Attendendo con Buzzati (Recensione “E se venisse davvero?” – Lucia Bellaspiga, Ancora 2010)

C’ha impiegato trent’anni, Dino Buzzati, a chiedersi il senso del Natale, della festa. L’autore de “Il Deserto dei tartari”, la firma del Corriere della Sera, si è riflesso nello specchio della festa santa per eccellenza con la frequente cadenza della strega di Biancaneve. Come quella, Buzzati andava alla ricerca di un senso. Da ateo, questo senso rassicurante, la certezza, la cercava nelle cose del mondo. Dal mondo, dalle luci, dallo sfavillio, dai doni, dalle voci. È nell’uomo e nei suoi gesti, nell’uomo e nei suoi vizi, nell’uomo e nei suoi limiti, nell’uomo e nelle sue paure, nell’uomo e nelle sue maschere, nell’uomo e nei suoi occhiali storcenti, che Buzzati ha scrutato. Sentimenti che ha indagato quasi il mondo fosse una immane tasca. Vi ha attinto a piene mani. Ha scavato, ha cercato, ha spostato. E scavando, cercando, spostando, ha sperato di trovare.

È questa parte di Buzzati che ha solleticato la curiosità intellettuale di Lucia Bellaspiga (giornalista de “L’Avvenire”). Con la milanese Ancora, ha dato alle stampe il testo “E se poi venisse davvero? Natale in casa Buzzati”. Un volumetto agile, veloce come veloci sono le ore della festa, rapide e soddisfacenti come l’intermittenza delle lucciole sull’albero, frugali e senza pretese come un pasto consumato con il solo condimento del bene familiare.

Vi emerge, dunque, un Dino Buzzati non proprio inedito. Un po’ bambino gioioso, un po’ eremita della psiche, un po’ apolide della fede. Emerge un Buzzati in evoluzione, giammai fideista e men che mai partigiano della ragione. Tutt’altro. La Bellaspiga si serve di citazioni ampie, attinge alla vasta bibliografia buzzatiana in tema natalizio, per illustrare i dubbi. vero, perché di dubbio e non di altro si parla. In Buzzati, è assente l’arrovellamento del cercatore della fede tanto quanto non si scorge traccia del presuntuoso disfattismo dell’ateo. Dino Buzzati, il non credente Buzzati, lo scrittore Buzzati, il cronista Buzzati, il lucido Buzzati è anche quello che scorge i perbenismi per stanarli, il cui moralismo non è fine a sé stesso ma si staglia del cielo della morale, che addita i disfattismi ed i disfattisti. Li valuta, li giudica, li condanna.

Nella ricerca del significato del Natale, Buzzati ha vestito e svestito dolcezza, rabbia, incertezza, illusione e disillusione. Ha riversato sui suoi personaggi queste emozioni, vi ha vomitato addosso parole e sentimenti. Nelle creature di Buzzati è leggibile tutto Buzzati. È lui quello che chiede il ritorno al sogno, come è lui quello che inveisce contro la festa; è lui quello che sproloquia sottilmente contro il consumismo, ed è lui quello che calca la mano sull’importanza della presenza nella vita dell’altro. Il suo Natale non è dissimile da quello di un credente. E pur nella fatica di cogliere appieno il senso, mai Buzzati tradisce il grande mistero dell’attesa, mai disattende alla gioiosa riunione di bontà (e lui parla espressamente di bontà e la contrappone alla miseria patetica del buonismo di facciata). E, nel riconoscimento dell’attesa, è insito debolmente ed implicitamente il mistero della sacralità. Ed il suo Gesù, il Gesù della verità, il Gesù dei bambini, il Gesù del sogno, sa essere anche beffardo. A punto tale che la sua eventuale venuta – che chiede, quasi invoca come risposta alle mille domande poste a se stesso – smonterebbe i teoremi meccanicistici di un’umanità di “atomi”, “razzi”, “torri”.

Perché, in fondo, “i prodigi non hanno fretta”. Tanto vale star lì ad aspettare. Senza fretta e senza rumore. Silenziosi.

Lucia Bellaspiga, “E se poi venisse davvero? Natale in casa Buzzati”, Ancora 2010

Giudizio: 3 / 5

 

Il calcio in camicia nera (recensione de “Il calcio e il fascismo” – Simon Martin, Mondadori 2007)

Simon Martin, "Il calcio e il fascismo", Mondadori 2007

Simon Martin è ricercatore alla British School of Rome. Tre anni fa ha dato alle stampe questo libro, “Calcio e fascismo”, edito da Mondadori, in cui, attraverso una documentazione accurata ed ampia, tratta esaustivamente l’argomento. Un saggio storico che risponde ad ogni crisma della ricerca ed in cui, accanto al trinomio, “Fascista – quaderno – moschetto”, l’autore ne pone un secondo: “Fascismo – sport – monumentalità”. Certo, perché il calcio, oltre ad essere uno sport di squadra, è ciò che scompagina i rapporti o che li sedimenta. E se il calcio è socialità, lo stadio è il fulcro della vita sociale intessuta attorno alla matassa sportiva.

