∞L’Italia secondo Camilleri (rec. “Di testa nostra”, Chiarelettere 2010)


Proviamo a leggere il mondo dagli occhi di Andrea Camilleri. Con quegli occhiali spessi, l’accento rauco siciliano, la voglia di dire no un giorno fisso e l’altro pure. Proviamo a dire no con le parole più semplici che conosciamo, in maniera non volgare, sempre giocando tra un lato e l’altro del filo che può farci cadere nel baratro del’incertezza e del dubbio. Dovremmo avere 86 anni ed una storia di lavoro e scrittura alle spalle, una serie di delusioni grandi così. Ma, soprattutto, tanto coraggio grande almeno quanto l’energia che abbiamo in corpo.

Non deve essere semplice essere nei panni di Camilleri, circondato di lettori che implorano di dar seguito alle avventure di Salvo Montalbano. Quel commissario che nei libri ha in dotazione una bella chioma grigia ma che tutti ormai vedono con la pelata di Luca Zingaretti. Non deve essere facile essere radicale in un mondo che, pur presentandosi spigliato sino al fastidio e sboccato da censura con bollino, sottende vaste oasi di pensiero benpensante.

Lui, figlio di un fascista della prima ora, partecipe attivo della Marcia su Roma. Lui, un diploma ottenuto senza esame per lo sbarco Alleato. Lui, scacciato da un collegio per aver tirato uova contro un crocifisso, in questo paese deve sentirsi stretto, disagiato. Forse anche un tantino sconfitto. Non tanto per la storia del clericalismo, sia chiaro. Quanto più per la costanza con cui il mondo che lo circonda s’impegna a rinnegare se stesso.

2009 e 2010 di Andrea Camilleri sono racchiusi nel testo edito da Chiarelettere intitolato “Di testa nostra”. Laddove, quell’attributo possessivo ha senso vigente in quanto espressione della zucca anche di Saverio Lodato, giornalista de l’Unità, complice dei peggiori di Camilleri nonché curatore del libro. Due anni di Lodato-provocazioni e di Camilleri-pensiero racchiusi in circa duecento pagine. Pagine dure, ironiche, talora addirittura blasfeme nei confronti di un modus cogitandi diffuso. Un manuale della libertà di pensiero e dell’indipendenza contenente tutte le tematiche più in voga, tutti gli argomenti scottanti, sotto la lente d’ingrandimento camilleriana.

Indiscusso protagonista, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, maciullato verbalmente e bastonato con sagacia spietata. E, attraverso lo specchio di Arcore, come in quello fatato del regno della strega di Biancaneve, si possono vedere tutte le magagne di un sistema al tracollo, tutti i sintomi da crollo dell’impero: Noemi Letizia e L’Aquila, Gheddafi ed i processi per corruzione, la guerra in Iraq e le leggi ad personam. È il Cavaliere il bersaglio favorito dello scrittore sicilano. Lodato lo sa e martella. Camilleri ringrazia, prende la rincorsa e parte ventre a terra. Colpendo direttamente: “Demonizzando Berlusconi si fa il suo gioco? Credo, al contrario, che sia il tacere a fare il suo gioco” o “Il problema si fa grosso quando un nano si crede Dio”. Ed indirettamente: “Quando Riina manifestò il proposito delle stragi, Provenzano fece un sondaggio fra imprenditori, politici e massoni. Ma i risultati non li divulgò. Il pentito Giuffrè riuscì a sapere che alcuni industriali del Nord si erano dichiarati favorevoli all’uccisione di Falcone e Borsellino”.

Capitolo dopo capitolo, che sarebbe come dire colloquio dopo colloquio, prende corpo tutta la vasta prosopopea delle vulnerabilità del sistema politico italiano, tutto l’andazzo zoppicante della società dello Stivale, adagiata miseramente su un letto fatato della cui inesistenza potrebbe venire a conoscenza in maniera brusca, capitombolando. Un libro che potrebbe essere utile per gli studiosi avvenire. Chiudiamolo in un baule e mandiamolo in orbita. Fra due, trecento anni, qualcuno lo troverà.

