La vendetta ha i dreadlock e veste di pelle

Recensione “La ballata di Mila”, Matteo Strukul – Puntata numero 95 (3.11.2012) della rubrica MACONDO – LA CITTA’ DEI LIBRI. Per leggere tutte le recensioni, i consigli, i temi della settimana, clicca qui

ImmagineVendetta. Violenza. Cattiveria. Potenza. Giustizia e Ingiustizia. Morte. Sangue. Disperazione. Viltà. Tradimento. Furia. Disillusione. Adrenalina. In due parole:Matteo Strukul. In tre: “La ballata di Mila”. Ovvero, un autentico cippo per la letteratura di genere. Un romanzo che ha sparigliato le carte, “La ballata di Mila” (puntata numero 1 dell’esperienza della collana SabotAge di E/O, edito l’anno passato). Che non ha proceduto per imitazione, che non si è contentato di restare nei confini, ma che ha cancellato ogni frontiera, abbattuto a sassate i check-in degli eserciti del convenzionale, sfondato i posti di blocco del conservatorismo letterario. Addirittura, dato vita ad una nuova galassia oscura del grande universo noir: lo sugarpulp. Per definizione (coniata dallo stesso Strukul in compartecipazione con Matteo Righetto, autore di “Savana Padana”) una “polpa narrativa adulterata con lo zucchero di barbabietola, con una gradazione saccarometria crescente che rende lo scrivere più alcoolico, più tossico, più anfetaminico”. Più concretamente, una ‘nordestizzazione’ dell’esperienza scrittoria di grandissimi come Joe LansdaleVictor Gischler o Elmore Leonard.

“La ballata di Mila” è un distillato puro di rabbia. Che racconta una storia per narrare la Storia, miscelando finzione e realtà, romanzo e cronaca. E la Storia è quella del ricco Nordest, passato di terra alacre e laboriosa, landa contadina prestata all’industrializzazione coatta, ponte sospeso fra tradizione e progresso. Al secolo, terra di crisi, di sperimentazione feconda delle mafie, innestate oramai nei tessuti urbani come tralci di vite amara ad avvelenare i frutti del Moscato o del Tocai. Ma la storia è anche quella di Mila Zago, angelo sterminatrice impietoso, pistole e spade al posto delle ali, un’esperienza familiare drammatica al posto dell’aureola. Femmina di quella femminilità feroce,dreadlock rossi come richiamo al fuoco che arde nel suo petto abbondante, lussurioso e gambe lunghissime strette in pantaloni di latex. Abbandonata, bambina, dalla madre; costretta, ancora ragazzina, a vedere cadere sotto i colpi della mala veneta suo padre poliziotto e, nello stesso giorno, violentata dagli stessi assassini paterni; formata, giovane, dall’allenamento marziale del nonno militare sull’Altopiano dei Sette Comuni; messasi, donna, proprio al centro del terreno di scontro tra la mafia italiana di Rossano Pagnan e la setta dei Pugnali Parlanti, spietata gang affiliata alle triadi cinesi. Mossa dalla sete di vendetta, Mila li schiera l’uno contro l’altro. Cinesi contro Italiani. Conquistatori nuovi e vecchi. Fa da esca, da boccone. Li coinvolge e li sconvolge, li attira in tagliole mortali e spietate. Ordisce piani e calpesta vite. Passa su di loro come un trattore su una campo infangato. Nel vuoto della legge, impone le sue regole. Diventa giustizia, discriminante tra il bene e il male. Nei manuali di Mila non esiste assoluzione. La vendetta è il suo unico codice. Il castigo finale, per tutti, per Italiani e Cinesi, è solo la morte.

La dirompente rottura de “La ballata di Mila” è qui: nel superamento della pacificità del bene. Nella figura di Mila, c’è il senso di giustizia che si sporca le mani di sangue. Non c’è rassicurazione. Non c’è consolazione. Non c’è lieto fine. Non c’è l’intervento del poliziotto faccia d’angelo a sedare la rabbia e ridare istituzionalità al bisogno di giustizia. Anzi, agli occhi di ‘Red Dread’, lo Stato non è che un complice partecipe delle malefatte di farabutti alla Pagnan. Una struttura molliccia e arresa ai veri potenti. “La ballata di Mila”, in questo senso, è un romanzo profondamente e autenticamente politico, il chiodo arrugginito piantato nel palmo di una Repubblica crocifissa sul legno della corruzione, dell’affare, del potere. E Strukul è come un farmaco scaduto: non ha né tempo né voglia di curare il male blandendolo con proprietà medicinali miracolose. Sul foglietto illustrativo de “La ballata di Mila” non troverete rimedi per combattere corruzione e ingiustizia. Ma pura e nerissima letteratura composta con inchiostro sulfureo.

Letterariamente, invece, è un libro brutto sporco e cattivo. Lurido come il pavimento dell’inferno dopo un cda delle Cattive Anime, dopo il raduno universale di un milione di satanassi, dopo il sabba notturno di tutte le streghe del mondo, scritto in linguaggio che è come il vomito da sbornia di Lucifero. E che nessuno provi a pulire…

Matteo Strukul, “La ballata di Mila”, E/O 2011
Giudizio: 4 / 5 – la fatalità del bene

In un mondo d’apocalissi ipotetiche

Finisci di leggere l’ultimo rigo di “Non è un cambio di stagione. Un iperviaggio nell’apocalisse climatica”, chiudi la copertina, la guardi un secondo, giusto il tempo di strabuzzare gli occhi, e d’istinto, pensare: “Adesso è chiaro. Ci stanno prendendo tutti per il culo”. Potere di Martin Caparròs. Formalmente, uno studioso, un traduttore di fama mondiale, direttore di svariate riviste culturali. Sostanzialmente, molto più praticamente, uno che parla chiaro, usando le parole senza stringere loro la mano previo accordo riparatore.