Ecco perché, durante il Ventennio, lo sport nazionale assunse un’estetica che varcò la semplice rappresentazione del campo. Il fascismo, ed in particolar modo i vari ras locali, guerreggiarono tra di loro per cantierizzare il campo sportivo più rappresentativo, nel medesimo istante istanza sportiva e voluttà politica. Bergamo, Bari, Bologna, Firenze, Roma, Verona: lo sport si risciacquò nelle vasche di palazzo Venezia e ne uscì adornato di simboli e di statue, vestito di marmi e lastricato di ideologia. Gli stadi assunsero la forma di teatri, si dotarono di torri e di tribunette d’onore. In giro per l’Italia, i fasci locali si affaccendarono nel dare il nome del Capo a questa o a quella parte della struttura. Il popolo come parte integrante dello spettacolo, romanizzato nell’idea del panem et circenses, gli artisti – in primis i futuristi – tutti presi ad inseguire la nuova tendenza di massa.
Martin affronta molti altri temi. La competizione sportiva che si commuta in uno spintonarsi politico per occupare la fila dirimpetto al Duce, la questione degli Oriundi, vecchio e nuovo pallino delle Federazioni di ogni tempo. Perché, insomma, il calcio non è solo sport. È molto di più.

SIMON MARTIN, IL CALCIO E IL FASCISMO, MONDADORI 2007

Link: http://www.statoquotidiano.it/29/12/2010/palloni-di-carta-6/39575/

Finalmente “Finalmente Godot”

Manca solo Nikzad. La foto è di Giusy

Sette spettacoli ed un ottava rappresentazione già calendarizzata per il prossimo giorno dell’Epifania. Un successo di pubblico che induce a parlare di botto. “Finalmente Godot”, piece scritta, diretta e portata in scena dalla compagnia Teatro dei Limonidi Foggia, oltre ad essere un’opera bellissima, intensa come poche altre in circolazione sui palcoscenici foggiani, è una macchina del consenso. Sentimentale fino al magone, emozionale fino alle lacrime. Thomas Becket non avrebbe saputo dar seguito migliore alla sua celeberrima composizione dell’attesa.

Sì, l’attesa. Sua Maestà l’attesa. Lama a doppio taglio, pugnale a serramanico senza manico. Colpisce coloro che l’ attendono, affonda in loro gli artigli ruvidi della follia, nella carne viva imprime il segno dell’instabilità. Tenta e costringe nel contempo. Ed eccoli lì, Estragone – LosavioVladimiro – Galanoancora imbrigliati nelle maglie del tempo, in balia di una nave ingovernabile. Solitari, disperati, scombussolati. Vite nelle vita dell’altro, partigiani arruolati nelle schiere della vita contro la morte che avanza. In un posto anonimo e quanto mai attuale. “Il palco”, questo il suo nome. Laddove i riferimenti in termini di ore sono scanditi dallo sversamento dei rifiuti. Le lancette sono le macerie dell’uomo, i quadranti cartoni usati e plastica ammucchiata, gli orologi i segni della stanchezza sui volti dei protagonisti.

Un quadro allucinato in cui i due, Estragone e Vladimiro, si muovono altrettanto allucinati. Attendono per non attendere oltre. Un giorno dopo l’altro. E l’ultimo che diventa un perenne penultimo. Una reazione a catena. Anello dopo anello si perde nelle nebbie fumose ed indistinte dell’infinità. Tetra, svuotata della speranza ed intrisa di illusione.
Si attende per non attendere oltre. E, nell’attesa, Estragone e Vladimiro si arrovellano per truffare il calendario intessendo una fitta ragnatela di azioni e giochi sconclusionati. È la celebrazione del fare, la cura opposta all’immobilità. I due, nel fare, ansimano. E nel voler fare, fanno nulla. Fanno per la sola ragione del fare. Fanno per la ragione del disfare per fare ancora. Arrovellamenti, contorcimenti, rotazioni circensi di esistenze ridotte al lumicino.

