. Abbiamo perso nelle alleanze strategiche, nell’accettazione di un leader democristiano e potentissimo (Prodi), abbiamo perso quando abbiamo creduto di essere i migliori e, per questo infrangibili. Abbiamo perso nell’abbandonare i circoli, le sezioni, il presidio del territorio. Abbiamo perso quando abbiamo sbiadito il potere dei sogni nell’appannamento di una sbornia da Tavernello. Abbiamo perso quando abbiamo accettato la difesa d’ufficio dei tipi da stadio a quella dei tipi da fabbrica. Abbiamo perso delegando tutto all’associazionismo, al movimentismo. Abbiamo perso quando abbiamo creduto di poter fare la rivoluzione soltanto con quattro studenti e tre striscioni. Abbiamo perso scambiando capobranchi per leader, Vendola per Allende, Bersani per Togliatti. Abbiamo perso quando ci chiamavano “radicali” e, anzicché vantarci ci siano offesi. Abbiamo dimenticato che “radicale” vuol dire “con radici”. Abbiamo perso facendo in modo che fossero divelte e piantate altrove. Ci siamo fatti invasare in una serra, convinti che sì, la terra è terra e che, in fondo, meglio la garanzia di chi ci dà l’acqua ogni giorno che la prospettiva di un’estate senza pioggia. La sinistra dei cagnolini addomesticata ai piedi del signore, ci siamo bonsaizzati, merce da collezione e malleabile. Abbiamo perso quando abbiamo perso il coraggio di un’idea diversa ma comune, la capacità di proporre.

Amaramente, abbiamo perso quando credevamo di avere vinto. Ovvero, quando, credendoci vincenti, abbiamo difeso i vincitori. Come i re, per esempio…

Nikita ed i suoi sogni di (non) anarchia

Nichi Vendola, the governor of the southern Italian region of Puglia

Essere o non essere. Con il teschio in mano, Nichi Vendola, scespirianiamente, si interroga sul suo immediato futuro. Tempo concesso sul palco di Lungomare Nazario Sauro, una settimana o poco meno.

Gli scenari possibili dipendono, in primis, dal futuro di Silvio Berlusconi, dalla fiducia che scaturirà o, verosimilmente, non scaturirà dall’emiciclo. Merchendising o meno delle casacche parlamentari. La crisi di governo infatti, al di là dell’esito del voto del prossimo 14, è acclarata. Ed è acclarata perché il laboratorio Campania, ovvero quella stanza resa asettica che avrebbe dovuto essere la sua vera forza, il vaso in cui impiantare il seme del futuro del suo centrodestra, gli si è ritorto contro.

Nella Terra del Lavoro, la Campania felix di Cosentino e della Carfagna, di Bocchino e di Caldoro, il Popolo delle Libertà si è perso nelle sue beghe locali, adombrato nelle sue clientele, sperso nei suoi mille particolarismi, nelle tentacolari metastasi politiche delle consorterie. Dalle stelle alle stalle nel giro di un soffio. Il dito puntato di Fini è stato l’inizio delle danze, la miccia che s’innesca, la promessa di ritorsione. “Diamo fuoco a questa baracca”. Avvampati nel calore rosso fuoco, sono andati in fumo anni ed anni di cauta costruzione politica, di compromessi e cedimenti ora di una parte del partito, ora dell’altra. Sono finiti nel rogo, Silvio-Giovanna D’Arco con tutte le sue idee.

 

E la storia è cambiata. Quella storia iniziata 29 marzo 1994, ovvero appena nove giorni dopo la morte misteriosa di Ilaria Alpi (il filo non è così sfilacciato, ma tra l’uno e l’altro evento ci sono connessioni forti ed oggettive: l’accordo Urano, lo smaltimento dei rifiuti tossici in Somalia, faccendieri e massoni al potere con mansioni fondative di Forza Italia, la P2, Licio Gelli, la tessera 1816, le stragi di stato, il patto mafia – potere, Dell’Utri e le mediazioni, Emilio Fede, Craxi, Mediaset…). Quella storia nata con una dichiarazione d’amore di Silvio-Romeo a Giulietta-Fini nel tempo in cui, quest’ultimo, sfidava (perdendo) la sinistra rutelliana al Comune di Roma. E finita a piatti scagliati l’uno contro l’altro. Di quest’amore, Fini è colpevole quanto Berlusconi. si sono amati follemente e si sono odiati di brutto, si sono divisi e riuniti, si sono sposati, minacciati di divorzio, riappacificati ed ora chissà.

