L’ultimo partigiano di Foggia è andato. Te lo ricordi, foggiano?

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Foggiano,

Te lo ricordi il suono di quel bastone lento che andava via per le strade di Foggia, e quell’uomo sottile come un fuscello ma forte come un tronco che vi si appoggiava?

Te la ricordi, la sua voce sempre chiara, che amava perdersi nei rivoli del tempo, tra opinioni, una canzone partigiana, qualche memoria sbiadita e l’ansia di un futuro da non lasciarsi rubare?

Te li ricordi quei comizi del primo maggio, le celebrazioni ufficiali del 25 aprile a piazza Italia, la lapide di Nicola Stame che lui ha voluto e che esorcizza l’influsso di quegli enormi fasci messi lì dal camerata Agostinacchio?

Te lo ricordi quel cappello che non toglieva via nemmeno nella canicola dell’estate foggiana, 40 gradi e lui sempre lì lo teneva, in testa, schiacciato e fiero come un pensiero? E i suoi occhiali da sole, te li ricordi? E ricordi la sua giacca che, a vederla, ricordava “il cappotto cammello” di De André?

Te lo ricordi quel fazzoletto tricolore che con gli anni andava sbiadendosi e che lui diceva essere sempre lo stesso, anno dopo anno, lustro dopo lustro, decennio dopo decennio?

Te li ricordi i suoi ricordi? La guerra in Africa, il Partito Comunista, le rivolte finite male, Bella Ciao cantata a mezza voce e con qualche refuso, come l’inno dei lavoratori.

Te la ricordi la sua dignità, e te lo ricordi l’ardore che ci metteva nella lunga strada per far intitolare a Nicola Stame il teatro del fuoco? E la sua ostinazione nel presentarsi fuori dal Palazzo della Provincia tutte le mattine, mattina su mattina, barcamenandosi silenzioso in un’anticamera tenace, te la ricordi?

Te li ricordi quei fogli che portava sempre con se e di cui non si stancava mai? Erano il capitolo finale della sua biografia non scritta, il riassunto della sua ultima battaglia, una voce lasciata sulla carta, per scuotere via dalla veste di Foggia quella patina storica di “città fascista” a cui lui, Mario, non si era mai arreso.

No,

forse non te lo ricordi, Mario Napolitano. Forse neppure sapevi esistesse. Eppure lui è sempre stato lì. Pronto ad invaderti le ore con il suo carico di convinzioni inscalfibili, vecchi racconti e sentimenti puri. E non voleva soltanto renderti parte del suo mondo. No, lui voleva proprio convincerti. Farti cambiare idea. E adesso, porca miseria, se n’è partito senza nemmeno avvertire, senza dare un cenno. In silenzio. Lui, per cui la riscossa era un modo di vivere e non l’occasione per trovare una morte da annali, se n’è andato nel momento più buio per la città, scossa tra bombe (non quelle che Mario ricordava con dolore, quelle degli americani), povertà, indifferenza, odio di parte e resa sociale.

E’ tutto così assurdamente triste, oltre ad essere un contrappasso immeritato per chi ha sempre avuto fiducia (a prescindere) nei suoi concittadini.

Per quel che vale, proviamo a ricordarlo adesso, come lui avrebbe voluto. Apriamo le porte al vento della dignità, facciamolo entrare nelle case e scorrere nelle strade, lasciamo scorrere la libertà e l’orgoglio, portiamo nelle scuole quegli esempi incontrovertibili di pulizia etica e storica: rispolveriamo e tiriamo fuori la storia di Nicola Stame, i massacri delle Fosse Ardeatine, le lotte antifasciste e quelle per il diritto al pane e al lavoro.

Facciamolo nel suo nome, ma per dare un senso alla cittadinanza di tutti noi. E sentiremo un bastone che batte. Come un applauso, come un tuono di felicità.

Quelle ingiurie che noi foggiani non possiamo ingoiare. Lettera (semi) aperta a Lello Di Gioia. Ovvero: onorevole, lo conosce Nicola Stame? (e la sua risposta)

“Non farò denunce. Dalle mie parti non funziona così”. Edizione nazionale de La Repubblica. Parla così, in un’intervista, il presidente della Commissione parlamentare di controllo sugli enti di previdenza e assistenza sociale. Il suo nome, Lello Di Gioia, è –ahinoi – indissolubilmente legato alla politica della città di Foggia.

Socialista vecchia scuola, Lello Di Gioia. Vecchia, ma non abbastanza vecchia da richiamare binomi con i nomi sacri: a Sandro Pertini, Giacomo Matteotti, Lelio Basso,Lelluccio ha sempre preferito – non è un mistero – l’esule di Hamamet. Lello Di Gioia, siore e siori, va più di moda come modernariato. Un eterno modernariato. Sopravvissuto alle stagioni politiche, ai monocolore e alle rimestanze. Battitore libero perché, come ogni battitore libero, può scegliere di volta in volta il tetto sotto il quale accasarsi. Ora di qui, ora di lì.

In Parlamento c’è finito in quota Partito Democratico. Poi, eletto, si è defilato ed è andato a popolare le fila del gruppone misto. Manovre da politica stracciona, imberbe e cinica, che però rende. Ed ha reso fino all’incarico (di cui all’inizio). Portafogli pieno e potere in saccoccia per uno che, notoriamente, pare si trovi molto a suo agio nella dilazione di un favore qui e uno lì.