 

Finché l’aspettare, di volta in volta, si traveste da aspettativa. Di fronte al servitore del maestro Godot (Francesco Nikzad), quotidianamente latore del messaggio di rinvio dell’appuntamento fissato. Di fronte a quel vecchio ubriaco, malandato, incanutito riversato nel parco dell’attesa con l’ennesimo carico di immondizia. In lui rivivono le speranze dei protagonisti. In lui si riflettono le loro stanchezze, la resistenza infiacchita, l’incapacità di far fronte alla verità effettiva, l’incredulità alle parole. Per Esatrgone e Vladimiro, il tempo non è stato cura, ma malattia. Li ha incattiviti, desensibilizzati, uccisi. Uccisi, desensibilizzati, incattiviti. Cercano vendette nella morte, soddisfazione nell’annullamento corporale. Riversano le loro fatiche indosso ad ogni essere umano. Anche addosso all’inatteso (sorprendentemente Godot).

Nella scrittura di Leonardo Losavio, i protagonisti sono anime disilluse, scosse da anni, decenni, forse secoli di fame, sete, bisogni insoddisfatti, mete mai raggiunte. Epicentri di un terremoto abitudinario. Sono venti del nord senza più forza; denunce senza più prove; atleti senza resistenza anaerobica. Sono vittime che giocano il gioco della carneficina. Ma che nel gioco provano ancora rimasugli di sensi di colpa. Sono carni ciniche ed impaurite, voci isteriche e cuori sventrati. “Immagini dell’attesa e dell’atteso”. Carte d’identità senza più identità; fotografie che non rappresentano alcuna immagine; respiri senza più fiato.

L’arrivo di Godot (un magistrale Giuseppe Rascio) li coglie alla sprovvista. Li scuote senza cambiarli. Prima ci credono. Credono a Godot. Poi non credono più. Smettono di credere a Godot. Ma, in effetti, a loro non serve Godot. A loro serve un Godot. Qualcuno che li rassicuri, che non li svegli. Anzi, che doni loro quella proprietà di sognare di cui le notti agitate dall’attesa li ha privati ineluttabilmente.
Il Godot arrabattato e dimentico di sé stesso che si trovano di fronte è la negazione stessa di ciò che loro immaginavano. Paradosso nel paradosso, Esatragone e Vladimiro acquistano lucidità ed orgoglio nel rangente esatto in cui avrebbero soltanto dovuto abboccare all’amo teso, aggrapparsi alla corda.
Colpa di un Godot in maniche di mutande a camicia di forza, un po’ Totò, un po’ Chaplin, assurdo e ballerino, assurdo e mingherlino, assurdo e lamentoso.

Nei suoi pianti, in una serie di mosse previste alla perfezione in un copione senza pecche, i due sopravvissuti leggono le risposte che vorrebbero. Interpretano a loro vantaggio, prima di montare la rabia e coltivare sogni di vendetta. In un climax ascendente, lo spettacolo sale nei toni: da commedia si fa dramma. Avvolge e travolge lo spettatore. Non si può esserne esenti. La maestria di “Finalmente Godot” sta nella capacità attoriale di prendere per mano la platea portandola a scavare nel mezzo di quei rifiuti in cui loro stessi, gli attori, i protagonisti, i personaggi, scavano senza sosta alla ricerca di indumenti e novità. E nell’abilità (di scrittura e recitazione) di mantenere sempre vivo e valicabile quella striscia terrana che divide follia lucida e realtà caotica. Con ovvie ricadute positive sul pathos.

“Finalmente Godot” è comico, triste, disperato, urlante, cinico, sentimentale, folle, consolante, provocatorio, solleticante, fantasioso, crudele, dolce, cruento. Becket ne sarebbe orgoglioso.

(prossimo – ed ultimo spettacolo – il prossimo 6 gennaio. Per prenotazioni, rivolgersi in teatro, Vico Giardino 21, Foggia)

 

.:::Adolescenze all’ombra dell’altoforno:::.

-colei che la mia vita ama più di sè stessa-

Silvia Avallone, "Acciaio"

Via Stalingrado, Piombino. Periferia operaia che guarda il mare, palazzoni scrostati, dormitori per esistenze ai margini. La vita scorre veloce al ritmo della lavorazione dell’acciaio, si arroventa, si fonde, prende forma per diventare altro, armi, pentole o rotaie di un treno su cui nessuno degli operai viaggerà.

Perché la vacanza in via Stalingrado è la spiaggia di fronte casa, la sabbia di scorie e resti della Lucchini, l’acciaio che ti entra dentro, il corpo-macchina che ha fretta di crescere e plasmarsi come i metalli fusi nell’altoforno Afo4 che svetta sovrano sull’adolescenza in piena esplosione di Anna e Francesca, protagoniste di quest’opera prima diSilvia Avallone.
A’ e Fra’, dall’asilo insieme, solo una squallida rampa di scale a dividere le loro case, piccole vallette di periferia con l’illusione di avere il mondo tra le mani, di poterlo graffiare con le unghie laccate in fucsia, perché tutto ciò che conta a Via Stalingrado è la bellezza. E, loro, la bellezza ce l’hanno. Lo sanno. E ne approfittano.