“Non è un cambio di stagione”, d’altronde, lo esige quale precondizione. Perché a proposito di mutamento climatico, di apocalissi del tempo atmosferico, di alterazione della temperatura si è scritto tanto e detto altrettanto. Di riffa o di raffa, con cognizione di causa o meno, ne hanno discettato tutti. Figuri e figurine. Tanti colletti bianchi, frotte di politici. Elogisti alla ricerca dell’attenzione mediatica, gruppi virtuali e comitati spontanei. E questo, leggendo Caparròs, è stato un gran problema. Già perché, insinuandosi nel discorso, ciascuno con il proprio interesse tangibile, ciascuno con la propria consunta radicalità, l’hanno posto – il discorso – a servizio di una parte. Per farne soldi, come nel caso degli affaristi verdi, dei Gore e degli Annan, degli speculatori verdi e di quelli verdastri che, prima ancora della temperatura sulla Terra, hanno visto crescere, e notevolmente, il proprio conto in banca. Oppure, come nel caso degli ecololò, per dare un senso al proprio dolore, alla propria solitudine. Per indirizzare il terrore dell’uno sulla strada dei molti.

Ma Caparròs è brutale e insensibile e non cede alle stime. Di volo in volo, percorre quelle che per noi si conformano come 270 pagine. E che per lui sono, appunto, stracci di apocalissi, parentesi di mondo sull’orlo della fine. Dieci tappe, dall’Amazzonia a New Orleans, dalla foresta tropicale fino alla culla dell’uragano Katrina. In mezzo, l’Africa, l’Australia, la Polinesia. Parti di mondo e spesso mondi a parte, ciascuno raccontato attraverso gli occhi di un viaggiatore critico ed inquieto, ironico e spietato, ma anche nelle storie di chi gli antipasti della fine li ha vissuti e li sta vivendo. Ragazzi, per lo più, alle prese con la siccità o con le inondazioni, intimoriti dalla spada di Damocle dell’innalzamento del livello dei mari. Tutti identicamente preoccupati, ma tutti identicamente impegnati a non rassegnarsi. Nessuno spezza il filo con la propria terra. Nessuno la abbandona. Messias è sempre in Brasile, guru della Permacultura; Mariana non è scappata dal Niger; la casa di Youness è sempre Rabat e quella di Kilom è Majuro.

Per loro, Caparròs conia una fine che quasi è martirologica: “Il cambiamento climatico sembra una minaccia democratica. Si ha l’impressione che minacci tutti, allo stesso modo (…)Non è vero: la lista dei paesi più minacciati assomiglia molto alla lista dei paesi più poveri”. Pagheranno per tutti. Pagheranno per uno sviluppo che non hanno mai avuto, perché frenati dalla gola dei grandi paesi industrializzati. Pagheranno anche per colpa di quelli che chiama ecololò, fautori strenui di una causa che snobba l’altrui per rivolgersi al proprio ego. “L’ecologia è come la solidarietà degli individualisti”. Fuggire di fronte al pericolo ignorando che, accanto, ci sono altri uomini ed altre donne. Puro istinto di sopravvivenza. O, se vogliamo, di conservazione. Della specie. Della razza. Eppure, la riflessione di Caparròs, che punta a privilegiare il soddisfacimento dei diritti collettivi elementari alle istanze dei teoreti dell’ecologismo spinto, non è una sobillazione contro l’ambiente. Il suo reportage mira a smontare l’illusione democratica della tragedia. E così giocherella con la morale ballerina di associazioni gruppi fondazioni che, spesso in concorso con grandi multinazionali, si arruolano nell’esercito dell’iniziativa salvifica. L’ecologia, qui, si fa ecololò. Cantilena propagandistica, nenia di paura e remissione dei peccati. I milioni di euro investiti (già, come in una speculazione finanziaria) come le preghiere sonanti del peccatore, l’atto di dolore recitato di fronte a masse credulone e inconsapevoli. L’amen ce lo mette Caparròs: impietoso.

Martin Caparròs, “Non è un cambio di stagione. Un iperviaggio nell’apocalisse climatica”, Verdenero 2011 (traduzione Maddalena Cazzaniga)
Giudizio: 4.5 / 5 – Frecciatata

Un giorno di maggio, a Capaci



recensione di “Giovanni Falcone” (Giacomo Bendotti, Becco Giallo 2011), da Stato Quotidiano – Macondo la città dei libri del 22 ottobre