Andrea Camilleri-Saverio Lodato, “Di testa nostra. Cronache con rabbia 2009-2010”, Chiarelettere 2010
Giudizio: 3 / 5 – Impietoso

Maurizio Crozza – 1 (Ballarò 25 gennaio 2010)

Quel calcio sparato in cielo (rec. “Campanile sera”, Ninì Delli Santi, La Ricotta 2010)

Il primo enigma che ci si pone avendo in mano una copia di“Campanile Sera. Il calcio all’alba dell’Atletico Vieste” (Ninì Delli SantiLa Ricotta, 2010) è che cosa diavolo significhi quella locuzione così simile ad un periodico indipendente di matrice cattolica.“Campanile sera”, invece, non è l’organo officiale di qualche oratorio di provincia, ma un modo gergale per intendere un pallone scagliato in aria, verso il cielo di Dio, con tutta la forza esplosiva di un calcio.
Il secondo enigma, più concreto è cosa ci trovi un viestano doc come Delli Santi a narrare la storia di una squadra che, così, apparentemente, limitandosi alla copertina di un libro, non ha una tradizione, è destoricizzata dal contesto dei grandi e dei medi, relegata non nell’alveo della mediocrità, ma in quello della totale abulia sportiva.

Eppure basta una scorta, è sufficiente già leggere l’emozionata prefazione che lui stesso pone a testa delle duecento e rotte pagine, per capire come, ancora una volta, la narrazione di una storia sia semplicemente il presupposto per l’emersione di un pensiero recondito. Come il pallone racchiuda, nella sinuosità suadente della sua forma, le condizioni essenziali del quotidiano; come le gioie e le delusioni provate su un campo verde, null’altro sono, alfine, che le anticipazioni della vita vera. Il gioco di squadra, le norme comuni, il sudore, la fatica, l’esultanza, la maglia attaccata al petto, il saper capire dove incominci e finisca lo scontro. È qui la tacca territoriale del calciatore, è qui il confine che si confonde, mescolando ambiti diversi ma compatibili. Eccola, l’ammissione: “Non so se alla fine questo libro parla di me attraverso il gioco del calcio, o se parla del gioco del calcio attraverso la mia persona”. Lo dice l’autore in un accenno di sentimentalismo, prima di dare avvio alla narrazione vera e propria. Prima di battere una strada per metà sospesa nel cielo dell’autobiografia, per un’altra metà calata con i piedi nella saggistica. La prima, filosoficamente stimolante, abitata da un viandante per nulla occasionale, Vincenzo. Il primo maestro di calcio del decenne Ninì, che apprende segreti, tattiche, trucchi nello scalcagnato stadio di Vieste. È a contatto con questo Nereo Rocco in la minore che il bambino matura la velocità dei pensieri fusa alla rapidità dell’esecuzione. È grazie a questo eremita chiuso nel tempio erboso che Ninì si scopre capitàno della squadra della sua infanzia, impara a godere delle gioie del pallone, a manipolarlo senza mancargli di rispetto.
La seconda parte del libro, si dipana sulle vie del saggio. Un saggio sui generis, composto originale di storia e poesia, in cui i calciatori sono poeti, narratori, filosofi, scrittori. Utile (si trovano tabelle delle stagioni migliori dell’Atletico Vieste) ed insieme mai arrendevole alle catene della noia.
Perché il calcio parte dal basso e nel basso trova, spesso, la sua realizzazione emozionale più concreta.

Ninì Delli Santi, “Campanile Sera. Il calcio all’alba dell’Atletico Vieste”, La Ricotta 2010
Giudizio: 3 / 5

LINK: http://www.statoquotidiano.it/26/01/2011/palloni-di-carta-10/40998/

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La festa dei Folli. A Foligno, un Foggia targato Tafazzi