Lui nega. Lui ha sempre negato. Anima candida e illibata, lui. Nega e non parla. Forse che “dalle sue parti” sia così che si fa? Lui scarica la sua pochezza di uomo e di politico adducendo psuedo motivazioni antropologiche, lui. Lui alza le mani, fa spallucce e dà la colpa alla foggianità brutta e cattiva che è ignavia. E che ci può fare, lui, se è venuto al mondo così? I fondo, se finanche la psicologia evolutiva ha impiegato decenni a venire fuori dal complesso e diconomico intrico natura/ambiente, lui, che tutti chiamano l’Onorevole, che cosa diamine può farci.

Arrendersi, no?

E allora ricominciamo dall’inizio. Che è anche la fine dell’intervista su Repubblica.

Ricominciamo da quella frase: “Non farò denunce. Dalle mie parti non funziona così”. 

No, caro onorevole, dalle sue parti NON funziona così. Forse quelle sue parti, o una parte di quelle sue parti, lei le percepisce così perché vorrebbe che così fosse.

Dalle sue parti NON funziona così. Altrimenti non avrebbero un senso le lotte per la dignità di Peppino Di Vittorio (dovrebbe ricordarlo, Di Vittorio; prima di passare al Partito Comunista, ebbe una lunga riflessione circa l’opportunità di lasciare il Partito Socialista), il sangue sull’asfalto dei braccianti a Torremaggiore e San Severo; non avrebbero avuto senso i circoli anarchici di San Ferdinando e il martirio per la libertà di Nicola Sacco. Se le cose, dalle sue parti, funzionassero così (laddove così è quell’impasto di silenzio e connivenza che lei immagina e pratica), non sarebbe stata, la Capitanata, una delle prime terre, se non la prima, ad alzare, negli anni Venti, la testa contro il fascismo nascente denunciandone (ha letto bene e glielo evidenzio: denunciandone) la violenza. Se le sue parti funzionassero nel suo così, non avremmo avuto i Marcone e i Panunzio, i morti ammazzati e trucidati perché portatori sani prorio di quella cultura degnissima, figlia della povertà, del bracciantato, dell’abbandono, della ribellione. terra che ai Federico ha sempre preferito i Masaniello.

Quelle sue parti, sono le nostre parti, caro onorevole. E dalle nostre parti si denuncia, si vive, ci si ribella, si soffre, si alza la testa. E se non le sta bene, si trovi un’altra parte dove vergognarsi. Che non sia Foggia. E che non sia il Parlamento (come lei stesso dice).

Chiudo con una domanda.

Lei lo conosce Nicola Stame?

Forse no.

Nicola Stame era un tenore, un grandissimo tenore. Un uomo bellissimo, affascinante. Il suo volto, la sua voce e il suo sorriso erano puro romanzo meridionale, erano atti di forza contro la barbarie fascista. Lui e non lei, è uno delle nostre parti, con la forza delle nostre parti, con il cuore delle nostre parti. Uno morto in altre parti d’Italia perché non non aveva scelto il silenzio. Precisamente fucilato. Alle Fosse Ardeatine.

Guardi questo link (alla Camera avrà la wi-fi, non le tocca neppure sostenere costi) che le allego. E’ tratto da Rappresaglia, un film del regista greco George P. Cosmatos. Nel video, la colonna sonora originale è stata opportunamente sostituita con un passo dell’opera lirica Il Trovatore di Giuseppe Verdi interpretato dallo stesso Stame nel personaggio di Manrico.

Eccolo: https://www.youtube.com/watch?v=-JyVlfe6Ujk

Non aggiungo altro. Impari solo il senso delle parole. E della Storia

Piero Ferrante – uno qualunque delle sue parti

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LA RISPOSTA DI LELLO DI GIOIA (a noi pare che no, non lo conosca Nicola Stame, ndr)

Egregio Signor Ferrante,

vorrei semplicemente soffermarmi su una questione che lei sistematicamente riporta, e che riguarda  l’ultima parte di una “non intervista”.

Sicuramente sono stato molto ingenuo perché nel momento in cui il suo collega de La Repubblica mi ha chiamato e avendo stabilito di parlare in modo tranquillo, senza rilasciare intervista, mi sono permesso di fare alcune dichiarazioni con l’articolista e che riguardavano la mia persona e il mio modo di vivere.

Le posso semplicemente dire che il “non denunciare che dalle mie parti non si usa cosi” non era certamente riferito  -come potrà confermare chiunque-  ad essere omissivo, nel conoscere fatti e non dirli e non denunciare alle autorità competenti, bensì che noi non siamo abituati a fare così: ossia di non denunciare i giornalisti che scrivono l’articolo. Perché, io più di altri, credo nella libertà di stampa e credo anche sia giusto pubblicare notizie, sempre che siano verificate di fatti, pur essendo stato attaccato più volte, non mi sono mai permesso di denunciare un giornalista. E credo che questi siano i fatti.