“Non si può chiedere a un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta”. Erano queste le parole usate da Giovanni Falcone per spiegare la sua dedizione alla causa dell’antimafia. Una dedizione dolorosa, quasi una militanza, che gli regalò in cambio anni da protetto, nella bambagia della scorta che si fa controllo, si fa cappa, si fa oppressione. Eppure, il Falcone uomo, cessato d’essere in un giorno di maggio del 1992, amava la vita almeno nella stessa misura in cui il Falcone giudice amava la causa della giustizia. Il mare di Sicilia, il pacchetto dei Toscani, l’amore per i libri e per Francesca (Morvillo, che sposa in seconde nozze del 1986 e che, con il giudice, cadrà per mano di Cosa Nostra) s’intersecavano ineluttabilmente con le inchieste, con le confessioni di Tommaso Buscetta, con le pubbliche aggressioni di Leoluca Orlando e Totò Cuffaro. Oggi, 19 anni dopo, quell’inestricabile combinazione d’eventi esce dalla storia per riassumersi in una graphic novel. Autore, Giacomo Bendotti (27enne sceneggiatore benedetto dal dono del cantastorie). Un lavoro veloce ma per nulla distratto, rigoroso ma non per questo scevro di emotività, intriso della forza propria dei sogni eretti ed infranti. Diretto, come certi pugni. Come quei cazzotti nello stomaco che t’aspetti ma che, ogni volta, mozzano il respiro giusto quell’attimo da annientare la ragione del mondo d’intorno. Essenziale e disadorno. Un lavoro così puro che non abbisogna di fronzoli. E lo capisci subito, da quel titolo che non è un titolo, ma una carta d’identità: “Giovanni Falcone”. Non serve aggiungere altro agli editori della Becco Giallo, sempre in prima linea in fatto di memoria civile. Basta questo per narrare quel che serve narrare. Bastano poche lettere per trasformare un ‘fumetto’ qualsiasi nella storia recente di una Nazione.

Una storia da cui non scampano amici e detrattori. Che furono di Falcone e che saranno di Paolo Borsellino. E, man mano che la si legge, nei tratti sicuri tracciati da Bendotti, si torna indietro, fino a quei giorni vissuti in compagnia di deflagrazioni e di sirene, pezzetti immediatamente percebili di una strategia sotterranea che doveva condurre Stato e mafia a divenire compari, compagni di banco, amici di merenda. Quell’epoca che ha segnato ineluttabilmente il volto di almeno due generazioni di cittadini, seppellito la Prima Repubblica sotto quintali di tritolo e sfregiato definitivamente il volto di un Paese, dal 1992 non sarà più lo stesso. Addirittura, non sarà più se stesso. Intimorito, frastornato, rincintrullito da quei rumori forti, dall’estetica della morte dei morti ammazzati, da immagini che sono immagini di guerra, con tanto di bombe, di stragi, azzeramento dei diritti umani. Una guerra che non è stata dichiarata ma che i suoi morti li ha già lasciati sul campo (1983, Rocco Chinnici; 1985, Nino Cassarà; 1990, Giovanni Bonsignore).

Eppure saranno Capaci e Via D’Amelio i punti di non ritorno. Saranno Capaci e Via D’Amelio, a tramutare lo strazio in indignazione e l’indignazione in sdegno. La scena finale della novel, che è la scena finale di una vita, è anche la scena finale di un’Italia che si credeva al riparo, immmune dai suoi vizi. L’ultimo fotogramma di Bendotti rappresenta la deflorazione subita dall’Italia da parte del male. Più di Portella della Ginestra, più del massacro di Reggio Emilia, più di Ustica e della stazione di Bologna, è a Capaci, in quell’ultimo fotogramma raffigurato dall’alto, che si legge l’intera biografia del nostro popolo, il cui verrà di lì a poco a Palermo.

“La mafia è un fenomeno umano, e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione, e avrà quindi anche una fine”, disse Falcone mentre conduceva un processo (‘il maxiprocesso’) che portò sul banco degli imputati 475 persone, 207 detenuti, 25 collaboratori di giustizia; che trasse 450 capi d’imputazione (90 omicidi) infliggendo 342 condanne, 19 ergastoli, 2665 anni di carcere e multe per oltre 11 miliardi di lire. La sua morte ha potuto rallentare i lavori, ma non li ha più fermati, come non ha soppresso la Procura Nazionale da lui stesso voluta. Falcone è stato lo scoppio del motore, il suo sangue, l’olio degli ingranaggi. La macchina della Storia cammina grazie a questo.

Giacomo Bendotti, “Giovanni Falcone”, Becco Giallo 2011
Giudizio: 4 / 5 – Fratelli d’Italia

Diabolicamente, Twain

Henry Nash Smith, curatore della versione originale di Letters from the Earth, definì questo lavoro di Mark Twain, “doppiamente postumo”. Innanzitutto, perché, la pubblicazione successe di oltre mezzo secolo la morte del suo creatore, visto che Twain scomprave nel 1910 e l’opera venne edita soltanto nel 1962. In secondo luogo, perché dovette vincere le resistenze dell’unica erede del padre nobile della letteratura americana contemporanea, sua figlia Clara Clemens (i suoi quattro fratelli erano tutti deceduti prima della morte dello scrittore), combattuta tra la necessità della conoscenza e l’opportunità di scalfire l’immagine del padre. Dubbio più che comprensibile. In un ipotetica scala valoriale-letteraria, le undici epistole che compongono il libercolo, l’ultimo, di Twain, si trova esattamente agli antipodi in quanto a contenuti, ideali e plot rispetto all’innocuo Le avventure di Tom Sawyer. Quello è divertimento e spensieratezza, questo è filosofia, morale.

Ma Twain, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, è Tom Sawyer. La sua narrativa è racchiusa nelle marachelle di quel guappo vagabondo. Biforcare i destini del creatore e della creatura significherebbe mortificare generazioni di rigorosi cristiani che hanno fatto delle adventures del ragazzetto motivo pedagogico, formativo. Addirittura, un modello da seguire, per quello spirito d’indipendenza che, nei suoi estremi di ribellione, riesce sempre a ricondursi a ragione. Che è ordine. La pubblicazione della bozza definitiva delle Lettere, pronta nel 1939, se pubblicata seduta stante, sarebbe rutilata rovinosamente su un intero sistema. Avrebbe posto di fronte agli Stati Uniti un mondo diverso, fatto di dissidenza e poca obbedienza, dove un elemento ribelle, una scheggia impazzita s’arroga il siritto di critica rispetto allo status quo.