Al ritmo di hit da discoteca Anni ‘90, glitter e rossetti sgargianti messi su di nascosto dai genitori, sognano l’Elba li di fronte ma irraggiungibile, il futuro insieme, palpebre impiastricciate da improbabili ombretti si chiudono sul loro micro mondo squallido, su un padre padrone abbrutito dal lavoro in acciaieria, su una madre repressa che sogna la lotta di classe a colpi di Mocio sui pavimenti sconnessi.

Si, per loro non sarà così, loro andranno via, loro avranno di più, non saranno madri bambine né donne arrese alla miseria, vecchie a trent’anni anni, la bellezza le salverà, fuggiranno mano nella mano, proprio come fanno adesso mentre si pavoneggiano tra le cabine in micro bichini. Anna sogna una carriera da avvocato, magistrato, le piace studiare, Francesca è dura, sogna meno, la vita in soli 13 anni è già stata troppo cattiva. Ma quando arriva l’amore per Anna, la lega di acciaio che la unisce a Francesca si incrina e poi si spezza.

Per Francesca arriva il vuoto, l’illusione di essere grande, di poter fare a meno dell’altra, piccola donna alla scoperta del proprio corpo, consapevole portatrice di una bellezza da buttare in faccia agli altri con violenza e ribellione, fuori in trampoli e minigonna, lei che odia gli uomini ma si lascia guardare, ancheggia tra gli sguardi avvinazzati di chi potrebbe essere suo padre, tra occhi allucinati da droghe varie dei più giovani, dura procede nella sua piccola vita senza prospettive.

Perché il futuro a via Stalingrado è come un pensiero egoista di cui ti vergogni, è quel tempo che viene, passa e ti distrugge, credi di aver perso tempo ma è stato il tempo a tradirti, ad abbandonarti come l’ammasso di scorie che l’acciaieria rilascia nell’aria ogni secondo.
L’acciaio che dà il titolo a questo romanzo, che entra nei protagonisti ad indurirgli il cuore, a intristirgli lo stomaco, che dà da vivere e da morire, l’acciaio che di suo non esiste, che ha bisogno di altro per diventar tale, come le vite di A’ e Fra’, incomplete, imperfette e fondamentali l’una all’altra.

SILVIA AVALLONE, “ACCIAIO”, RIZZOLI 2010
Giudizio: 3 / 5 Post adolescenziale

“Noi poliziotti siamo dalla stessa parte vostra”. Dimostratelo

DI SEGUITO, LA LETTERA APERTA SCRITTA DA UN POLIZIOTTO DI TRIESTE, MAURIZIO CUDICIO, RIVOLTA A TUTTI GLI STUDENTI IN LOTTA.

Sento il bisogno di scrivere queste due righe rivolgendomi allo studente che mercoledì andrà in piazza.

Io poliziotto, sono figlio e padre e quando finisco di lavorare torno a casa dalla mia famiglia. Mia moglie mi chiama al cellulare e mi dice di non fare tardi che la cena è quasi pronta. Io contento la tranquillizzo e le dico che tornerò prima possibile. Passano le ore e mi ritrovo in ospedale con la testa rotta.

Studente, mi rivolgo a te, io sono consapevole che non sei stato tu, tu hai tutte le ragioni del mondo di manifestare per i tuoi diritti, ma quello che non sai forse è che noi poliziotti siamo con voi, siamo dalla vostra parte e non siamo contro nessuno. Noi rappresentiamo lo Stato quando ci vedete in strada – continua la lettera -, ma credimi siamo orgogliosi di farlo, noi amiamo il nostro lavoro ma siamo in piazza anche per voi. Non siamo lì per divertimento e facciamo di tutto, credimi studente, di tutto, per evitare che qualcuno si faccia male.Certo gli ordini sono ordini e noi siamo obbligati ad eseguirli, ma sappiamo benissimo dove dobbiamo fermarci per il bene nostro e vostro. Abbiamo paura, si tanta a volte e in certi momenti forse sbagliamo, ma credimi, parlo con il cuore, quando ci troviamo tra due fronti, in mezzo alla guerriglia urbana è veramente dura. Scusami se ti chiamo studente forse è troppo in generale, ma potrei chiamarti, Gianni,Luisa, Giovanni o Marco, per noi siete tutte persone che hanno diritto di manifestare e noi siamo in piazza perche questo diritto sia rispettato. I media e i politici a volte esasperano i toni, non rendendosi conto che in strada ci sono solo persone, che abbiano la divisa o che siano studenti, siamo tutti “uomini” e tra noi NON deve esistere il VS! Grazie studente, ricordati se hai bisogno di qualsiasi cosa noi siamo qui al tuo servizio.

