Lettera di un credente a (don) Pierino, Giuseppino primo di Svevia e affini

Caro don Piero, caro Papa Giuseppino di Svevia, cari preti, 

chi vi scrive (sapendo di non essere letto da tutti, ci mancherebbe) è un credente. Il mio nome non importa. Non importa da dove scrivo. Non importa cosa mangio, se voti e che simbolo voti, quali feste rispetto, di che colore è la mia pelle. Sappiate che, alle vostre orecchie, non sono importante. Non esco in televisione come la Littizzetto né in radio come Fiorello. Non vado sui giornali come Saviano e non ho neppure un profilo twitter come te, Giuseppino. Sono un esemplare strano di Cristiano. Non mi vergogno della mia fede, ma non la sbandiero. Odio l’iconoclastia. Sono ondivago, uno di quelli che un po’ si rompe le palle di venire a Messa la domenica per ascoltarsi additare d’ogni malefatta dell’umanità. Ho una visione evanescente del potere (specie di quello religioso), sono facile all’indisciplina e, pur non perseguendo il peccato ad ogni costo, non mi lascio condizionare dalle giaculatorie colpevoli che inoculate tra gli accoliti, servendovi dell’autorità morale (?) conferitavi dalla vostra gonnella e diffusa Urbi et Orbi a mezzo VVVN (vecchie vedove vestite di nero), BSA (boy scout army) e CPB (chierichetti preadolescenti brufolosi).

Insomma, compagni (non vi infastidisce se vi chiamo così, vero? la conoscete quelle tiritera del cum panis, no? ps. ho detto panis, non penis… dunque non credete di fare del bene inculando tredicenni CPB), avete capito il modello antropologico. Sono uno di quelli che bollate “Cristiano di comodo”. Un Costantino dei giorni nostri, va. Uno che vive la sua vita nel nome dell’impegno quotidiano, credendo in Dio (chiunque Egli o Ella sia) e affascinato dal potere dirompente della parola di Gesù, ma consapevole che, questo credere, non basta a salvare non il mondo, bensì nemmeno il proprio appartamento. 

Devo, per onor del vero, ammettere che non vi seguo molto. Mi annoiano le omelie, mi annoiano le pippe paternaliste, mi annoiano le benedizioni comunitarie, mi annoiano gli Angelus di San Pietro e quelli di Castel Gandolfo (per non parlare di Rosari, Adorazioni e via dicendo). Non leggo i vostri giornali e non seguo i vostri siti web.

Epperò, anche per uno svogliato volontario come me, in questi giorni di Natale ne avete sparate belle grosse. Prima la storia che i gay minano la stabilità delle famiglie; poi quella, simile, che sono un pericolo per la pace nel mondo; infine, don Pierino che se la piglia con le donne picchiate e uccise, accusate amenamente di essere tutte delle mignottone di facili costumi e, a stretto giro, chiama ‘frocio’ un giornalista che gli poneva qualche domandina (se la sarà sentita salire su per la gonnella?). 

Pur nel tentativo di rimozione dei filtri pregiudiziali nei vostri confronti, ho sinceramente fatto fatica a schiarirmi le idee. Colpa forse dei banchettoni festivi, obnubilato sinapticamente dalle Peroni ghiacciate e dei limoncelli, dalla verdura della Vigilia, dai cannelloni del Venticinque e dai torcinelli di Santo Stefano. No, perché sarebbe simpatico poter sapere quale min(chi)a sia deflagrata nelle vostre tempie per portarvi, nel periodo in cui anche Satana in persona prova un briciolo di simpatia per il genere umano, a far sfoggio manifesto di tanto e tanto mirato mirato odio verso una, due categorie di persone. Tra don Corsi e Giuseppino primo, lasciate che ve lo dica, la unam, sanctam, catholica et apostholicam Ecclesiae ha palesato più odio di quanto se ne sia mai visto ad un concerto dei Black Sabbath. 

Tanto che, ad un certo punto, mi era balenata l’idea, subito repressa per assenza di liquidi (a proposito: potete mica lanciare una qualche maledizione contro i padroni, i capitalisti, i politici del precariato del mondo del lavoro se ve ne avanza qualcuna di scorta?) di inviarvi un pipistrello a testa da decapitare, pubblicamente e a scelta, in occasione del Capodanno o dell’Epifania (in tal caso avevo già uno slogan ed un cartello da appendere in sostituzione a quella minchiata di Pierino: l’Epifania che tutte le Teste si porta via…). Così, tanto per mantenersi in allenamento. 