E’ il 1939, nel mondo sta per scoppiare la guerra e gli Usa provano a riorganizzarsi dopo la peggior crisi economica nella storia del giovane capitalismo. Perciò, bisogna andare avanti credendo nei giusti idoli. Che sono silenziosi, non alzano troppo il capo, non soffrono d’isteria. Finisce così che le Lettere sono accantonate in un cantuccio. E anche in Italia ci arriveranno solo nel 1962, oggi recuperate grazie al prezioso lavoro di recupero della Casa editrice Piano B, titolare di una collana punzecchiante chiamata ‘la mala parte’. Il carico esplosivo restituito, cent’anni dopo la redazione da parte del narratore di Florida, resta immutato. Twain veste i pannni dell’Arcangelo Satana, cacciato via dal paradiso dalle bizze un Dio altero e presuntoso, per nulla disposto ad ammettere che si critichi il proprio creato. Per punizione, viene esiliato in Terra. Dove osserva, medita, legge. E comunica le sue impressioni agli altri arcangeli. Le sue parole, di Satana e di Twain, sono stracolme di potenziale destabilizzante. In dubbio c’è non solo la Sacra Scrittura, come parrebbe ad un’analisi apparente, ma tutto un universo morale fondato sulla religione cristiana. Satana smonta dalle fondamenta i fondamenti della storia dell’Ebraismo, deride le leggende del Vecchio Testamento, destruttura la narrazione biblica.

Con la stessa rabbia (ma forse con eccessiva ripetitività), le Lettere si fanno beffe del puritanesimo della castità e dell’Arca di Noé. Twain, forse conscio della fine vicina, incattivito dalla solitudine e dalla dimenticanza, rinchiuso nel suo pensare sarcastico e filosofeggiante, riflessivo ma spregiudicato, non usa filtri. Parla dell’Uomo e parla di Dio senza porli su piani diversi, ma come interconnessi da un rapporto di potere, il servo ed il padrone, il dominato ed il dominante, l’esecutore ed il teorizzatore. Descrive con minuzia le contraddizioni di questo rapporto, le studia, le forza. Presta la sua mano, non casualmente prorpio all’Arcangelo del male, l’unico che non abbia soggiaciuto a queste condizioni. Non lo fa per vacua mission demoniaca, né per un’avventata redenzione all’incontrario, ma perché, in Satana, si riassume il simbolo del pensiero ramingo, eremita, emarginato. Con cui condivide quasi tutti, insofferenza compresa.

Mark Twain, “Lettere dalla Terra”, Piano B 2011
Giudizio: 3 / 5 – Indignado

Appunti italiani

Tina Anselmi è un monumento non consunto della democrazia tricolore. Staffetta (a 19 anni) della Brigata autonoma Cesare Battisti e del comandante regionale del Corpo volontario della libertà del Veneto, democristiana sociale, prima donna Ministro (al Lavoro), mai una voce su di lei, mai un bizzarro evento, mai un condizionamento. Rigore morale ma mai moralista, randellatrice del suo e dell’altrui. Giusta, Tina Anselmi, ancora adesso che, ad 84 anni suonati, la lucidità gli pone innanzi sceneggiati da seconda serata. Unti e bisunti cartocci di prodotti appiccicaticci: la P3, la P4 e chissà quante altre propagande. All’amica di una vita, Anna Vinci, ha affidato i suoi diari. Che in realtà non sono diari. Piuttosto carte, veri e propri appunti, raccolti nel tempo in cui ha occupato la Presidenza della Commissione d’Inchiesta sulla P2 (1981-1984). Stracci di politica, di vita, di affari. Panorami di un’Italia che c’è ancora, immutata, con gli stessi nomi e gli stessi moduli operativi.

Leggere “La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi” (prezioso lavoro di recupero timbrato Chiarelettere e firmato dalla Vinci), ovvero le due copertine che racchiudono queste carte, è pratica inquietante. È un’esperienza quanto più prossima possibile alla lettura di “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini. In definitiva, dal punto di vista meramente storico, il testo non aggiunge nulla di nuovo. Conferma solo (si fa per dire) le sensazioni di penetrante fragilità di uno Stato nelle mani di poteri invisibili ad occhio nudo, piccoli come eserciti di soldatini di piombo ma devastanti come le Armate di Timur lo zoppo. Legioni che ridono delle muraglie, che regalano la normalità a villaggi su cui vigilano con certosino interesse e patriarcale libertà. Conferma, una volta di più, che “basta una sola parola che ci governa ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio”. E che Dio abbia in gloria l’Italia per l’attualità di questa profezia.

Il libro regala uno spaccato di pressioni, condizionamenti, esperimenti d’onnipotenza. L’Anselmi annota la carrellata di nomi che le sfilano di fronte. Nelle loro versioni rintraccia contraddizioni e verità. Coglie, soprattutto, i tic isterici di una giustizia turbata. È come se, pur chiamata ad indagare, fosse già conscia della gattopardesca essenza della sua Commissione. Non un organo inquirente, ma un puntello di una Repubblica allo sbando. A tratti, addirittura una copertura, una legittimazione, un’affermazione di tutto quanto rappresentato dal Venerabile Gelli ed i venerabilini suoi sottoposti. Eppure, con rigorosa dovizia, ricopre una mansione che la porrà dirimpetto allo sfacelo della sua formazione partitica, quella Democrazia Cristiana sempre meno democratica e men che meno conforme agli insegnamenti evangelici.