Ciao da un amico, ciao da un poliziotto»

Nichi V. a mani piene: “Prendo voti anche a destra”

L’ha detto. E, questa volta, ne ha fatti arrabbiare parecchi. A sinistra, a destra, al centro. “Io prendo voti a destra”. Un vanto. È qui, agli occhi di Nichi Vendola, ieri intervistato da Lucia Annunziata durante la trasmissione di Rai Tre, “In mezz’ora”, che si colloca il segreto del suo successo. Lui è il grimaldello. Il paese la porta. La maniglia quella saccoccia di voti trasversali che attingono qui ed attingono lì. Attingono dappertutto.

Il rivoluzionario gentile è una vecchia volpe della comunicazione. Sa di essere, mediaticamente più ancora che politicamente, il personaggio del momento. È per questo che gioca con le parole, miscela le strategie, riporta in auge tutto il messaggio che gli è confacente.
Una faina. Scaltro. Giacca grigia, camicia bianca, cravatta. Più formale, ma combattivo nell’identica maniera. Nikita il rosso scalda i motori, olia i circuiti. È già in palese assetto da guerra. Di fronte alla battagliera giornalista de La Stampa si presenta in modalità rullo compressore. Infervorato. Come lo era stato nel 2005. Come, a gennaio 2010, nella gremita e gelida Piazza del Ferrarese chiudendo la lunga campagna delle primarie.
Vendola conosce alla perfezione ciò che la gente si attende da lui: la rinuncia a volare basso. E, pertanto, spicca il volo. L’empireo è quello dei sogni, delle speranze, delle costruzioni, “della narrazione”. Svetta, plana, torna in alto. Gode dell’assist servitogli al primo minuto utile dalla conduttrice salernitana. Julian Assange. Gode sul serio. E lo dice: “Provo godimento fisico nei confronti della rivoluzione mossa da Wikileaks”. Democrazia che ha scardinato i poteri forti, freccetta a bersaglio sui mirini gommosi delle banche, delle burocrazie mondiali, delle ambasciate, dei potenti. Vendola empatizza con l’attivista australiano. Si sente molto simile a lui. metaforicamente, si vede come un Assange del palazzo di cemento della politica.

Fa da bomba, da kamikaze. Sventra spietatamente la partitocrazia della chiusura, le elite aristocratiche in giacchetta nera. Nel contempo si annovera nella schiera dei decisori e prova a smarcarsene. Sulla violenza di parte degli studenti, ad esempio: Roberto Saviano è “cattedra credibile”, Maurizio Gasparri latore di una strategia “argomentativa che annuncia il fascismo”

IL PD – Ma è quando entra in gioco il capofila dell’opposizione a Berlusconi che Nichi Vendola mostra tutti i suoi muscoli. Stuzzicato dall’Annunziata, rifila botte da orbi ad Enrico Letta che, via giornali, lo accusava di concussione berlusconiana contro Romano Prodi. E uno: “Attacco ad alzo zero da parte di chi manifesta una linea politica confusa ed un orizzonte inquietante e poco chiaro”. E due: “Se Letta dedicasse alla Gelmini la stessa forza che usa contro di me, avremmo affossato il decreto della Ministra”. E tre: “Quello di Letta è un teatrino lontano dalla realtà in un Italia che è un paese dal profilo ottocentesco”.
Sulle macerie del Partito Democratico Vendola passa e ripassa con tanto di scarpe chiodate. Strana, stranissima, però, è la strategia e la posizione che, di volta in volta, assume. Più di una volta, la conduttrice si lascia sfuggire un chissà quanto involontario “segretario del pd” riferito proprio al governatore rosso. Che non ribatte una sola volta. Sogni di svolta? Chissà. Fatto sta che gli affondi nei confronti del partito di Bersani sono molto duri. E vanno a segno. In primis in merito all’alleanza “con un terzo polo renitente” e alle lusinghe finiane (“Come si può pensare a progettare il nuovo centrosinistra con chi sta esplicitamente ammettendo di voler rifondare il centrodestra?”). Ma del Pd, Vendola si spinge a reclamare anche la base: “La base del Pd mi chiede Unità”