 

In questo gioco delle coppie che scoppiano, tutto il fronte delle opposizioni attende. Il Partito Democratico non fa nulla. Attende e basta. E, per una strana combinazione della sorte (ma nemmeno tanto visto che fare nulla è quello che sa far meglio), ha ingarrato la mossa. Vince senza combattere. Era l’unica possibilità per un non partito di far fuori, politicamente parlando, il più ostico degli avversari: aspettare che la destra fagocitasse se stessa.

In tutto questo, l’epicentro politico è un altro. Ed è Nichi Vendola. Il Governatore rosso, il lider maximo della Puglia e dei pugliesi, la guida spirituale degli asceti della nuova politica, il nuovo che impazza, usa le armi del berlusconismo per berlusconizzare il centrosinistra.

Si interfaccia con le masse, rigetta le mediazioni intermediarie, si spinge al di là delle strategie, scarabocchia le facciate e cerca di stravolgere i tatticismi del politically correct. Bada a non perdere alleati senza rinunciare a catechizzare i suoi. Usa i media ogni volta che i media lo cercano. Teorizza ricette e le prescrive acché il paziente democratico ne faccia corretto uso. Due volte in sei anni ha costretto i caporali post comunisti, i feudatari del Salento, all’endovena di schede elettorali. Due volte ha battuto la sinistra per poi fare i conti (e battere) la destra. Dalla sua parte annovera schiere di giovani ed intellettuali. Dispone di professionisti ed operatori del mondo della cosiddetta società civile. E, paradossi della nuova politica al tempo di Silvio, ha disposti dalla sua parte i più centristi dei piddini.

Non una tentazione progettuale eroticamente attraente, ma un accordo a breve scadenza. E quel nome che fonde, unisce e confonde chi il potere non ce l’ha e, perciò, se lo vuole giocare: le primarie. Un cucù settete politico. Un giorno le vedi, un giorno scompaiono. Alternanza utilitaristica.

Si a quelle di coalizione, si alla scelta dei leader, dei presidenti, dei padri padroni dei partiti. No a quelle per i parlamentari (domenica scorsa, in occasione della prima Assemblea Regionale di SeL le ha bocciate ineludibilmente, con stizzite reazioni di Michele Emiliano – “un immenso passo indietro” – Antonio Decaro – “quando si tratta di restituire ai cittadini la sovranità popolare, fa retromarcia” – e Sergio Blasi – “Noi le facciamo, SeL no”).

Se oggi Berlusconi cadesse e si dovesse andare a votare, forse Vendola sarebbe il candidato mediaticamente più forte. A differenza di Pierlu Bersani, conta seguiti omogenei nella penisola. E, ad eccezione di sporadici casi regionali o addirittura provinciali, le centurie di Sinistra Ecologia e Libertà e gli operai trasversali, stakanovisti ed a cottimo delle Fabbriche che portano il suo nome (caduta di stile, usare il termine Fabbrica se, realmente, si cerca il rinnovamento…), hanno annesso tutti i territori italici. Con ovvie roccaforti nella città levantina e nella regione che l’ha eletto a torre di guardia contro gli assalti nazionali di nuclearisti e monnezzari nordici.

E Nikita il rosso non fa mistero – non l’ha mai fatto – dei suoi sogni di potere. In occasione dell’ultima assemblea regionale di Rifondazione Comunista nel 2008, dato in certa uscita, confessò argentinamente di preferire il governo alla lotta. E, ancora ieri, sentito dalla Bbc in merito alla sua voluttà presidenziale, ha laconicamente risposto: “Assolutamente sì”. Proprio quell’emittente che si lancia in lodi sperticate verso il leader pugliese, conclamandolo come “il nuovo Obama”.

 

Vendola, è chiaro, è sulla strada del suo massimo splendore. La sua scelta nazionale, la trasmigrazione romana, l’ingresso in Parlamento, questa volta, dalla porta principale, significherebbe, tuttavia, l’inizio di una nuova era ma la fine del sistema Puglia. Di quel grande, grandissimo esperimento cui lui stesso ha posto mano scacciando senza mezze misure, i cattivi maestri dalle stanza dei bottoni baresi. Il suo prematuro abbandono farebbe ripiombare la regione nell’identico baratro da cui l’ha fatta venir fuori.