Inoltre, e chiudo ringraziandola per le sue considerazioni, fermo restante che è opportuno conoscere a fondo le persone prima di esprimere giudizi: il sottoscritto ha subìto ben tre furti, la macchina rubata e due in casa, ho esposto, come qualunque cittadino, denuncia alle autorità competenti. Ho ricevuto minacce, sia presso la mia sede con bossoli di fucile; nonché furti per due volte nella stessa sede, pallottole di pistola contro la mia abitazione e qualche mese fa un lettera minatoria con foto. Anche in questo caso ho sporto regolare denuncia.

Certo che il tempo, anche se amareggiato, farà emergere tutta la verità. Le chiedo semplicemente, con l’umiltà che mi contraddistingue, di avere pazienza.

Distinti Saluti, Lello Di Gioia

17/03/2014

Published in: on 18 marzo 2015 at 22.29  Lascia un commento  
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Tu

Caro compagno d’avanguardia, caro creativo e grafico, caro esponente della nuova generazione, caro eterno giovane, caro consultatore compulsivo di socialnetwork, caro frignone a ore, caro lamentone a cottimo,

tu, che trovi un po’ antichi e quasi ridicoli certi gesti di cuore, certe parole emozionali, che non hai una lira ma che tutto misuri sulla scorta dei soldi, che non hai bandiere soltanto perché, a seconda dei tempi e del quadrante da cui spirano i venti, sei pronto a sposarle tutte (e, se necessario, ad accoppiarti con tutte contemporanemente).

Tu, caro amico pseudo sfruttato, eternamente leso nella dignità personale e mai disposto a pensare un attimo di più sulla possibilità remota che possa esistere una dimensione collettiva della dignità stessa. Tu, eterno Bruto solo in quanto Cesare mancato. Tu, rivoluzionario 2.0, con più indirizzi mail di Steve Jobs (che ritieni un mito), talmente affannato a rimanere in contatto col mondo a punto tale da avere un profilo fb, una pagina fan su un argomento di cui non frega un cazzo a nessuno, profilo picasa-flikr-twitter-badoo-linkedin, shopperista compulsivo da ebay, acculturato made in Wikiquote, feticista da chat. Tu, variabile dipendente del tuo urticante fischietto di What’s App (o sarebbe meglio Va zapp?!?). Tu, mille foto con occhi rossi da sbronza presa male, ammucchiate di altri animali da circo equestre come te e nessun passato degno di meritare una menzione nel libro dell’umanità. Tu “che ne dite di un happy hour in centro?”, tu le tue mani a forma di bicchiere in plastica, amico di tutti e di nessuno. Tu che “Mah, vedi… credo che il Galaxy sia cento volte meglio dell’Ipad”.

Tu, pensiero critico assunto a Co.Co.Co dal tuo cervello a intermittenza, assertore del meno peggio finché tocca agli altri. Tu, che ritieni di essere unico perché nato nella seconda metà degli anni 80. Tu, modello di cartapesta, che sfili sul mondo con la stessa grazia di un ornitorinco in calore e la stessa utilità di un tasto inceppato. Tu, che non ammetti domande e risposte se non passano per una FAQ.

Tu, stella cadente, meteora buia, universo spento. Tu, manifesto di un futuro già scritto. Tu, il mondo in mano e nessuna possibilità di usarlo. Tu, sintesi di un fallimento, abiura delle speranze, depressione sociale, rivoluzione mancata. Tu, nessuno.

Published in: on 15 gennaio 2014 at 22.29  Lascia un commento  

No, non mi avete convinto (con tante scuse a Pietro Ingrao)

No, non mi avete convinto. 

Non mi avete convinto che diventare cattivo in un mondo di cattivi sia la soluzione. Non mi avete convinto che per giocare al ramino della vita i sogni non siano importanti e sia necessaria l’offesa. 

Non mi avete convinto, pubblicitari, teoreti del capitale, asceti del liberismo. Non mi avete convinto a trangugiare con l’imbuto della vostra morale un’immagine plastificata del mondo in cui un diamante è per sempre e l’amore, la speranza, lo sguardo al mare, solo futili vanità.

Non mi avete convinto, materialisti ad oltranza, che la costruzione del presente sia la garanzia di salvaguardia della sanità mentale e le mani allungate al futuro un giochino da Pindaro ammattito. Tenete in mano le vostre squadre, io resto con le mie dita sporche di tempera per colorare il mondo.

Non mi avete convinto nuovi uomini di partito da Seconda Repubblica, che siate meglio dei vecchi. 

Non mi avete convinto, schiavisti e sfruttatori, che la vostra onnipotenza è ciò che muove il mondo, che le vostre teorie siano la ragione dell’oggi. Il suono di una chitarra, il pianto di un figlio, il futuribile, quelli sì, è sono i miei ingranaggi.

Non mi avete convinto, fan delle minoranze, femministe consunte, monoliti dei diritti civili, esperti di settore. Non sono le vostre baracche a muovere il suq della libertà, ma le voci dei tanti senza voce.

Non mi avete convinto rivoluzionari digitali che siate realmente il nostro futuro. Piuttosto, siete il vostro presente, teste basse in treno, digitatori professionisti, amatori del pruriginoso, erotisti di parole in chat, massoni del web.