Arringa: Zeman. Sotto, fra i pazzi, spiccano Caccetta, Kone e Salamon

Santarelli 5.5. Sul gol del pareggio umbro si lascia sfuggire il primo – innocuo – colpo di testa di Fedeli (che, poi, lo stesso Fedeli ribadisce in rete). Si avventura per tutta la partita in una serie di dribbling che manco fosse Lio Messi. Perlomeno, a differenza del suo compagno Caccetta, gli riescono. Ma dovrebbe fare il portiere. Un diktat: non rilanciare mai più servendo Caccetta. Minacciato
Caccetta 2. Sempre meno giocatore e sempre più ameba. Della sua partita non si ricorda una cosa positiva. Sbaglia ogni passaggio, non spinge e quando prova a difendere viene saltato con categorica puntualità. Giacomelli in stato di grazia, ma lui non lo becca mai. Delle due l’una: o Zeman lo getta in panchina oppure lo relega in tribuna. Democratici (noi)
Regini 5.5. Per tutto il primo tempo fa capire al suo compagno schierato a destra come si gioca da terzino. Un pendolo che è dappertutto. Avanti, dietro, cross, contenimento. Giunti comprende che i pericoli possono partire dalle sue zone e sposta Giacomelli. Da quel momento in poi, Vasco non spadroneggia più. Soffre in marcatura ed in contenimento. Nel marasma generale, almeno c’ha provato. Passabile
Salamon 5. Benedetto figliolo, quando capirai che l’ingenuità, nel calcio, porta sempre a cattive azioni? Abbocca come una triglia al giochetto di Scaudone. Lui tocca l palla e, plof!, l’umbro cade giù in area. In superiorità numerica poteva evitare lo svarione. Peccato, perché nel primo tempo era stato fra i migliori. Dopo il fallo da rigore, si eclissa. Immaturo
Romagnoli 6. Il capitano è come un radar. Appena nella sua visuale compare un pallone, lui vi si getta per intercettarlo. Diligente nelle chiusure, ottimo in fase di fuorigioco. Ma ancora due gol sul groppone; troppi per un Foggia che vuole sognare. C’è.
Rigione 6.5. Da urlo alcuni suoi interventi. Con Romagnoli forma una coppia centrale di prospettiva. Non fosse per le distrazioni collettive e per l’età in fiore, forse oggi Santarelli ed Ivanov starebbero contando meno gol in passivo. Ma santoddio, fintanto che a destra resta un pertugio fissamente aperto, inutile lamentarsi. Diligente
Farias 5.5. Un buon primo tempo. In due circostanze va vicino al vantaggio. Ha il merito di farsi trovare, ma il demerito, questa volta, di non finalizzare occasioni abbastanza agevoli. Si perde nel naufragio generale dei secondi quarantacinque minuti. Titanic
Kone 5.5. Avevamo chiesto di non riattivare la moviola. Ed invece i suoi movimenti, rispetto alla vittoria di domenica scorsa contro il Lanciano, sono tornati goffi e macchinosi. Ha un buon piede e prova sfruttare quello. Cacciato Caccetta, va a fare il quarto di difesa, a destra. Ma un terzino deve essere rapido di pensiero e di azione. E lui non lo è. Si sacrifica e questo è un dato. Martire
Sau 5. Non brilla neanche nel primo tempo, quando il Foggia gioca in velocità sottomettendo il Foligno. Sbaglia un gol in penetrazione, solo di fronte a Rossini ed entra poco nei taccuini dei cronisti presenti nel Polo del “Blasone”. Ad un soffio dalla conclusione potrebbe salvare almeno la faccia al Foggia. Ma il cross di Insigne a lui diretto viene intercettato appena un attimo prima dell’impatto. Si rifarà
Laribi 6.5. Uno dei migliori in campo. Lui ed Insigne, nel corso del primo tempo, fanno letteralmente andare in tilt la difesa di casa. Danno colpi di piccone al muro erto dal Foligno fintanto che, alla fine, non crolla. Serve l’assist del momentaneo vantaggio rossonero. È in forma. Gioiello
IL MIGLIORE: Insigne 7. Stesso discorso già fatto per Laribi. Nel primo tempo lo trovi ovunque. È il Casini dell’attacco dauno. Destra, sinistra, centro. Si scambia con Laribi e non dà riferimenti ai marcatori del Foligno. Mette dentro da opportunista. È l’ultimo ad arrendersi e quasi quasi riesce anche a servire a Sau il pallone del pareggio proprio in dirittura d’arrivo. Per ora si accontenta di superarlo in classifica cannonieri. Meraviglioso
Zeman 4. Adesso basta. Va bene l’emergenza, ma se ogni domenica bisogna giocare con un uomo in meno (due, considerando che Caccetta fa meno uno per il Foggia e più uno per gli avversari), tanto vale non metterlo nemmeno in campo, quell’uomo. Almeno sta lontano dai guai. Attinga alla primavera, piuttosto. Lì, uno meglio di quel che c’è, sicuramente lo trova. Testardo

LINK: http://www.statoquotidiano.it/23/01/2011/follia-foggia-regalati-un-tempo-e-tre-punti-anche-al-foligno/40807/

Narrativamente abita Nichi (rec. “Nichi Vendola. Comizi d’amore”, L. Telese, Aliberti)