Nelle carte di Tina Anselmi dimora tutta l’Italia avvenire. Quella del controllo mediatico delle menti, quella delle banche padroni, quelle dell’affaristica privata tramutata in affaristica di Stato. In tal senso, le sue carte si tramutano in epitaffio, un’indicazione miliare per imboccare la complanare e tornare indietro. Lei stessa, diventando donna, persona, esistenza, lo urla: “Fate presto a pubblicare i miei appunti, dopo, anche solo qualche giorno dopo, sarà troppo tardi”. E questa sua ragione ha dovuto fare i conti con gli interessi superiori, con gli ordini dall’alto, con la sozzura di mani che nessuna svolta epocale ha ancora pulito (malgrado le promesse contenute nei titoli roboanti delle inchieste giudiziarie). Tanto che ancora nel 2004, la Presidenza del Consiglio (oggi come allora nelle mani del tesserato P2 numero 1816), dette alle stampe, sotto l’egida dell’allora Ministra alle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo, tre volumi intitolati “Italiane”, in uno dei quali (l’ultimo) la Anselmi diventa figura sovversiva, a tratti robespierriana: “La presidenza della commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2, assegnatale nel 1982 – si legge – cambiò il suo destino, quanto il moralismo giacobino, la vergogna del potere, l’istinto punitivo e tuttavia accomodante tra le parti, che furono la contraddittoria filosofia inquirente, dopo di allora, di tutte le commissioni parlamentari, cambiarono il corso del guerreggiato consociativismo italiano”. Quel che sarebbe dovuto essere un ritratto imparziali si tramutò in scarabocchio volontario, un’opera di Delacroix. Quello scritto, si concludeva così: “Era rimasto imprevedibile, e straordinario, che la furbizia contadina della presidente divenisse il controverso modello della futura demonologia politica nazionale, distruttiva e futile. I 120 volumi degli atti della commissione che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli della Anselmi’s List infatti cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi”.

E come una strega, sul rogo ce l’hanno messa l’Anselmi. Senza, però, riuscire ad arderla.
Anna Vinci (a cura di), “La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi”, Chiarelettere 2011
Giudizio: 4 / 5 – Operazione verità

La peste italiana. Il caso Basilicata



Le Librerie Napoletane dove è dispnibile il volume
1. CRISTIANO LIBRI S.R.L. VIA NUOVA DELLE BRECCE 214 – 80100 NAPOLI (NA)
2. LA FELTRINELLI EXPRESS- (NA St.Cen) P.ZZA GARIBALDI VARCO C.SO A. LUCCI 80143 – NAPOLI (NA)
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4. LUIGI LOFFREDO ED.LIBR. S.R.L. VIA KERBAKER,19 80129 NAPOLI
5. GUIDA 2 – NA VIA MERLIANI 118/120 80123 – NAPOLI NA (NA)
6. LIBRERIA FELTRINELLI – NA VIA S.TOMMASO D’AQUINO, 70/76 80133 – NAPOLI (NA) –

Le Librerie lucane dove è dispnibile il volume
1. EDIZIONI PAOLINE POTENZA FIGLIE DI S.PAOLO
VIALE MAZZINI, 34 POTENZA (PZ)

2. PITAGORA SCOLASTICA – S.N.C. VICO DEI NORMANNI, 37/39 – MATERA(MT)

3. L’ANGOLO LENTINIANO SNC DI PERROTTI-CRESCI – PIAZZA S. NICOLALAURIA (PZ)

In alternativa è possibile acquistarlo sulle librerie on-line. Noi suggeriamo IBS
La peste italiana. Il caso Basilicata. Dossier sui veleni industriali e politici che stanno uccidendo la Lucania
Autore Bolognetti Maurizio
Prefazione Carlo Vulpio
Introduzione Don Marcello Cozzi
E testi introduttivi di Pietro Dommarco, Marco Cappato, Elisabetta Zamparutti

∞ La Santa pedalata ∞


(Recensione di Natalino Russo, “Nel mezzo del Cammino di Santiago”, Ediciclo 2010)
“Il Cammino di Santiago non è un posto difficile, per seguirlo occorre solo tempo e un po’ di volontà”. E, più concretamente, gambe buone ed un fedele accompagnatore. Come quello di Natalino Russo, ad esempio, partito alla volta della Galizia in compagnia della sua imprescindibile due ruote ed un carrettino da traino fai-da-te, il sollevamento dalle sue pene fisiche, il briciolo di rilassatezza per non finire schiacciato sotto il peso dello zaino.

Nella vita, Russo viaggia e scrive. Anzi, viaggia e poi ne scrive. Non è esattamente un giornalista. Piuttosto, una specie di voce narrante barra camminante a disposizione di varie riviste e testate. Durante uno di questi viaggi – una lunga luna di miele di sé con sé -, dieci tappe per dieci giorni di gestazione emotiva, è scaturito, ovvio e consequenziale, “Nel mezzo del cammino di Santiago”. Sottotitolo che è tutto un programma: “In bicicletta verso Compostella tra viandanti e pellegrini”. La casa Ediciclo l’ha chiesto, l’ha ottenuto, l’ha pubblicato.