Non mi avete convinto, politici consumati, democratici incalliti, pedagogisti dell’etica, volpi umane, che si nasce comunisti ma è democristiani che si muore.

Non mi avete convinto, preti, ecclesiasti, avvocati e giudici, che la giustizia alberghi sotto le vostre gonnelle, al riparo dagli occhi indiscreti di chi voglia farla propria. 

Non mi avete convinto bagnanti della costiera emiliana, discotecari riminesi, adolescenti viziati, che siate voi quelli che la vita sappiate berla fino in fondo, che il senso sia nel divertimento, che il superfluo si il necessario.

Non mi avete convinto estremisti dell’egotismo, sostenitori dell’individualismo, che tutto passa per il bene personale e che l’altro sia soltanto una periferia. 

Non mi avete convinto, eroi dell’antimafia, pupazzi dell’editoria, giornalisti strapagati, opinionisti ventenni. Quando si vola si vola in massa. O si sta insieme, a terra, a fare gruppo.

Non mi avete convinto, difensori dell’ordine, uomini in mimetica, filosofi dei galloni, pedagogisti dell’onore e del rispetto della patria, che stiate difendendomi dal male. In tasca porto sempre e ancora le monete di Genova e sulle spalle lo stesso zaino pieno di futuro. 

Non mi avete convinto masturbanti delle bandiere, disegnatori di tricolori, che le patrie abbiano confini, le voci frontiere, i progetti caselli autostradali, i sogni check in aeroportuali.   

Non mi avete convinto medium e cartomanti, venditori di illusioni, starlette della superstizione a caccia di notorietà, potenti in miniatura, che la vita sia il vostro dettato.

Il sorriso della mia donna al mattino, le coppole dei braccianti, la foto di Peppino Di Vittorio, i canti popolari ripetuti in coro, una copia del “Cyrano”, i film di Elio Petri, l’autografo di Sepulveda, una bicicletta con i freni a bacchetta, la voce di Eddie Vedder e quella di Joan Baez. Questo si, mi ha convinto che i miei spazi non siano i vostri spazi, che non siamo uguali perché viviamo sotto lo stesso cielo, che non meritate la mia stessa dignità, che il mio cuscino è più leggero del vostro, il mio sorriso più libero e il mio futuro possibile, vero. E migliore. 

 

Published in: on 5 settembre 2013 at 22.29  Lascia un commento  

Provate a spiegare ai vostri figli….

E quindi, di nuovo, come ogni tanto succede, cari adulti, la stampa stuzzica i palati urticati dell’opinione pubblica. Ci racconta di numeri che fanno male, specie dell’Italia bigotta del volemose tutti bbene. Dicono che oltre tre ragazzi su dieci non lavorano o, perlomeno, se lavorano non risultano da nessuna parte. Raccontano d’un’Italia sfilacciata, un Paese che non c’è più e che, in balia di tecnici e tecnicismi, ha visto mortificate le prerogative basilari dell’individuo. Già, perché nella nazione che osanna la vita con ugola cantante e che straparla della difesa e salvaguardia della vita ad ogni declinazione delle parole “aborto” e “contraccettivo”, evidentemente il lavoro è solo un hobby, un allegro passatempo, un riempitivo antistress.

E quindi, di nuovo, come ogni tanto succede, cari adulti, vi trovate a sbottare, a piagnucolare, ad accordare le vostre voci sulla tonalità del capriccio, dell’accusa, del lamento. Maledite Monti e la Fornero, accusate i sindacati e la politica, reclamate perché non esiste più il merito, che i sacrifici sono stati inutili.

Eppure….

Eppure provate a spiegare ai vostri figli perché avete taciuto per decenni. Provate a spiegare ai vostri figli e ai vostri nipoti perché vi siete rincitrulluliti appresso alla televisione. Provate a spiegare perché siete voi quelli indebitati per colpa delle lotterie istantanee. Provate a raccontare di com’era l’Italia prima che vi riempissero il cervello delle menate liberiste e di come l’avete vista crepare senza far niente. Provate a spiegare loro che vi siete prostrati ai piedi di vecchi politici bavosi, vermi di potere, lombrichi illusionisti, pusher di benessere per riempire le seggiole delle amministrazioni pubbliche non pensando che, venti, venticinque anni dopo tutte le sedie da voi riempite sarebbero state le cause della disoccupazione e i pretesti dei tecnici. Provate a dirgli che, invece di alzare la voce, avete fatto la fila dietro la porta di notabili di città e di paese.

Provate a spiegargli perché non potete fare a meno della macchina e di gettare spazzatura più volte al giorno, distruggendogli l’ambiente da sotto il naso. Provate a spiegare la vostra passione sfrenata per tutto quello che luccica. Provate a dirlo. A dirvelo e a dircelo: che siete delle gazze ladre rincoglionite da Drive In. Che siete cresciuti illudendovi di poter diventare come Fonzie. Che avete emulato parrucconi cotonati, bevuto troppa Coca Cola, accettao le verità rivelate e abiurato il diritto ad avere ragione. E torto. Provate a spiegargli che non siete altro che mercenari d’una milizia paramilitare che vede schierate contro masse di poveri. Provate a spiegargli che, mentre li obbligate a studiare, voi non leggete un libro da anni.