Nel nuovo dizionario vendolese-italiano, italiano-vendolese – che è uno e, da sempre, si aggiorna, si ravvede e si corregge in modo automatico a seconda dell’impiego ricoperto da Nikita – c’è una parola che acquista più significato di altre. Preliminarmente, va detto che, questo dizionario, è in realtà un enorme tomo che include paroline e paroloni, esemplificazioni e locuzioni, in quantità vasta e sfaccettata. Questa parola, che in fondo non è nemmeno una parola ma un modus vivendi, una carne viva, è “narrazione”. Nichi non dice, narra. Nichi non parla, narra. Nichi non arringa, narra. Nichi non comizia, narra. Nichi non vive, narra. Riflessivamente, Nichi non si fa votare, si fa narrare.

La narrazione vendoliana è pensiero individuale spinto alla dimensione collettiva. È l’imposizione dolce di un sentire intimista. È l’osmosi emozionale, la comunicazione intellettiva del leader-amico nei confronti del suo popolo. È, gramscianamente, l’intima connessione con la gente. La narrazione di Vendola diventa, in questo modo, narrazione di popolo. Perché è nelle parole e nello stesso tempo si serve delle parole, vive nelle parole. Ma non è solo parole. È la capacità di trasporre nei palazzi quel sentire comune, di realizzare i desideri di qualcuno degli ultimi. È la parte buona del populismo, sempre che di populismo vero si tratti. La narrazione di Vendola è sapore di entroterra murgiano, odore di forno al mattino, stallatico del Salento, salsedine del Gargano. Nessuno come Nichi, il puer Terlicii, lo stupor Apuliae – tanto per miscere fra loro, adattandoli, gli epiteti federiciani –, è stato capace, prima, di annoverare in sé tutte le caratteristiche di tutte le zone della regione del tacco. Riassumere antropologie diverse e distanti, spesso in conflitto fra di loro.

Vale una cifra quello che Luca Telese, in una a tratti commovente analisi, scrive in “Nichi Vendola. Comizi d’amore” (Aliberti, 2010): “Se c’è un leader di cui vale la pena di vivisezionare, collezionare e raccogliere le parole, quello è Vendola. A pochi uomini politici vengono concessi la fortuna e il talento di potersi costruire una lingua propria, un repertorio di immagini, di stilemi, di capacità di evocare visioni ”. Vero. Telese Vendola l’ha conosciuto, l’ha scrutato, ha vissuto con lui spiccioli di giornate lunghe, metropolitane romane e comizi. Di quel Nichi, che si oppose alla scissione del Pci vivendo il momento con dolore immane; di quel Nichi che si intuiva essere non diverso, ma il più diverso di tutti, nella sua eterodossia militante che deve rendere conto soltanto alla fantasia; di quel Nichi che sfangava la giornata dividendo un’umile casa con Franco Giordano, Luca Telese ha un ricordo vivido. Di quel Nichi conserva un discorso, il primo, l’unico non tenuto a braccio, ma scritto. Annus domini 1984. In appendice al testo, Telese lo pubblica per intero. Come fa con altre decine di frasi vendoliane, divise per argomento.

Ne viene fuori un tripudio di colori, una deflagrazione di sentimento e di ironia di un uomo fatto politico, poi leader, poi presidente, poi ancora leader ma non per questo meno presidente, politico, uomo. Nelle parole di Telese si legge tutta la sorpresa di un sogno realizzato, la scoperta del senso della “narrazione”. Narrazione come quella penna immateriale di inchiostro rosso che verga, capitolo dopo capitolo, in un rutilare rigurgitante di parole composte, una grande storia politica. Una storia destinata, determinata. Ineluttabilmente diretta alla vittoria perché ricca di sconfitte. Nichi ha vinto – ci dice Telese in un’analisi lucida – perché, da sempre, ha perso. E perché, man mano che perdeva, andava scegliendo sfide sempre maggiori, salite sempre più impervie, avversari sempre più potenti.

E perdeva in modo propedeutico, didattico. Perdendo irrobustiva l’animo e rassodava i muscoli. Mica comeD’Alema, eterno sconfitto e, a livello di realpolitik spiccia, fuori dai giochi. “Se si legge la carriera di D’Alema con gli occhi della realpolitik che lui voleva imporre alla Puglia, si dovrebbero registrare un cumulo di fiaschi. Ciò che resterà del dalemismo reale, paradossalmente, è la scrittura quasi letteraria di un personaggio affascinante e drammatico, un carisma algido ma innegabile, un combattente indefesso, oppure molto vicino alla dimensione fantastica del Don Chisciotte”. Così Telese sul baffo più celebre di Montecitorio e dintorni. D’Alema che è le sue sconfitte. Al contrario, Nichi ha le sue sconfitte. Poi riparate. La sintesi suprema di una narrazione appena iniziata.