LE PRIMARIE – Vendola assalta il fortino democratico anche in merito alla gestione delle emergenze sociali. Parla di “autismo dei partiti che non sono in grado elaborare risposte all’altezza dilemmi società oggi”. E, soprattutto, discute di come tornare a metter al centro della discussione politica la gente. Ovvero, attraverso quel metodo democratico “che ho imparato dal Pd”: le primarie. È interessante costatare che è proprio alle primarie che Nikita il rosso dedica la maggior parte del suo discorso. Ed è alle primarie che riserva il lusso di coniare logismi e locuzioni tutte vendo liane. Sulla forma di scelta, Nichi Vendola si concentra fin quasi al lirismo, tanto che, a tratti, le primarie finiscono per essere: “la leva che solleverà questo mondo della politica”, ciò che “illumina la scena politica di una platea che si mantiene sovrana”, “il lievito che fa bene ad un centrosinistra in depressione”, che impedisce la riduzione ad un panorama in cui “il popolo è come in una curva sud mentre la politica la si fa in campo”.

È in questi passaggi conditi di un tocco di sbruffoneria che V. si avvicina a B. Sono questi i momenti in cui avoca a sé il possesso dell’appeal, un’autofascinazione calamitica cui è impossibile astrarsi. Quando V. spazia di campo in campo: un po’ Berlinguer, un po’ Allende, un po’ Sinistra e Libertà, un po’ leader Pd, un po’ Governatore, un po’ premier futuro. In pectore. Vendola diventa V. nella formula provocatoria. Nel “se sono quello che ha preso solo un milione di voti alle Europee, il Pd di cosa ha paura?”; nell’ “ho vinto le primarie con il 70% mentre la mia formazione, anche in Puglia, non va oltre il 10%”. Rivendica i suoi voti. Come B. è qui che il Governatore inciampa ponendosi come depositario di un consenso diffuso che non solo trascende Sel, ma travalica la sinistra, arrivando a quelle “famiglie che vanno in chiesa la domenica, le famiglie ipermoderate angosciate per il futuro dei figli”.

Il dado è tratto, il cammino è incominciato. Nichi è in marcia. Roma non è lontana.

Corrompo, quindi sono

Il malaffare, Longanesi

Si parte da qui, da pagina 138. “La corruzione è la normalità, non l’eccezione. Il dono stagionale, la bustarella, il pizzo, la percentuale metodica sull’affare o la tangente occasionale rappresentano la norma, non un comportamento eccezionale”. Garantisce Carlo Alberto Brioschi ne “Il malaffare. Breve storia della corruzione” (Longanesi, 2010). È in questa ammissione, sconsolata, pronunciata a braccia basse, quasi rassegnata, che è racchiuso tutto il messaggio del suo libro. Il giornalista, già autore di una precedente opera simile, ha dato appena alle stampe questa nuova rassegna di casi storici.

Malvessazioni istituzionali, politiche, sociali. Piaghe da decubito morale, da eccessivo adattamento su modus agendi che, rimanendo nel novero del normale, si sono affermati come tali. Una storia datata, remota nel tempo e diffusa nello spazio. Non caratteristica peculiare di un popolo, di una società, di una sola ed uniformata civiltà, bensì una macchia oleosa, facilmente spandibile, che tutti unge e tutti sporca. Tanto che, se uno se ne macchia, inevitabilmente, finirà per rendere sporchi anche gli altri. Un tema scottante ed attuale, quello della corruzione. Suffragato da una casistica ampia.

Per annodare il filo del discorso, Brioschi risale addirittura alla Grecia antica, onde poi districarsi sulle strade romane (prima repubblicane, poi imperiali), passar sul Medioevo ed il Rinascimento, asfaltare il perbenismo assolutorio della Francia Rivoluzionaria ed approdare lucidamente al berlusconismo. Brioschi non si dissocia di tanto da “La Casta”. Ma, a differenza di quello, questo amplia il raggio della considerazione, attraverso una trattazione enciclopedica ed esaustiva del fenomeno. Citazioni, rimandi letterari e filosofici, esemplificazioni politiche: per comporre la storia della tangente (mazzetta, raccomandazione, favore che sia), tutto fa brodo nella minestra dell’autore. Ed ogni ingrediente ne insaporisce il gusto.

È lo sguardo privilegiato del giornalista, sempre a contatto col fatto, con la notizia allo stato puro dell’arte, a fare di un libro normale, uno scrigno di informazioni e citazioni. Una sommatoria di casi che oltrepassano dichiarazioni, intenti ed ideologie, collocandosi tanto in un campo di pensiero, quanto in quello opposto. Un virus immune ad ogni antidoto? No, piuttosto un malato che rigetta la medicina. Di corruzione non si muore. Magari ci si rafforza. A punto tale da conformarsi, la mazzetta, come l’esegesi stessa del potere, la sua spiegazione, la sua concretizzazione. Se posso, quindi, sono.