Qualcosa a metà fra un manuale di viaggio (c’è un’appendice di utili informazioni su come viaggiare, dove dormire e dove informarsi per un viaggio in tranquillità) ed un diario di bordo, “Nel mezzo di cammino di Santiago” è un rintocco di suoni, una filastrocca di colori, un motivo di odori. E se Russo fa di tutto per esibire le sue emozioni, nello stesso tempo non si può dire che si batta strenuamente per non suscitare un rigurgito di gelosia. Pedalata dopo pedalata, con il sottofondo del frullare che riesce a sopraffare il caos urbano che attanaglia chi legge, sovrasta televisioni e cellulari, silenzia clacson ed urla vandaliche, si schiudono i panorami sterminati della meseta ed il verticistico splendore delle salite impervie.

Ogni tappa è un capitolo. Ogni capitolo, un inizio ed una fine. Ed ogni fine, la sottile barriera che sta in mezzo fra una notte di sonno ed una giornata di bicicletta. Le immagini, i paesaggi di quiete e pellegrini monopolizzano il testo, aprendo fronti inconsueti per le epoche di caos, fast food e tempi ristretti. Cellulari ed internet non meritano spazio, ridotte a menzioni en passant, giusto il tempo di ricordarne la vacuità nel corso del viaggio se non come appiglio d’emergenza ma in ogni caso eventuale. Al loro posto, il tempo è scandito dalle Cattedrali (bella la descrizione di quella di Burgos e le leggende che aleggiano nei pressi di quella di Leòn) e la socialità da bar, osterie ed ostelli. Non ci sono mediazioni per chi sceglie il Cammino. E’ un atto estremo e senza appello che incatena senza possibilità di fuga, rende schiavi di un progetto mobile e sempre nuovo, in cui tutto scorre con modalità identiche da secoli. Fino alla redenzione finale di Santiago. Quella che confonde tutto o schiarisce tutto.

Di questa pellicola ingiallita, Russo rappresenta lo schermo, il telo bianco che riceve le immagini e le proietta come il cervello fa con il sogno. E se un vizio c’è – e c’è – è la sfuggevolezza delle descrizioni, la velocità del viaggio. ma forse non è colpa dell’autore. Forse, semplicemente, è colpa dei giorni, del tempo che non si cristallizza adattandosi alle esigenze voluttuose di lettori taccagni di evocazioni. O, probabilmente, è un tiro birichino di Russo, pescatore sapiente che getta l’esca e lascia a noi pesce il gusto di approfondirne in sapore. Chiama Russo. Ci chiama a mollar tutto ed a partire. Ed a farlo non per un motivo, non per ascetismi o vani filosofeggiamenti. Solo, per il gusto di farlo. Per il cammino che è lì.

Natalino Russo, “Nel mezzo del Cammino di Santiago. In bicicletta verso Compostella tra viandanti e pellegrini”, Ediciclo 2010
Giudizio: 3.5 / 5 – Frullante

Fedele alla linea


(recensione Vasile Ernu, “Nato in Urss”, Hacca 2010)
“E’ un paese che non può lasciarti indifferente, qualsiasi rapporto tu abbia avuto con lui, che lo ami o che lo odi”. L’Unione Sovietica ammirata attraverso gli occhi del filosofo e scrittore rumeno Vasile Ernu è racchiusa in questa citazione che apre “Nato in Urss”, diario di bordo attraverso un mondo che non c’è più, editato dalla casa editrice Hacca a novembre dell’anno passato.

Immaginate di calpestare selciati scomparsi, percorrere strade inghiottite dal tempo tenendo per mano soltanto la corporeità di un ricordo. Immaginate di rivivere, goccia a goccia, le sensazioni infantili, sforzandovi di assumere le pose di allora, di leggere con le emozioni di bambino ed il linguaggio da adulto. Immaginate il mondo spaccato in due. Questo è l’assioma di Ernu. Non giudizievole e risolutivo, solo descrittivo. Perché, con un tono da comunista mai pentito, gli spetta parlare inevitabilmente di quel mondo fermatosi d’improvviso non all’impatto contro un muro, ma di fronte al suo crollo; dell’Atlantide dell’ideologia che è stata la terra del Soviet, la grande repubblica delle repubbliche socialiste, la terra della speranza alternativa, “il più grande progetto politico-utopico della modernità”.

Ernu non è uno storico, non ne maneggia gli strumenti. Per questo “Nato in Urss” non è altro che una strampalata, sentimentale, ironica accozzaglia di soggetti ed elementi, di eroi e paesaggi. E’ comparabile ad una bancarella di cianfrusaglie, di quelle polacche, strabordante di cimeli, gonfia di Zorki dalla vita infinita, cipolle da tasca con l’effige di Lenin, bottoni artefatti dei cappotti dell’Armata Rossa. Patacconi tanto goffi da finire per essere ricoperti da una patina di poetica dignità che li assurge al rango di ricordi. Il materiale che espone Ernu è quello d’uso comune, proletario e non. Alcool, sesso, barzellette, case, letteratura, giochi. Persino la tualet sovietica trova parole per essere attualizzata e spiegata agli occhi pochi fantasiosi dell’Occidente capitalista, diventando il locus privilegiato dell’artista alla ricerca dell’intimità nel caos della komunalka.