Ci pensi, Vendola. E ci pensino tutti quelli che, al suo seguito, vorrebbero chiudere gli occhi per qualche anno gongolandosi in sogni capitolini.

L’intervista rilasciata da nichi alla bbc è al link http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-11938665

l’articolo è editoriale di Stato Quotidiano http://www.statoquotidiano.it/09/12/2010/nikita-ed-il-futuro-romano/38700/

Udc= Mafia… Pd= Udc… Pd= mafia?

Ricapitoliamo. A un giorno dalle primarie che decideranno le sorti del centrosinistra pugliese, la politica sta vivendo (o dovrebbe farlo) un nuovo moto sussultorio. Una scossa tellurica che rischierebbe, in un qualsiasi stato democratico nel senso più genuino del termine (dove le opportunità di contare non sono parimenti collocate allo start, ma lasciano in tribuna tutti quanti puntano sul baro come arguzia metologico – sportiva) di fare sfaceli, di detonare nelle mani dei suoi principali artefici. Ma l’Italia è una nazione a forte consumo di doping. Pertanto, anche politicamente, l’arte dell’arrangiarsi (espressione che non conosce eguali nel resto del mondo) è figlia dell’opportunità dell’immediato.

Come dire: il fine giustifica i mezzi

Come dire: è la forza che fa la differenza

Come dire: la sostanza ha più peso della forma.

Già. Sarà per questo che la condanna di Totò Cuffaro – ex governatore della Sicilia in quota Udc, ora senatore scudocrociato – a sette anni per favoreggiamento alla mafia (e non c’è l’attributo “esterno” tanto vituperato dai lacchè del padrone di casa arcorese) non suscita clamore più dello stretto indispensabile e necessario. Appare anzi normale amministrazione in un contesto alterato e deviato in cui la stella lucente dell’onestà è appuntata sul petto di gente come Vittorio Mangano e Giulio Andreotti. Eroe uno, statista e padre fondatore della Repubblica l’altro. Uno step momentaneo in attesa dell’assoluzione generale, del “tana libera tutti” che porrà fine all’intero costrutto eversivo di quella banda del buco chiamata “cittadini onesti”.

All’interno di questo contesto si schiude però uno scenario dalle multi sfaccettature non di secondo piano. E questo scenario ha i colori dell’orizzonte di Lungomare Nazario sauro di Bari, sede della Presidenza della Regione Puglia. Domani si vota. Boccia e Vendola. Vendola e Boccia.

Come dire: Ci riprovo, Francesco Boccia

Come dire: Approfondisco, Francesco Boccia

Come dire: Che sia la volta buona, Francesco Boccia.

Se Boccia dovesse benauguratamente perdere, sarebbe out. Fuori dalla vita politica. Magari relegato in qualche ufficio romano del Pd come Quasimodo, il deforme gobbo parigino della cattedrale di Notre Dame.

Perdere una volta contro Nichi Vendola ci può stare. Nel 2005 la primavera poteva contare su molte rondini. Ma perdere ancora, perseverare nell’ammettere pubblicamente i propri limiti sarebbe un incendio, un suicidio. Karakiri politico. Boccia lo merita. E lo merita Massimo D’Alema, regista di questo film orribile e senza trama alcuna. E lo merita l’immoto Bersani, incapace di muoversi ad indignazione, di prendersi un partito che, nel concreto, dovrebbe essere suo.

Ubi maior, minor cessat è la voce itinerante di bocca piddina in bocca piddina. E se Vendola resta un compagno, le necessità immediate, il “maior”, sono nell’accordo con l’Udc. Quell’Udc che, a sua volta, vuole fare le scarpe a Vendola per la questione sanità che, a dire di Casini, non è stata gestita con i controcazzi (ufficialmente, poi c’è molto altro, come la conquista dell’acquesdotto pugliese,m che fa gola a Caltagirone, che di Pierferdy è il suocero…).

Ma le carte si sono scoperte. Nichi è uscito immune dalle faccende legate alla sanità, Cuffaro no. Ora il Pd scelga con chi stare. E tenga a mente, sperando vivamente che arrechi disturbo durante i sonni, una sola parola: M A F I A.

Da leggere ascoltando: “Quarant’anni”, Modena City Ramblers

Published in: on 24 gennaio 2010 at 22.29  Lascia un commento  
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