Luca Telese (a cura di), “Nichi Vendola. Comizi d’amore”, Aliberti 2010
Giudizio: 3.5 / 5 – Narrazione di narrazione

1921 – 2011. Novanta ragioni per crederci. Auguri

 

Congresso di Livorno del 1921 – Fondazione del PCI (Era venerdì anche quel giorno…)

di Antonio Gramsci

Il Congresso di Livorno è destinato a diventare uno degli avvenimenti storici più importanti della vita italiana contemporanea (1). A Livorno sarà finalmente accertato se la classe operaia italiana ha la capacità di esprimere dalle sue file un partito autonomo di classe, sarà finalmente accertato se le esperienze di quattro anni di guerra imperialista e di due anni di agonia delle forze produttive mondiali hanno valso a rendere consapevole la classe operaia italiana della sua missione storica.

La classe operaia è classe nazionale e internazionale. Essa deve porsi a capo del popolo lavoratore che lotta per emanciparsi dal giogo del capitalismo industriale e finanziario nazionalmente e internazionalmente. Il compito nazionale della classe operaia è fissato dal processo di sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato borghese che ne è l’espressione ufficiale. Il capitalismo italiano ha conquistato il potere seguendo questa linea di sviluppo: ha soggiogato le campagne alle città industriali e ha soggiogato l’Italia centrale e meridionale al Settentrione.

La questione dei rapporti tra città e campagna si presenta nello Stato borghese italiano non solo come questione dei rapporti tra le grandi città industriali e le campagne immediatamente vincolate ad esse nella stessa regione, ma come questione dei rapporti tra una parte del territorio nazionale e un’altra parte assolutamente distinta e caratterizzata da note sue particolari. Il capitalismo esercita così il suo sfruttamento e il suo predominio: nella fabbrica direttamente sulla classe operaia; nello Stato sui più larghi strati del popolo lavoratore italiano formato di contadini poveri e semiproletari.

E certo che solo la classe operaia, strappando dalle mani dei capitalisti e dei banchieri il potere politico ed economico, è in grado di risolvere il problema centrale della vita nazionale italiana, la questione meridionale; è certo che solo la classe operaia può condurre a termine il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento. La borghesia ha unificato territorialmente il popolo italiano; la classe operaia ha il compito di portare a termine l’opera della borghesia, ha il compito di unificare economicamente e spiritualmente il popolo italiano.

Ciò può avvenire solo spezzando la macchina attuale dello Stato borghese, che è costruita su una sovrapposizione gerarchica del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive della nazione; questo rivolgimento non può avvenire che per lo sforzo rivoluzionario della classe operaia direttamente soggiogata al capitalismo, non può avvenire che a Milano, a Torino, a Bologna, nelle grandi città da cui partono i milioni di fili che costituiscono il sistema di dominio del capitalismo industriale e bancario su tutte le forze produttive del paese.

In Italia, per la configurazione particolare della sua struttura economica e politica, non solo è vero che la classe operaia, emancipandosi, emanciperà tutte le altre classi oppresse e sfruttate, ma è anche vero che queste altre classi non riusciranno mai a emanciparsi se non alleandosi strettamente alla classe operaia e mantenendo permanente questa alleanza, anche attraverso le più dure sofferenze e le più crudeli prove. Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti avrà specialmente questo significato: la classe operaia rivoluzionaria si stacca da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite nel parassitismo statale, si stacca da quelle correnti che cercavano di sfruttare la posizione di superiorità del Settentrione sul Mezzogiorno per creare aristocrazie proletarie, che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del predominio del capitalismo industriale e finanziario sulle altre forze produttive nazionali) avevano creato un protezionismo cooperativo e credevano emancipare la classe operaia alle spalle della maggioranza del popolo lavoratore.