Provate a spiegargli che se loro saranno senza lavoro è perché siete stati voi la causa del loro male. Almeno tacete. E, se mai provaste a parlare, buttatevi ai loro piedi e chiedetegli scusa.

Published in: on 8 gennaio 2013 at 22.29  Lascia un commento  
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Lettera di un credente a (don) Pierino, Giuseppino primo di Svevia e affini

Caro don Piero, caro Papa Giuseppino di Svevia, cari preti, 

chi vi scrive (sapendo di non essere letto da tutti, ci mancherebbe) è un credente. Il mio nome non importa. Non importa da dove scrivo. Non importa cosa mangio, se voti e che simbolo voti, quali feste rispetto, di che colore è la mia pelle. Sappiate che, alle vostre orecchie, non sono importante. Non esco in televisione come la Littizzetto né in radio come Fiorello. Non vado sui giornali come Saviano e non ho neppure un profilo twitter come te, Giuseppino. Sono un esemplare strano di Cristiano. Non mi vergogno della mia fede, ma non la sbandiero. Odio l’iconoclastia. Sono ondivago, uno di quelli che un po’ si rompe le palle di venire a Messa la domenica per ascoltarsi additare d’ogni malefatta dell’umanità. Ho una visione evanescente del potere (specie di quello religioso), sono facile all’indisciplina e, pur non perseguendo il peccato ad ogni costo, non mi lascio condizionare dalle giaculatorie colpevoli che inoculate tra gli accoliti, servendovi dell’autorità morale (?) conferitavi dalla vostra gonnella e diffusa Urbi et Orbi a mezzo VVVN (vecchie vedove vestite di nero), BSA (boy scout army) e CPB (chierichetti preadolescenti brufolosi).

Insomma, compagni (non vi infastidisce se vi chiamo così, vero? la conoscete quelle tiritera del cum panis, no? ps. ho detto panis, non penis… dunque non credete di fare del bene inculando tredicenni CPB), avete capito il modello antropologico. Sono uno di quelli che bollate “Cristiano di comodo”. Un Costantino dei giorni nostri, va. Uno che vive la sua vita nel nome dell’impegno quotidiano, credendo in Dio (chiunque Egli o Ella sia) e affascinato dal potere dirompente della parola di Gesù, ma consapevole che, questo credere, non basta a salvare non il mondo, bensì nemmeno il proprio appartamento. 

Devo, per onor del vero, ammettere che non vi seguo molto. Mi annoiano le omelie, mi annoiano le pippe paternaliste, mi annoiano le benedizioni comunitarie, mi annoiano gli Angelus di San Pietro e quelli di Castel Gandolfo (per non parlare di Rosari, Adorazioni e via dicendo). Non leggo i vostri giornali e non seguo i vostri siti web.

Epperò, anche per uno svogliato volontario come me, in questi giorni di Natale ne avete sparate belle grosse. Prima la storia che i gay minano la stabilità delle famiglie; poi quella, simile, che sono un pericolo per la pace nel mondo; infine, don Pierino che se la piglia con le donne picchiate e uccise, accusate amenamente di essere tutte delle mignottone di facili costumi e, a stretto giro, chiama ‘frocio’ un giornalista che gli poneva qualche domandina (se la sarà sentita salire su per la gonnella?). 

Pur nel tentativo di rimozione dei filtri pregiudiziali nei vostri confronti, ho sinceramente fatto fatica a schiarirmi le idee. Colpa forse dei banchettoni festivi, obnubilato sinapticamente dalle Peroni ghiacciate e dei limoncelli, dalla verdura della Vigilia, dai cannelloni del Venticinque e dai torcinelli di Santo Stefano. No, perché sarebbe simpatico poter sapere quale min(chi)a sia deflagrata nelle vostre tempie per portarvi, nel periodo in cui anche Satana in persona prova un briciolo di simpatia per il genere umano, a far sfoggio manifesto di tanto e tanto mirato mirato odio verso una, due categorie di persone. Tra don Corsi e Giuseppino primo, lasciate che ve lo dica, la unam, sanctam, catholica et apostholicam Ecclesiae ha palesato più odio di quanto se ne sia mai visto ad un concerto dei Black Sabbath. 

Tanto che, ad un certo punto, mi era balenata l’idea, subito repressa per assenza di liquidi (a proposito: potete mica lanciare una qualche maledizione contro i padroni, i capitalisti, i politici del precariato del mondo del lavoro se ve ne avanza qualcuna di scorta?) di inviarvi un pipistrello a testa da decapitare, pubblicamente e a scelta, in occasione del Capodanno o dell’Epifania (in tal caso avevo già uno slogan ed un cartello da appendere in sostituzione a quella minchiata di Pierino: l’Epifania che tutte le Teste si porta via…). Così, tanto per mantenersi in allenamento. 