E la politica è, da sempre, stata il ricettacolo della contaminazione. L’epicentro focale di un sistema indistruttibile (in quanto fondato sui bisogni concreti della gente normale: il lavoro, la casa, l’asilo…). Usufruttuaria di mansioni, distributrice di favori, Babbo Natale della comunità.

Con l’avvento di Berlusconi e l’imporsi della sua visione aziendalista dello Stato, il vizio è diventato scontatezza. Si fa così, perché così è normale. E l’Italia, stuprata e contenta, è rimasta incinta di questo gioco. Nulla di nuovo, l’arrendevolezza. È un vessillo nazionale, più unificante degli Azzurri del calcio. Lo diceva già Umberto Saba (e lo ricorda Brioschi, non a caso): “È col parricidio che si inizia una rivoluzione. Gli italiani invece vogliono dare al padre ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli”.

CARLO ALBERTO BRIOSCHI, “IL MALAFFARE. BREVE STORIA DELLA CORRUZIONE”, LONGANESI 2010

Giudizio: 3.5 / 5 Illuminante

Mafia si, mafia no, mafia ni

Carolina Lussana

QUESTO UNO STRALCIO DELL’INTERVENTO DELLA SENATRICE LEGHISTA CAROLINA LUSSANA. ARGOMENTO: IL CONTRASTRO DEL GOVERNO BERLUSCONI, E DELLA LEGA IN MANIERA INDIRETTA, ALLE MAFIE

“I dati relativi all’andamento della criminalità, con un sensibile calo della delittuosità generale e i successi riportati nel contrasto alla criminalità organizzata, sono dati che parlano chiaro. Altri e di diverso colore politico sono stati i Governi che hanno portato avanti la trattativa fra Stato e mafia (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).
Questo è stato il Governo che più di tutti ha portato avanti la lotta contro le mafie: 661 operazioni di polizia giudiziaria, 6.754 mafiosi arrestati, 28, su un elenco di 30, latitanti di massima pericolosità arrestati, quasi 15 miliardi di euro il valore dei beni sequestrati alle mafie, 3 miliardi di euro confiscati e il codice unico antimafia, che ha fatto finalmente diventare legge le proposte di due eroi dell’antimafia come Falcone e Borsellino (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania). Questa è la legalità dei fatti e non delle parole(Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà)”.

Gianfranco Miglio

QUESTE, INVECE, LE PAROLE DEL CD IDEOLOGO DELLA LEGA NORD, SODALIZIO DI APPARTENENZA DELLA LUSSANA, GIANFRANCO MIGLIO. TANTO PER CONTRIBUIRE A RENDERE GIUSTIZIA AI FATTI, MIGLIO E’ QUEL TALE SANTIFICATO CUI LA LEGALITARIA LEGA NORD, IN QUEL DI ADRO, HA DEDICATO UNA SCUOLA ELEMENTARE E CHE HA IMBOTTITO DI SIMBOLI ALPINI

“Che cos’è la mafia? Potere personale spinto al delitto. Bisogna partire dal concetto che alcune manifestazion tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”


E adesso pedala (Recensione de “La mia prima bicicletta” – Ediciclo 2010)

AA.VV, La mia prima bicicletta, Ediciclo 2010

Trentuno come il padrone di casa per la smorfia. Trentuno, come i giorni massimi incastonati nella pagina di calendario di un mese. Trentuno come le storie racchiuse in “La mia prima bicicletta”, un manualetto edito da Ediciclo. Racconti. Macchè racconti, ricordi. Macchè ricordi, memorie. O ancora pensieri, sfoghi, filosofie, confessioni, retroscena. A volte confusi con gli attimi, sedati dagli anni, assopiti dal tempo. Altre volte perfetti come la luce folgorante, vividi come un soffio di tramontana preso in piena faccia.

Trentuno piccoli aneddoti. Trentuno: a ben pensarci, uno al giorno. Uno a sera. Da cavalcare liberamente, senza troppa concentrazione, senza troppi pensieri. Per lasciarsi andare al flusso dell’infanzia, per diventare l’ala di una rondine in perfetto equilibrio con l’aria da fendere, per sommergere le fatiche sotto le braci calde e consolanti di una passeggiata in campagna. Affidandosi all’acciottolare delle pietruzze al di sotto dei pneumatici della bici. Per la precisione, della prima bici.