Ora, arrivando al punto, io non sono un teologo come voi, con tutta evidenza, non siete delle volpi. Certo, arrabbato biascicante qualche concetto biblico frutto di riminescenze catechistiche e contaminazioni parentali. Oltre non mi spingo. Può darsi che nelle lacune di diritto canonico risieda la chiave di volta della mia domanda indiretta e la giustificazione dei vostri deliri dicembrini. O, più probabilmente, la conferma del mio (oltremodo, a questo punto) sacrosanto ripudio delle gerarchie ecclesiastiche. Allora, mi pongo terra-terra nel campo dell’opportunità mediatica. A che cosa è servito esternare questa vostra posizione? Dove sareste voluti arrivare? Cosa cercate di condizionare? Sapete benissimo che il pressing sulla politica di questo logoro e stracciato Paese è fatica sprecata. Sono già tutti con voi. Vi venerano come voi venerate l’inquilino del piano di sopra. E se ora, in questo preciso momento, non sono lì, chini, sotto le vostre scrivanie a succhiarvi il calice, è soltanto perché don Pierino se ne avrebbe a male.

Caro Pierino, caro Giuseppino, cari pretuncoli,

c’è un’immagine, in questi giorni di Natale, che a me, invece, è ballata in testa come una danzatrice suadente e insieme tarantolata. Un’immagine antica, piena di odori, di sapori, di storie. Un’immagine che le vostre stronzate non hanno oscurato. Un’immagine che voi non conoscete e che, pure, potrebbe farvi bene conoscere.  

L’istantanea ritrae la parete di una dimora contadina. Una di quelle primo novecentesche, misera rispetto alle vostre, una di quelle costruite mattone su mattone, mattone accanto a mattone, dal progredire delle generazioni, una di quelle con i soffitti altissimi che parevano arrivare fino al cielo, insomma, avete capito, una casetta meridionale. Su questa parete di questa casetta di una cittadina di nome Cerignola, qualche mano – chissà quale, mi chiederete? La risposta è un umile: non so – aveva inchiodato due immagini. L’una accanto all’altra due foto in due cornici. Nelle due foto c’erano Gesù Cristo e Peppino Di Vittorio. Uomini e simboli. Esempi. Nei loro occhi, quelli dei ritratti, si legge la stessa limpida dignità che balenava in quelli di chi quelle immagini ce le ha appese. Occhi che hanno visto nascere e morire bambini nelle camere di lavoro. Occhi che hanno visto processioni di contadini e di operai. Occhi che hanno percorso i deserti di Samaria e di Giudea come le campagne del Tavoliere delle Puglie. Occhi che hanno visto da vicino gli storpi e li hanno curati. Occhi che hanno visto da vicino gli sfruttati, gli ultimi, i reietti, i poveri, e li hanno guidati. Occhi che hanno visto presepi sangue e di dolore e altri di riscatto e fratellanza.

Questo è il presepe, insieme laico e religioso, che mi piace. Da quei presepi, voi, siete distanti anni luce.  

 

Scappiamo tutti da Foggia, lasciamoli soli

Sarebbe tutto estremamente più semplice se la politica fosse come la tastiera di un computer. CTRL+ALT+DEL e passa la paura. Una digitazione contemporanea di tasti e puff! fuori dalle pal… dalle stanze i caporali della malapolitica, i mammasantissima dell’affare, gli schiavetti zelanti dell’Occidente, i donabbondio del liberismo internazionale, gli esecutori della volontà delle banche.

Sarebbe tutto più semplice tanto più leggero è il programma da chiudere, senza possibilità di salvataggio dello status. Un secondo e via, nel cestino, in fretta a svuotare anche quello e ricordi di sciagurate esperienze che si perdono tra immagini digitali, icone dei solitari e quelli dei documenti word.

Sarebbe tutto più semplice, ma non è così. E allora serve elaborare nuove strategie, nuove forme di comunicazione, nuovi ingressi per dire sempre e comunque la stessa cosa: che non è la politica ad essere marcia. Ma che lo sono (quest)i politici. Che non è il sistema dei partiti ad essere corrotto e infradiciato di melma, ma lo sono (quest)i specifici partiti (tristi eredi di quelli peggiori della prima Repubblica che hanno, a loro volta, nomi e cognomi: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Movimento Sociale sopra tutti).

Dopo tanto tempo, gli argomenti si sono commutati in tiritere. In fondo, anche il più grande dei cantautori, alla lunga, finisce le idee. Identicamente, le corde delle opposizioni rischiano di suonare sempre la stessa nota. Intonata, bella, sognante, ma cacofonica, evidentemente, per un mondo che è stanco di sentirla. O, forse, troppo perso dietro pornografie quotidiane a base di fast food e tecnologia, di tacchi a spillo e shorts, di Pulcinipio e di Padripio.