Ora, arrivando al punto, io non sono un teologo come voi, con tutta evidenza, non siete delle volpi. Certo, arrabbato biascicante qualche concetto biblico frutto di riminescenze catechistiche e contaminazioni parentali. Oltre non mi spingo. Può darsi che nelle lacune di diritto canonico risieda la chiave di volta della mia domanda indiretta e la giustificazione dei vostri deliri dicembrini. O, più probabilmente, la conferma del mio (oltremodo, a questo punto) sacrosanto ripudio delle gerarchie ecclesiastiche. Allora, mi pongo terra-terra nel campo dell’opportunità mediatica. A che cosa è servito esternare questa vostra posizione? Dove sareste voluti arrivare? Cosa cercate di condizionare? Sapete benissimo che il pressing sulla politica di questo logoro e stracciato Paese è fatica sprecata. Sono già tutti con voi. Vi venerano come voi venerate l’inquilino del piano di sopra. E se ora, in questo preciso momento, non sono lì, chini, sotto le vostre scrivanie a succhiarvi il calice, è soltanto perché don Pierino se ne avrebbe a male.

Caro Pierino, caro Giuseppino, cari pretuncoli,

c’è un’immagine, in questi giorni di Natale, che a me, invece, è ballata in testa come una danzatrice suadente e insieme tarantolata. Un’immagine antica, piena di odori, di sapori, di storie. Un’immagine che le vostre stronzate non hanno oscurato. Un’immagine che voi non conoscete e che, pure, potrebbe farvi bene conoscere.  

L’istantanea ritrae la parete di una dimora contadina. Una di quelle primo novecentesche, misera rispetto alle vostre, una di quelle costruite mattone su mattone, mattone accanto a mattone, dal progredire delle generazioni, una di quelle con i soffitti altissimi che parevano arrivare fino al cielo, insomma, avete capito, una casetta meridionale. Su questa parete di questa casetta di una cittadina di nome Cerignola, qualche mano – chissà quale, mi chiederete? La risposta è un umile: non so – aveva inchiodato due immagini. L’una accanto all’altra due foto in due cornici. Nelle due foto c’erano Gesù Cristo e Peppino Di Vittorio. Uomini e simboli. Esempi. Nei loro occhi, quelli dei ritratti, si legge la stessa limpida dignità che balenava in quelli di chi quelle immagini ce le ha appese. Occhi che hanno visto nascere e morire bambini nelle camere di lavoro. Occhi che hanno visto processioni di contadini e di operai. Occhi che hanno percorso i deserti di Samaria e di Giudea come le campagne del Tavoliere delle Puglie. Occhi che hanno visto da vicino gli storpi e li hanno curati. Occhi che hanno visto da vicino gli sfruttati, gli ultimi, i reietti, i poveri, e li hanno guidati. Occhi che hanno visto presepi sangue e di dolore e altri di riscatto e fratellanza.

Questo è il presepe, insieme laico e religioso, che mi piace. Da quei presepi, voi, siete distanti anni luce.  

 

Scappiamo tutti da Foggia, lasciamoli soli

Sarebbe tutto estremamente più semplice se la politica fosse come la tastiera di un computer. CTRL+ALT+DEL e passa la paura. Una digitazione contemporanea di tasti e puff! fuori dalle pal… dalle stanze i caporali della malapolitica, i mammasantissima dell’affare, gli schiavetti zelanti dell’Occidente, i donabbondio del liberismo internazionale, gli esecutori della volontà delle banche.

Sarebbe tutto più semplice tanto più leggero è il programma da chiudere, senza possibilità di salvataggio dello status. Un secondo e via, nel cestino, in fretta a svuotare anche quello e ricordi di sciagurate esperienze che si perdono tra immagini digitali, icone dei solitari e quelli dei documenti word.

Sarebbe tutto più semplice, ma non è così. E allora serve elaborare nuove strategie, nuove forme di comunicazione, nuovi ingressi per dire sempre e comunque la stessa cosa: che non è la politica ad essere marcia. Ma che lo sono (quest)i politici. Che non è il sistema dei partiti ad essere corrotto e infradiciato di melma, ma lo sono (quest)i specifici partiti (tristi eredi di quelli peggiori della prima Repubblica che hanno, a loro volta, nomi e cognomi: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Movimento Sociale sopra tutti).

Dopo tanto tempo, gli argomenti si sono commutati in tiritere. In fondo, anche il più grande dei cantautori, alla lunga, finisce le idee. Identicamente, le corde delle opposizioni rischiano di suonare sempre la stessa nota. Intonata, bella, sognante, ma cacofonica, evidentemente, per un mondo che è stanco di sentirla. O, forse, troppo perso dietro pornografie quotidiane a base di fast food e tecnologia, di tacchi a spillo e shorts, di Pulcinipio e di Padripio.

A Foggia, la pornografia del potere si chiama cemento. E in realtà propone film tromberecci a base di accoppiamenti tra imprenditoria e tecnostrutture, politica e denaro, mafia e denaro, imprenditoria e politica, malaffare e mafia. Un’orgiona collettiva e godereccia che sfonda sempre lo stesso pertugio: quello di una città di anno in anno palesemente rinsecchita e sformata, non più attraente, e che alle curve della popolarità agricola ha sostituito la spigolosità diffidente e grigia dei palazzi.