Ogni tema è un racconto (in tutto 53), ogni racconto un contenitore, ogni contenitore un viaggio. Ernu, nel suo approccio scanzonato, pure rende la quotidianità della Rivoluzione bolscevica un cammino epico e trionfale. Quando la cucina era luogo di socialità, Lenin un compagno di tutti, il bere l’essenza stessa del comunismo (“Costruire il comunismo senza alcool è come fare il capitalismo senza pubblicità”), ed anche nell’atto supremo di una cacca occorreva assumere “la posa dell’aquila”. In questo sforzo letterario insolito e sfizioso, il filosofo rumeno riesce a donare una nuova immagine all’Urss. Nei suoi spruzzi giocosi e fieri di quotidianità, il Gigante dai piedi di ferro non è soltanto il mentore della pianificazione quinquennale, dell’industrializzazione forzata, della corsa all’armamento, ma la casa comune di un popolo orgoglioso e creativo, dedito alla causa del Partito ma ancora capace di darci dentro con i lampi di genio.

Quel che ne risulta è l’agiografia di un Santo rosso e potente, capace di miracoli laici e produttivi e di scatti d’impeto. E come in ogni agiografia, quel che conta è lo stile accattivante, il guinzaglio retorico, l’affabulazione golosa, che Ernu maneggia in pieno. “Leggete, invidiate, sono cittadino dell’Unione Sovietica”

Vasile Ernu, “Nato in Urss”, Hacca 2010
Giudizio: 3.5 / 5 – Dorogoi Tovarišči!

Nell’Italia di Carlo


(Recensione “Carlo Giuliani. Il ribelle di Genova”, BeccoGiallo 2011)

Non ci si può illudere di rimanere passivi rispetto alla Storia. Non ci si può illudere di lasciare che il flusso scorra senza ostacoli, sfiorandoci appena senza toccarci emotivamente. Le vicende genovesi del 2001, “i fatti di Genova” come li ha definiti la pubblicistica, hanno tirato l’affondo al Ventesimo secolo tramontato, spianando la strada, come ruspe sbuffanti, alla nuova era del potere. Da quelle giornate, ci dividono dieci anni. Già, luglio 2001 – luglio 2011. Il calendario, beato il suo inventore, è una cosa seria, matematica, certa.

Su questo segmento di tempo, da vertice a vertice, hanno corso lacrime, passeggiato guerre, imperversato stravolgimenti. Le primavere promesse e mai arrivate dell’Occidente e quelle inattese ma realizzate dell’Africa. In questo tempo, soprattutto, sono avanzati i processi. Dei responsabili della macelleria ligure, dell’azzeramento studiato dei diritti civili, quasi nessuno ha effettivamente pagato. Molti, i vertici, hanno fatto carriera. Soprattutto, delle tante inchieste aperte una, la più grave, non è giunta mai in porto: quella sulla morte di Carlo Giuliani.

Ecco perché la prospettiva di “Carlo Giuliani. Il ribelle di Genova”, con la sua ricostruzione precisa e rapida, con i suoi fotogrammi da flash e l’essenzialità delle parole, può, due lustri dopo quel buco nero per la democrazia italica, aiutare a capire. O, almeno a ricordare. Appena edito da Becco Giallo (il 29 giugno, encomiabile lo sforzo della casa editrice diretta da Guido Ostanel e Federico Zaghis), nato per volere di Francesco Barilli e Manuel De Carli, la graphic novel sul ragazzo romano morto negli scontri anti G8 aggiunge un ulteriore tassello alla verità mai rivelata dell’omicidio Giuliani.

Compaiono i momenti acri delle giornate genovesi, la lotta, giocata metro per metro, fra resistenza e resa; ritorna quella frase atroce: “L’hai ucciso tu! Bastardo, tu l’hai ucciso, col tuo sasso!” che tante notti di sonno ha turbato (durante l’inchiesta è venuto a galla che il vice questore che pronunciò quelle frasi, durante le cariche in Via Caffa, pochi attimi prima che il corteo sbucasse in Piazza Alimonda, tirò un sasso contro i manifestanti). Nel fumo dei lacrimogeni, le lacrime di Carlo sono le lacrime di tutti. L’intifada del bel Paese, durata il tempo della visita di alcuni parlamentari dal passato poco democratico. A raccontarla sono i tratti grafici di De Carli. E le parole di Barilli. Affidate ad Haidi, mamma sofferente, a Giuliano, padre alla ricerca della giustizia, ad Elena, la sorellona adorata del giovane massacrato. Ognuno di loro, porta i segni di quel ragazzo tenace, dalla vita arricciata e senza compromessi. Haidi regge l’estintore che ha messo alla gogna il suo scricciolo, additato alla stregua di un Bin Laden in salsa genovese. Giuliano maneggia lo scotch che Carlo aveva ad un braccio al momento della morte, raccolto in terra come conseguenza del suo innato rigetto per lo spreco. Infine, il passamontagna (anche quello non di Carlo, ma donatogli come protezione contro i fumi dei lacrimogeni) lo indossa Elena.

Tutti insieme, fungono da deterrente contro l’oblio. In “Il ribelle di Genova”, il loro apporto è forte. Svolgono la matassa di un silenzio calato tutto d’improvviso, un nastro fatto vecchio, un disco rigato per il troppo ascolto. Ma è una cappa che la verità sconfigge. Basta una deflagrazione per produrre un’eco che rimbomba. Basta un disegno per riportare alla memoria le immagini del luglio genovese. Il corteo dei migranti, il mare a pochi passi. Carlo ci sarebbe dovuto andare. Lui, poetico e sognante, il mare come amico, non come destinazione fisica. 23 anni ed una gran voglia di vivere. Una zolla di terra con poca acqua, Carlo. Sarebbe bastato poco, una goccia di liquido, per condurla a germogliazione. Lo stivale dei Carabinieri l’ha calpestata, invece, lasciando nelle mani di una famiglia incredula, costretta a difendere la memoria astratta di un figlio morto per strada, senza nessun conforto se non quello dell’estate, solo granelli di polvere. Pulviscolo da rimettere insieme, di modo da compattarlo, trasformandolo in argilla e modellandolo in una nuovo bisogno civile.