I riformisti portano come «esemplare» il socialismo reggiano, vorrebbero far credere che tutta l’Italia e tutto il mondo può diventare una sola grande Reggio Emilia. La classe operaia rivoluzionaria afferma di ripudiare tali forme spurie di socialismo: l’emancipazione dei lavoratori non può avvenire attraverso il privilegio strappato, per una aristocrazia operaia, col compromesso parlamentare e col ricatto ministeriale; l’emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l’alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini poveri del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato degli operai e contadini, per costruire un nuovo apparecchio di produzione industriale che serva ai bisogni dell’agricoltura, che serva a industrializzare l’arretrata agricoltura italiana e a elevare quindi il livello del benessere nazionale a profitto delle classi lavoratrici.

 

Noi non ci si arrende mai

LEGGI IL PEZZO SU: http://www.statoquotidiano.it/20/01/2011/contro-la-criminalita-organizzata-legalita-libera-tutti/40664/

Diavolo d’un Milan (rec. Pape Milan aleppe, Sedizioni, S. Giuntini)

.:: Milanisticamente parlando::.

“I signori bauscia, nonostante l’atavica supponenza […] dovranno continuare ad invidiarci. Imitarci o superarci no, perché anche mettendocela tutta non ne saranno mai capaci. Troppo diabolici noi, per il loro catto-interismo”. Sergio Giuntini è un intellettuale, storico, autore di molti saggi. Ma Sergio Giuntini è la dimostrazione di come la conoscenza attuata alla perfidia produca risultati sghignazzanti.
Per la casa editrice meneghina “Sedizioni”, ha scritto un pamphlet godereccio ed ozioso, ideale da leggersi in quell’Arcadia infernale chiamata stadio. “Pape Milan Aleppe. Il Milan è un linguaggio di poeti e prosatori” è, lo dice lui stesso, in apertura, con ben più di un tocco di soddisfazione malcelata, la “via milanista alla letteratura”. Perché al centro del testo ci sono tutti gli eroi che hanno fatto grande (e celebre) il Diavolo. C’è Liedolhm e c’è Baresi, c’è Rivera e c’è Van Basten, c’è Gullit e c’è Schiaffino. Ci sono tutti quanti hanno fatto impazzire i cugini, schiaffeggiandoli per una lunga parte della loro storia passata e recente.

Ma, ancor più delle loro carni, ci sono le loro trasfigurazioni letterarie. Ci sono le parole che racconti, romanzi, poesie ed articoli giornalisti hanno marcato a fuoco nel ventre del tempo per eternificarli. Come calciatori e come uomini. Figurine adesive incollate sull’immane album del mito.

Il punto di vista di Giuntini è volutamente parziale. Milanista nel midollo e, per rivendicazione, di “sinistra-sinistra”. Sarà per questo che incarna, nel contempo, la figura del Tacito (lo storico), di Cicerone (l’avvocato) e di Giulio Cesare (il generale).

Come storico, menziona, uno dopo l’altro, tutti coloro, letterati e poeti, giornalisti e scribacchini che, dal dopoguerra ad oggi hanno, pur soltanto a mezzo di un rapido passaggio, alluso al Milan. Lo fa in un linguaggio pieno di scherzosi eccessi, in un milanistese (il linguaggio ufficiale del tifoso) che lancia spunti e butta bombe esilaranti nel campo avversario. Cita Alfonso Gatto, Franco Loi, Leonardo Coen, Pierpaolo Pasolini, Lorenzo Bianciardi e Michele Prisco; obietta contro Gianni Brera, il milanista rinnegato, ricorda Giulio Nascimbeni e se la ride con Beppe Viola; si esalta ballando sulle parole del cileno (milanista) Antonio Skarmeta e del giapponese Kazuo Ishiguro. E non si esime dall’accostamento donna – calcio quando ricorda gli stupori diversi di Camilla Cederna ed Oriana Fallaci di fronte all’Abatino Rivera. Che, in barba a Santon, a vent’anni, “valeva già come un jet bimotore, un Rembrandt, un Botticelli e due Cezanne”. Accostamento di livello talmente lontano, quello fra calcio ed arte, che diventa compatibile soltanto se, sul piatto della bilancia, si pongono artista con artista.