Foggia. Abbiamo provato a difenderla. Generazione dopo generazione. Abbiamo provato ad andarle vicino al viso e a sollevarglielo mettendole dolcemente due dita sotto il mento. Sussurrandole che sì, volendo poteva farcela a scrollarsi di dosso la polvere e anche la sporcizia. Che non era polvere ma amianto e che la stava e la sta uccidendo di una malattia lunga e dolorosa. Foggia. Abbiamo provato a sferzarla. Chissà, forse qualcuno avrebbe ascoltato le preghiere laiche dei giovani e dei meno giovani che, un filo d’amore, forse ancora ce l’hanno. Ma le orecchie di chi avrebbe dovuto ascoltare sono rimaste sorde. Sorde alle critiche, sorde alle richieste d’aiuto. Sorde ai rumori delle manette che si chiudevano sempre attorno agli stessi polsi. Sorde ai rumori delle pistole che sparano in mezzo alla gente. Sorde alle domande inevase.

Sorde, ora abbiamo capito, tutti, perché. Perchè al banchetto orgiastico, quello in cui ci si spartiva gli interessi, c’erano anche loro. I “potenti”. Che potenti, a ben vedere, proprio non lo sono. Facevano affari con quelli che sono sempre stati loro amici e che lo sono rimasti anche una volta svestiti i panni di privato e indossata la fascia tricolore. Hanno creduto che di fronte alle rivendicazioni della parte pulita di Foggia bastasse difendersi, addirittura minacciare. Ma, solitamente, funziona che chi si difende dal bene è perché in testa ha il male.

E allora la soluzione è una. Ed è un appello a tutti. Non solo ai ragazzi. A “quelli che hanno studiato e che sono sprecati”. No. Ma anche alle donne, ai bambini, ai vecchi e ai vecchissimi. A tutta la gente pulita. Agli onesti. A chi crede nell’amore sapendo che, a volte, il bene dell’amore è doversene staccare. Andiamocene. Scappiamo. Compiamo una fuga d’amore. E’ la nostra sola arma politica, piena di coraggio. Non abbiamo altre armi che quelle della solitudine. Lasciamoli soli. Soli di non fare affari sulla pelle di nessuno. Soli a marcire sotto le tonnellate di monnezza che hanno creato. Lasciamoli soli con i loro palazzi vuoti, con i cassonetti bruciati, con le discariche che hanno contrattato. Lasciamoli soli di bearsi del nulla. Sparpagliamoci per il mondo, vicino o lontano, non importa. Cresciamoci. Diamoci nuove possibilità di conoscere. E lasciamo i soliti fare affari con i soliti, quando non servirà più a nulla. Creino pure altre Foggia. Foggia due, tre, quattro. Le facciano come sanno. E le lascino vuote.

Lasciamo i governanti senza un popolo. Lasciamo gli amministratori senza amministrati. Decidano sulle loro teste e – se resteranno – su quelle dei loro familiari e dei loro accoliti.

Sarai Franco, ma quell’abbraccio….

antiracketfoggia-7-300x158Per contare, si parte sempre da uno. Per parlare, si parte sempre dalla notizia. Che, in breve, è questa: Foggia, 5 dicembre 2012. Tano Grasso fa una capatina a Foggia, visita alcuni esercizi commerciali, passeggia con le istituzioni e con alcuni cittadini. Tra loro, Lino Panunzio, figlio di Giovanni, imprenditore edile assassinato dalla mala foggiana il 6 novembre del 1992, vicino a Libera. Vent’anni fa. Esatti. Nello stesso anno di Giovanni Falcone. Nello stesso anno di Paolo Borsellino. La “passeggiata antiracket” – grossomodo è questo il nome dell’iniziativa sulla cui opportunità e sulle cui modalità non è il caso di discutere – si snoda per le via del centro. Con Grasso, c’è anche il prefetto Maria Latella. D’un tratto (e qui la notizia si fa gustosa) s’avvicina Franco Landella (strano gioco di parole, Latella vs Landella), segretario provinciale del Popolo delle Libertà, Mister preferenza del centrodestra a Palazzo di Città, noto per gli spot elettorali in cui fa sfoggio di cravatte di dubbio gusto. Cosa voglia, Francuccio, non lo si capisce. Il dato, dunque, è che s’avvicina al corteo. La Latella lo affronta e lo allontana. Landella se la prende, s’impunta, si arrabbia, sciorina il suo falsetto, poi decide che non è il caso e torna, mesto, da dove era venuto.

Passa un giorno e la posizione di Landella si fa pubblica. Come le bollicine sullo spumante, che frizzano fino a salire nel naso, il verbo di Franco emerge su tutti i giornali. S’incazza, Landella. E spiega: “Mi sono avvicinato al corteo non per sbandierare vessilli politici ma per salutare il mio amico d’infanzia Lino Panunzio, con cui ho pianto sulla bara del padre Giovanni, costruttore, barbaramente ucciso. Mi sono avvicinato come semplice cittadino che, nella propria città, credo abbia maggior diritto di Tano Grasso di essere vicino alla propria gente. Ne ho diritto perché, a differenza di Tano Grasso che ieri è ripartito per la sua Sicilia, testimonio da anni, anche professionalmente, tutti i giorni il mio impegno per i commercianti di Foggia. Ne ho diritto perché 1.800 cittadini foggiani, il tributo più alto avuto da un candidato, mi hanno eletto a rappresentarli in Consiglio Comunale, e altri 5.600 cittadini di Foggia hanno creduto in me nel votarmi alle scorse elezioni regionali. Ne ho diritto perché io sono tra coloro che la malavita ha preso di mira, facendomi esplodere una bomba carta sull’uscio di casa in una notte di luglio del 2009”. Detto questo, non spirò, ma si autosospese dal consiglio comunale.