Rossa, arancione, azzurra, bianca. Un sunto di tutti i colori del mondo, le prime due (tre, quattro) ruote personali sono la chiave per l’accesso alla prima grande, immane emozione vitale. Con l’epifania in quell’attimo supremo, sommo, dello stacco. Mano del papà che si stacca dal sellino del figlio. Un librarsi, un planare, un piccolo grande volo nella vita, lo sfondamento delle porte della consapevolezza dei propri limiti e delle proprie grandezze.

Paolo Colagrande, Maurizio Crosetti, Margherita Hack, Gianluca Morozzi, Gianni Mura, Darwin Pastorin, Paolo Rumiz, Susanna Tamaro, Wu Ming2. Tanti autori ed altri ancora. Giornalisti, scrittori, medici, interlucori con il foglio della propria personale e singolare esperienza. Redattori di un dizionario delle emozioni infantili; orchestrali della sinfonia del sogno, sgranatori del Santo Rosario della magia della bicletta.

Non già professionisti del pedale, quindi, ma partecipi di un destino che è destino d’amore. Tutti innamorati della meccanica del cammino, del progredire nel vento, della locomozione pulita e faticosa, del lavorio degli arti. Per questo, il loro scrivere non riassume un fine letterario, ma è respiro, è affanno, è vita quotidiana, è pioggia presa in dosso, è sabbia respirata a pieni polmoni, è sole inghiottito con i sensi. È pedale e freno.

Quando “ogni colpo di freno era come un no. È il no che forma. Il si parteggia, è acquiescenza, acquisizione, comunione, è sibilante, aderente. Il no è dialettica, identità, individua chi sei […] La vita comincia con un no. Con il primo respiro, la prima violenta, feroce boccata d’aria appena usciti dal grembo materno. È un no che dice non voglio morie, voglio essere, esistere, non annullarmi”.

La bici non è ciclismo, è movimento, è voglia di affermarsi. Voglia di essere. E di esserci. Se cercate conferme, qui ne avete trentuno.

AA.VV. “LA MIA PRIMA BICICLETTA”, EDICICLO 2010

Giudizio: 4 / 5

LINK SU http://www.statoquotidiano.it/15/12/2010/palloni-di-carta-4/38951/

Il socialismo del 2010

Il libro di Cohen

Non è un saggio e neppure un manifesto. “Socialismo perché no?” (Gerald Allan Cohen, Ponte delle Grazie 2010) è di certo un pamphlet. Forse semplicemente un punto di vista ben trattato. L’illustrazione teorica alle prese con il pratico, l’incenerimento di tecnicismi e filosofie della difficoltà.
Il genio di Jerry Cohen attuato al socialismo. Ed il socialismo attuato alla quotidianità. Resta, alla base, la domanda di fondo. Ovvero, la possibilità di realizzare un modello sociale che non sfrutti soltanto in momenti occasionali e specifici le sue peculiarità, ma si estenda ad ogni comparto del sociale. Insomma, si chiede Cohen, il socialismo è attuabile? E, all’idea di socialismo, dà le sue connotazioni, applica la propria personale categorizzazione. Non già un sistema di pianificazione rigida ed inflessibile; non un semplice ed astratto sistema superiore atto a governare, con le buone e con le cattive, una massa informe di lavoratori dalla vita incanalata nei binari della noia di fabbrica. Piuttosto, il merito del filosofo canadese è quello di rendere commestibile la roccia; malleare affinchè gli altri possano servirsene.

Con toni poco ortodossi (breve, brevissimo, fulgido esempio di essenzialità, 60 pagine) immagina situazioni, studia casistiche di quotidianità diffusa. Così facendo, traslando il discorso dalla sovietizzazione economica e nazionale al socialismo da campeggio (in cui le mansioni del singolo confluiscono a rimpolpare la teoria dell’organicità), Cohen impersona il Lenin semplificato. Addirittura un Marx con l’elettrificazione.

Non genera una nuova teoria, non accetta di scendere al compromesso del socialismo di mercato (che, anzi, senza mezzi termini derubrica a “ripugnante”), non altera la purezza del messaggio. Anzi, concorre a rimuovervi la polvere che il tempo vi ha depositato su. La lustra e la rinvigorisce. Spiegandola con tutta la semplicità che soltanto un socialista analista sa esprimere (che è condizione essenziale dell’intellettuale sceso dalle torri d’avorio).

Dopo aver letto Cohen, si rischia di vedere realmente le cose alla sua maniera. Convincente.

GERRALD ALLAN COHEN, “SOCIALISMO, PERCHE’ NO?”, PONTE ALLE GRAZIE 2010

Giudizio: 3.5 / 5