A Foggia, la pornografia del potere si chiama cemento. E in realtà propone film tromberecci a base di accoppiamenti tra imprenditoria e tecnostrutture, politica e denaro, mafia e denaro, imprenditoria e politica, malaffare e mafia. Un’orgiona collettiva e godereccia che sfonda sempre lo stesso pertugio: quello di una città di anno in anno palesemente rinsecchita e sformata, non più attraente, e che alle curve della popolarità agricola ha sostituito la spigolosità diffidente e grigia dei palazzi.

Foggia. Abbiamo provato a difenderla. Generazione dopo generazione. Abbiamo provato ad andarle vicino al viso e a sollevarglielo mettendole dolcemente due dita sotto il mento. Sussurrandole che sì, volendo poteva farcela a scrollarsi di dosso la polvere e anche la sporcizia. Che non era polvere ma amianto e che la stava e la sta uccidendo di una malattia lunga e dolorosa. Foggia. Abbiamo provato a sferzarla. Chissà, forse qualcuno avrebbe ascoltato le preghiere laiche dei giovani e dei meno giovani che, un filo d’amore, forse ancora ce l’hanno. Ma le orecchie di chi avrebbe dovuto ascoltare sono rimaste sorde. Sorde alle critiche, sorde alle richieste d’aiuto. Sorde ai rumori delle manette che si chiudevano sempre attorno agli stessi polsi. Sorde ai rumori delle pistole che sparano in mezzo alla gente. Sorde alle domande inevase.

Sorde, ora abbiamo capito, tutti, perché. Perchè al banchetto orgiastico, quello in cui ci si spartiva gli interessi, c’erano anche loro. I “potenti”. Che potenti, a ben vedere, proprio non lo sono. Facevano affari con quelli che sono sempre stati loro amici e che lo sono rimasti anche una volta svestiti i panni di privato e indossata la fascia tricolore. Hanno creduto che di fronte alle rivendicazioni della parte pulita di Foggia bastasse difendersi, addirittura minacciare. Ma, solitamente, funziona che chi si difende dal bene è perché in testa ha il male.

E allora la soluzione è una. Ed è un appello a tutti. Non solo ai ragazzi. A “quelli che hanno studiato e che sono sprecati”. No. Ma anche alle donne, ai bambini, ai vecchi e ai vecchissimi. A tutta la gente pulita. Agli onesti. A chi crede nell’amore sapendo che, a volte, il bene dell’amore è doversene staccare. Andiamocene. Scappiamo. Compiamo una fuga d’amore. E’ la nostra sola arma politica, piena di coraggio. Non abbiamo altre armi che quelle della solitudine. Lasciamoli soli. Soli di non fare affari sulla pelle di nessuno. Soli a marcire sotto le tonnellate di monnezza che hanno creato. Lasciamoli soli con i loro palazzi vuoti, con i cassonetti bruciati, con le discariche che hanno contrattato. Lasciamoli soli di bearsi del nulla. Sparpagliamoci per il mondo, vicino o lontano, non importa. Cresciamoci. Diamoci nuove possibilità di conoscere. E lasciamo i soliti fare affari con i soliti, quando non servirà più a nulla. Creino pure altre Foggia. Foggia due, tre, quattro. Le facciano come sanno. E le lascino vuote.

Lasciamo i governanti senza un popolo. Lasciamo gli amministratori senza amministrati. Decidano sulle loro teste e – se resteranno – su quelle dei loro familiari e dei loro accoliti.

Sarai Franco, ma quell’abbraccio….

antiracketfoggia-7-300x158Per contare, si parte sempre da uno. Per parlare, si parte sempre dalla notizia. Che, in breve, è questa: Foggia, 5 dicembre 2012. Tano Grasso fa una capatina a Foggia, visita alcuni esercizi commerciali, passeggia con le istituzioni e con alcuni cittadini. Tra loro, Lino Panunzio, figlio di Giovanni, imprenditore edile assassinato dalla mala foggiana il 6 novembre del 1992, vicino a Libera. Vent’anni fa. Esatti. Nello stesso anno di Giovanni Falcone. Nello stesso anno di Paolo Borsellino. La “passeggiata antiracket” – grossomodo è questo il nome dell’iniziativa sulla cui opportunità e sulle cui modalità non è il caso di discutere – si snoda per le via del centro. Con Grasso, c’è anche il prefetto Maria Latella. D’un tratto (e qui la notizia si fa gustosa) s’avvicina Franco Landella (strano gioco di parole, Latella vs Landella), segretario provinciale del Popolo delle Libertà, Mister preferenza del centrodestra a Palazzo di Città, noto per gli spot elettorali in cui fa sfoggio di cravatte di dubbio gusto. Cosa voglia, Francuccio, non lo si capisce. Il dato, dunque, è che s’avvicina al corteo. La Latella lo affronta e lo allontana. Landella se la prende, s’impunta, si arrabbia, sciorina il suo falsetto, poi decide che non è il caso e torna, mesto, da dove era venuto.