Dalla posizione di Landella, spietatamente, si deduce che il suo gesto – quello dell’avvicinarsi alla Carovana – non era da interpretarsi come un sostegno morale ed ideale a ciò che il drappello rappresentasse. Piuttosto, Landella, andando a zonzo distrattamente per la città si era imbattuto in un amico d’infanzia e, tutto, insieme, era montata la voglia tenera di abbracciarlo, per trasmettere, nel calore del contatto, la sua vicinanza all’uomo Panunzio.

La domanda sorge spontanea. E, anche questa, parte da relativamente lontano, dal 6 novembre. Quel giorno (un mese fa), Libera, l’Università, Rete della Conoscena, la Federazione Italiana Antiracket si riunirono a Foggia – in centro, e poi, a pomeriggio, anche a Lucera, 18 chilometri dal capoluogo, mica diecimila – per commemorare la figura di Giovanni Panunzio a vent’anni dalla sua uccisione. Di Landella, nessuna traccia. Quel 6 novembre, di abbracciare Lino e Giovanna (sua moglie), a Landella proprio è sfuggito di mente? Eppure, in città, su facebook, sui giornali, la voce era circolata. Eccome se era circolata.

Forse che Landella sia stato inibito dalla presenza delle scuole (decisamente troppe?), per un’età media che rimaneva abbondantemente al di sotto la soglia del voto (non rientravano tra i 1800 cittadini foggiani delle comunali e i 5600 delle Regionali)? Forse non ha trovato parcheggio, il buon Landella, per colpa delle strisce blu fatte mettere dall’amministrazione (però ci stava bene una nota stampa con queste parole: “Stavo arrivando in Università quando un crudele parcheggiatore mi ha affrontato con fiero cipiglio per esigere il pagamento dell’ora di sosta, al che ne è scaturita una discussione che s’è arenata in quisquilie e lungaggini tanto da impedirmi la partecipazione”)?

Spieghi, il buon Landella, piuttosto, come mai non ha mai partecipato alle iniziative in ricordo di Francesco Marcone o di Giovanni Panunzio. Sappia, il buon Landella, che la politica esige luoghi e tempi giusti e ogni ‘politico’ incapace di starci dentro non è degno di questo epiteto. Non serve un consulente pubblicitario ben remunerato se, alla base, si manca di prassi e di teoria. E se proprio vuole stringersi attorno al dolore di una famiglia sappia che di occasioni ce ne saranno a fiotti. Ma lo faccia in silenzio e con discrezione, senza clamore e senza tirare in ballo i giornali. Perché il rispetto è cosa sacra e, anche in questa Italietta infima e abituata ai suoi mostri, lustrarsi l’immagine in vista delle prossime elezioni servendosi dei familiari delle vittime di mafia è cosa pietosa.

(l’immagine è tratta dal sito http://www.statoquotidiano.it)

Published in: on 6 dicembre 2012 at 22.29  Lascia un commento  

Foggia, resisti – canto di-sperato di un foggiano fuori sede

Foggia resisti. Sali sulla montagna della giustizia, sui picchi della reazione, dell’orgoglio, esci dal fondo più fondo dove ti hanno gettato, risali la china. Foggia non morire.

Foggia resisti. Caccia fuori le unghie, tra fuori tutto quella forza di cui sei capace, riappropriati della dignità che era dei tuoi braccianti, dei tuoi ferrovieri, dei tuoi bibliotecari coraggiosi. Foggia resisti. Isola i delinquenti, i farabutti, i criminali, torna a fare società, metti al bando chi si vanta di essere ignorante, rigetta chi si bea di amarti ed invece di odia.

Foggia resisti. Scuotiti di dosso la polvere della paura, rispondi alle bombe con un’esplosione di gioia e di voci, con un trionfo di colori e di energia.

Foggia resisti, buttati per strada, occupa gli spazi, sentiti sempre nel posto giusto al momento giusto, viola le zone rosse del terrore, riannetti i quartieri, le periferie, il centro, sbianca tutte le zone grige, illumina i coni d’ombra, inonda della purezza dei bambini e degli anziani la violenza, fino a soffocarli. Foggia reagisci. Protesta contro chi ti mette agli ultimi posti di tutte le classifiche, ma fallo costruendo palazzi senza soffitti, che guardino al cielo. Foggia organizzati, reclama quello che ti spetta, pretendi di partecipare alle decisioni, ribellati alla bruttura del cemento e della spazzatura.

Foggia resisti. Non fare finta che attorno a te non ci sia che la tua ristretta cerchia di amici, familiari, colleghi. Foggia sindacalizzati, Foggia risvegliati.

Foggia, per una volta non accontentarti di perdere di misura o di pareggiare facendo catenaccio in attesa dell’acquisto che non giungerà mai. Foggia, vinci.

Cento volte peggio dei nazisti – ecco l’articolo di Odifreddi censurato da Repubblica

Uno dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi “giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler, l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima, nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.

In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile.

Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.

Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?