Carlo sbuca fuori da questa novel travolgente e delicata in tutta la sua dolcezza. Fa capolino dalla tana delle parole come una lucertola dal buco ombroso nel sole cocente d’estate. Si staglia una tenerezza infinita, gesti da figlio e da innamorato. Messaggi e poesie. Gesti unici eppure umili, quotidiani. Ritanna Armeni, commentando il decennale del G8 ha scritto che l’errore è stato rendere Carlo un eroe, un martire. Vero, sarebbe bastato ricordarlo semplicemente per quel che era: un ragazzo alla ricerca tenace di una strada collettiva. Leggere questo testo non farà che bene alla causa.

Francesco Barilli-Manuel De Carli, “Carlo Giuliani. Il ribelle di Genova”, Becco GIallo 2011
Giudizio: 4 / 5 – Un proiettile

Fuckin’ Milano



(Recensione Gianni Miraglia, “Muori Milano muori”, Elliot 2011)
2015, apocalisse a Milano. Mancano trenta giorni all’inaugurazione del secolo, quella dell’Expo. La città è in preda alla frenesia ed i controlli stringono una comunità sempre più cosmopolita e caotica, articolata in frammenti scomposti e diseguali, incastonati gli uni negli altri senza soluzione di continuità. Da un lato gli illusi del va-sempre-meglio, gli eterni contenti, i positivi; sulla sponda opposta, i disillusi, immiseriti dalla bramosia del possesso dei primi e compressi in una busta di realtà in cui i diritti sono uova fragili spappolate dal dindinnio della sporta. Nel mondo sommerso, fra l’uno e l’altro lato della trincea si muove Andrea, 47 enne disoccupato, ex ghostwriter ed ex compositore di brossure pubblicitarie. Un’anima purgatoriale, aggrappato alle sue sicurezze economiche che man mano andrà perdendo, perso in un presente troppo nuovo che non lo raccoglie dalla terra della miseria, lasciando che la sua vita marcisca. Senza moglie, con una casa sottrattagli, Andrea sceglie come compagni di viaggio prima Pietro Koch – ex fattorino dell’impresa presso cui lavorava – e poi “l’uomo con la valigia”, ex marketing manager di successo fallito, rovinato in basso insieme con il mondo circostante; insieme con quell’accozzaglia di nomi anglofoni, indicatori, col tempo, di mestieri sempre più evanescenti.

“Muori Milano muori”, libro di Gianni Miraglia, edito pochi mesi fa da Elliot, è la sua storia. È il cammino devastato di Andrea e di tutti gli Andrea che popolano il mondo della contemporaneità, che si muovono fra le tante simboliche inaugurazioni alla ricerca del buffet gratuito, penzolanti e fuoriluogo. Pesi sociali. Di più. E’ un diario di bordo spietato, un racconto in cui la bontà è messa al bando. Scene da Blade Runner, pestaggi alla Stanley Kubrick in una Milano postmoderna e periferica e in un tempo che la morte di Silvio Berlusconi ha reso il political way of life più piatto. Tutti i politici identicamente mariuoli sì, ma per il ben di patria, tutti concentrati a dar lustro all’ecologia sì, ma per farci guadagno, generarci appalto.

Miraglia sposta le lancette del tempo in avanti di 5 anni, fermandole sull’era funesta in cui prevale l’ingigantimento dei luoghi comuni. L’assuefazione al tamarro ha vinto ed il presente, per noi futuro, è una guerra fra bande rivali di poveracci, eccitate dal sangue e dalla violenza, incitate da leader straccioni, sedicenti eroi della giustizia globale. Pietro Koch è uno di loro. La sua rabbia personale la scaglia contro i simboli del potere costituito pur provando a farvi parte. Un cucciolo imbestialito dalle palestre e dalla malattia della madre, che si spinge ad organizzare un attacco kamikaze contro il Duomo nella Notte Bianca dell’Expo.

Nel countdown della vita di Andrea che va in malora, passano, come fotogrammi, le immagini di eventi e personaggi. Il businessman sfigato come il barbone, il barbone che s’immagina campeggiatore, l’intercultura masticata a malapena, la testarda continuazione della normalità volgare ed affaristica, nella metamorfosi d’una città che scoperchia canali, apre buche, pianta alberi, ingaggia guardie armate. Soprattutto, leggere il Vangelo putrido e bastardo di Miraglia, significa guardarsi nello specchio distorto da un lustro di sfaceli, con una fottuta voglia di sputarci dritto in faccia per quegli scenari da fine regno che abbiamo concorso a creare a colpi di maggioranze e democrazie ipotizzate, diffuse, rivendicate.

“Muori Milano muori” è un romanzo da sbronza, sporco come il linguaggio in cui è scritto, politicamente scorretto. Non rassicura, mette ansia. Leggerlo, è come leggere un quotidiano posposto di qualche anno. Se debitamente pubblicizzato, può diventare un cult. Ma attenzione. Non fa bene alla salute coronarica. E scordatevi di farlo passare inosservato nella vostra vita di lettori.