Passa un giorno e la posizione di Landella si fa pubblica. Come le bollicine sullo spumante, che frizzano fino a salire nel naso, il verbo di Franco emerge su tutti i giornali. S’incazza, Landella. E spiega: “Mi sono avvicinato al corteo non per sbandierare vessilli politici ma per salutare il mio amico d’infanzia Lino Panunzio, con cui ho pianto sulla bara del padre Giovanni, costruttore, barbaramente ucciso. Mi sono avvicinato come semplice cittadino che, nella propria città, credo abbia maggior diritto di Tano Grasso di essere vicino alla propria gente. Ne ho diritto perché, a differenza di Tano Grasso che ieri è ripartito per la sua Sicilia, testimonio da anni, anche professionalmente, tutti i giorni il mio impegno per i commercianti di Foggia. Ne ho diritto perché 1.800 cittadini foggiani, il tributo più alto avuto da un candidato, mi hanno eletto a rappresentarli in Consiglio Comunale, e altri 5.600 cittadini di Foggia hanno creduto in me nel votarmi alle scorse elezioni regionali. Ne ho diritto perché io sono tra coloro che la malavita ha preso di mira, facendomi esplodere una bomba carta sull’uscio di casa in una notte di luglio del 2009”. Detto questo, non spirò, ma si autosospese dal consiglio comunale.

Dalla posizione di Landella, spietatamente, si deduce che il suo gesto – quello dell’avvicinarsi alla Carovana – non era da interpretarsi come un sostegno morale ed ideale a ciò che il drappello rappresentasse. Piuttosto, Landella, andando a zonzo distrattamente per la città si era imbattuto in un amico d’infanzia e, tutto, insieme, era montata la voglia tenera di abbracciarlo, per trasmettere, nel calore del contatto, la sua vicinanza all’uomo Panunzio.

La domanda sorge spontanea. E, anche questa, parte da relativamente lontano, dal 6 novembre. Quel giorno (un mese fa), Libera, l’Università, Rete della Conoscena, la Federazione Italiana Antiracket si riunirono a Foggia – in centro, e poi, a pomeriggio, anche a Lucera, 18 chilometri dal capoluogo, mica diecimila – per commemorare la figura di Giovanni Panunzio a vent’anni dalla sua uccisione. Di Landella, nessuna traccia. Quel 6 novembre, di abbracciare Lino e Giovanna (sua moglie), a Landella proprio è sfuggito di mente? Eppure, in città, su facebook, sui giornali, la voce era circolata. Eccome se era circolata.

Forse che Landella sia stato inibito dalla presenza delle scuole (decisamente troppe?), per un’età media che rimaneva abbondantemente al di sotto la soglia del voto (non rientravano tra i 1800 cittadini foggiani delle comunali e i 5600 delle Regionali)? Forse non ha trovato parcheggio, il buon Landella, per colpa delle strisce blu fatte mettere dall’amministrazione (però ci stava bene una nota stampa con queste parole: “Stavo arrivando in Università quando un crudele parcheggiatore mi ha affrontato con fiero cipiglio per esigere il pagamento dell’ora di sosta, al che ne è scaturita una discussione che s’è arenata in quisquilie e lungaggini tanto da impedirmi la partecipazione”)?

Spieghi, il buon Landella, piuttosto, come mai non ha mai partecipato alle iniziative in ricordo di Francesco Marcone o di Giovanni Panunzio. Sappia, il buon Landella, che la politica esige luoghi e tempi giusti e ogni ‘politico’ incapace di starci dentro non è degno di questo epiteto. Non serve un consulente pubblicitario ben remunerato se, alla base, si manca di prassi e di teoria. E se proprio vuole stringersi attorno al dolore di una famiglia sappia che di occasioni ce ne saranno a fiotti. Ma lo faccia in silenzio e con discrezione, senza clamore e senza tirare in ballo i giornali. Perché il rispetto è cosa sacra e, anche in questa Italietta infima e abituata ai suoi mostri, lustrarsi l’immagine in vista delle prossime elezioni servendosi dei familiari delle vittime di mafia è cosa pietosa.

(l’immagine è tratta dal sito http://www.statoquotidiano.it)

Published in: on 6 dicembre 2012 at 22.29  Lascia un commento