Come Cicerone, Giuntini si sente in diritto di difendere se stesso. Si fa voce della categoria del tifoso imbarazzato che arrossisce al pensiero del Presidente Operaio. E così reclama al banco degli imputati altri rosso(neri). Chiama a deporre al banco della curva altri nomi, ma stessa passione. Assume la veste di avvocato del Diavolo, perché lui stesso si sente Diavolo. Smonta i perbenismi interisti, di quanti portano nelle sacche bontà da distribuire e poi “torna a casa e picchia i figli” (Viola), di chi esalta il presidente “petroliere ecologista”. Rivendica, ridendo ma neanche troppo, il diritto di esistere al di là delle persone e dei finanziatori. Al di là dei governi e delle ideologie. Perché, ricorda, già un tempo provarono a cambiar volto alla squadra, imponendole una “o” di troppo. Era il 1939, l’autarchia fascista delle vocali finali, l’italianizzazione di territori e di valori che italiani non potevano essere.

E fa da generale. Avoca a sé gli scrittori milanisti, si pone a capo di una colonna di indiavolati per partire all’assalto del fortino nerazzurro. “Altroché interismo – leninismo”.

È un libro che farà sorridere e gasare i milanisti tanto quanto incazzare gli interisti. Tanto che la lettura è sconsigliata a quanti ammalati di malattie quali: vittimismo, favoritismo, guidorossismo, telecomismo cronico. Facciamoci una risata.

Sergio Giuntini, “Pape Milan Aleppe. Il Milan è un linguaggio di prosatori e poeti”, Sedizioni 2010
Giudizio: 3 / 5 – Milanista-leninista

LINK: http://www.statoquotidiano.it/19/01/2011/palloni-di-carta-9/40543/

e: http://macondolibri.wordpress.com/

http://it.paperblog.com/sport/ (incluso fra le “selezioni” di Paperblog)

Non ditelo a Ruby…

Foggia, Viale Fortore, 17 gennaio 2011

L’arte sociale di Ico Gasparri. Per riflettere sulla mercificazione (intervista all’artista)

Ico Gasparri

Un mondo di Cappuccetti rossi e di lupi cattivi, nonne morte e cacciatori troppo lontani per giungere a mettere in salvo le bambinette. Un regno favolistico senza magia, spietato, in cui le tenaglie della mercificazione mordono per far male, spappolare, ridurre a bolo polposo le anime ed i cuori di chi vi è ostaggio. È affabulatore ed illusorio, quel regno. Attrae. Chi lo governa e lo popola, agisce con la calma dell’uomo saggio, con la lentezza estenuante ma esiziale del felino. Scova, punta, assalta, morde.
“Chi è il maestro del lupo cattivo?” è la domanda che permette di ragionare su come opporsi. “Chi è il maestro del lupo cattivo?” è non la soluzione del problema, bensì la sua denuncia. “Chi è il maestro del lupo cattivo?”, prova a spiegarlo Ico Gasparri. Fotografo sociale, artista sociale, uomo in una società non già e non più maschilista, ma economista fino all’osso. “Chi è il maestro del lupo cattivo?” è il titolo che lui ha scelto per raggruppare vent’anni di scatti che ritraggono immagini di manifesti pubblicitari raffiguranti donne. Una mostra ospitata presso la Fondazione Banca del Monte di Foggia, che resterà aperta sino al 29 gennaio.
Si tratta di un’insiemistica visiva spietata, flash su un cammino sociale darwinicamente peggiorativo. Due decenni (la prima fotografia risale al 1990) di mode, di cambiamenti, di eventi, di gusti raffigurati nella momentaneità urlante dello scatto. Nei suoi click c’è l’evoluzione (o l’involuzione) di un sistema economico medievale, fondato sullo sfruttamento del corpo, sulla sua svendita, sulla sua alienazione perversa. Alla mercè collettiva. Corpi dati in pasto alle folle come carne viva e sanguinante ai leoni dell’arena.

Gasparri: “Non si tratta di una semplice mostra o di un lavoro fissamente definito. Il mio è un progetto di militanza sociale che va avanti da vent’anni”.

Oscar Wilde scriveva: “L’Arte è la mia vibrante protesta” in quanto, ammetteva, attraverso l’arte – che nel suo caso specifico era la letteratura – si può non solo descrivere ma anche forzare la realtà e fare in modo, ad esempio, da esacerbare alcune peculiarità servendosi dell’esagerazione tipica della Fantasia. E’ così anche per te?
Con alcune differenze. Essendo le mie mostre il risultato di campagne di tenore sociale, delle vere e proprie denunce, la Fantasia non ha molto spazio. Piuttosto cerco, questo sì, di focalizzare la mia attenzione su alcuni particolari capaci, da soli, di far comprendere alle persone il messaggio che voglio lanciare. Mi spiego: a differenza di un giornalista che, nel condurre un’inchiesta si serve delle immagini e delle parole, io utilizzo soltanto queste seconde. Pertanto, ciò che mi preme, è dare all’immagine stessa una forza evocativa estrema che colpisca. Ad esempio, curando una mostra sulla raccolta differenziata (il titolo della mostra, itinerante è “Riciclo”, ndr), ho voluto porre l’attenzione sulle bottiglie compresse e multi cromatiche. Così facendo, le persone possono riflettersi in queste immagini e toccare con mano che, quello di cui io tratto, è ciò con cui, esse stesse, hanno avuto rapporto diretto.

Chiaro. Ma il riciclo è una cosa viva e pulsante. Mentre l’aver catturato immagini femminili può anche dar adito a qualche incomprensione. Come se tu volessi immortalare la bellezza e non una servitù.
Non è così. L’arte bisogna anche saperla inquadrare nel novero della storia personale dell’artista. Il mio lavoro “Chi è il maestro del lupo cattivo?”, che espongo qui a Foggia, rappresenta una fetta della società italiana. Mette dinanzi agli occhi di tutti il cambiamento dei costumi, il mutamento quasi genetico di un’intera comunità. Vedendo la mostra, si percepisce la mia critica verso questo sistema economico.

Ovvero?
Quello che si serve del corpo femminile per far profitto.

Ma la donna che sceglie di far pubblicità non accetta da sé e per sé di entrare in questo mondo?
Certo. Ma questo non significa nulla. Non è né una spiegazione, né una giustificazione del sistema stesso. Le ditte produttrici, anche quelle che solitamente vengono ritenute le migliori al mondo, non si fanno scrupolo nello sfruttare il corpo femminile. A quel punto, ad essere messo in vendita, non è soltanto un prodotto, ma un intero modello.

La moda che detta le mode…
Al contrario. Quel tipo di moda, quella spiaccicata sulla carta dei manifesti, segue il procedimento opposto. Non detta le mode. Bensì, se le fa dettare col preciso intento di essere più efficace. Va a colpo sicuro. Qui, inoltre, non va dimenticato, parliamo di pubblicità. E lo scopo precipuo della pubblicità è quello di vendere, di fare profitti. Di capitalizzare al massimo un investimento.

Da dove nascono queste campagne mediatiche?
Nascono dalle golosità sessuali, prettamente da quelle degli uomini che, non a caso, sono i destinatari principali del manifesto. Ovviamente dietro ogni mio scatto, dietro ogni mia mostra, c’è uno studio attento della fenomenologia sociale in sé. Ebbene, le pose assunte dai testimonial nelle principali reclamizzazioni, i contesti, le situazioni, le ambientazioni rispondono tutti a canoni precisi. Che, poi, sono gli stessi contesti, le stesse situazioni, le stesse ambientazioni che ritroviamo nei film pornografici. E questo, non accade soltanto al giorno d’oggi, nel 2010, nel 2011, nel 2009; ma è un fenomeno che balla da sempre nella piazza mediatica in quanto pone l’accento sul proibito.

Ma in questo modo non si rischia di artefare il canone di bellezza e, se vogliamo, anche quello della proibizione?
Non la penso in questo modo. Il tabù è sempre visto come qualcosa che va oltrepassato. Semplicemente se ne creerà uno nuovo. In quanto alla bellezza, già ci troviamo di fronte ad un concetto artefatto, ormai. Basti vedere come un esercito di ragazzine si fa scudo della bellezza sfruttandola come maniera per ottenere ciò che si vuole.

Il tabù…
Concetto cruciale, fuoco della mia attività. Io racconto ogni giorno di una barriera che cade, una tacca che si sposta nella definizione del limite. Negli anni Sessanta c’era un limite sostanzialmente immoto. Con l’avvento degli anni Ottanta, l’affermazione di un sistema fondato sul benessere a tutti i costi, sulla vita mondana, sulla rincorsa forzata alla ricchezza, si è avuto uno sprint. Così, oggi, abbiamo pezzi di barriera che crollano sempre più rapidamente.

Ne hai parlato, di questo fenomeno, con i ragazzi?
Ho avuto modo di vistare molte scuole e, accanto agli ovvi comportamenti negativi, c’è anche tanta voglia di sapere di capire. Il progresso e la liberazione da questa schiavitù delle bellezza passa ineluttabilmente per la cultura. E molta della cultura passa dai giovani.