Il mondo dopo Franco Marcone

Ancora 31 marzo. Il sedicesimo 31 marzo. Da quel 31 marzo del 1995, giorno dell’omicidio di Francesco Marcone sono accadute cose che lo stesso Franco non avrebbe mai voluto accadessero. Dopo quel 31 marzo, ovvero, non è accaduto niente. Perché la cosa che allibisce e stordisce di dolore è questa. Sapere che non sono bastati sedici inverni, sedici lunghissimi anni (benedetti e maledetti, gaudiosi ed infami) a smuovere un solo mattone dal castello inglorioso della criminalità foggiana.

Mattone, già. Mattone. La follia di una città megalomane che assimila estensione a potenza, ampliamento a fama, case a progresso e che rifiuta di rinchiudersi nel manicomio della Storia. E’ questo il problema. E’ questo il male. La lucida consapevolezza di questa malattia volontaria e ricercata. La piena coscienza di esser contagiati da un virus che impone la prepotenza sulla discussione, la menzogna sulla verità, l’approssimazione alla verifica.

E quando quella quella follia si tramuta in delirio di onnipotenza, producendo soldi, strizzandoli da terreni con destinazioni catastali evanescenti, pronte a cambiare sotto le folate verdi della brezza danarosa; quando da elucubrazioni mentali si passa a cupole maneggione capaci di determinare le sorti economiche di una città in espansione; quando, su questo sistema, si innesta un Marcone qualsiasi, anzi no, proprio quel Marcone di quel 31 marzo di quel 1996 che mette a rischio tutta la costruzione e, con essa, la combriccola allegra di imprenditori, giudici, poliziotti, massoni, burocrati e giornalisti che rischia di rimanere schiacciata dal crollo (ironia della sorte, i mattoni…), allora succede che partono due pistolettate. Alle spalle, per non rischiare.

Dopo quella sera, Foggia non sarebbe più dovuta essere la stessa. Non sarebbe più dovuta essere la stessa sostanzialmente perché avrebbe dovuto iniziare a porsi una domanda, forse due. La prima: perché? La seconda: chi?

Avrebbe cioè dovuto ritrovare quell’umanità bambina che induce un fanciullo a porre al genitore questi due quesiti su ogni cosa. Perché Marcone è morto? Chi ha voluto Marcone morto?

C’è chi lo sa già, ma non lo vede. O fa finta di non vederlo. Perché la verità è lì, immobile di fronte all’eterna emergenza abitativa. Di fronte alle case sfitte, mai vendute; 29 mila appartamenti ancora in costruzione, e migliaia già costruiti, mentre la parte povera è sempre chiusa in container a Campo degli Ulivi e Arpinova, scusa pronta ad ogni evenienza d’appalto. Ed allora a chi giova alzare altro cemento nel mezzo del grano? Di chi sono i terreni su cui si costruisce? Quando li hanno comprati quei terreni?

La verità. Chiara, che è sempre nel lì di cui sopra: di fronte ai palazzinari che hanno saltato tutte le celebrazioni in onore di Franco, forse intimoriti dagli occhi della parte migliore della città; di fronte ai sindaci palazzinari o imprenditori, bottegai miserrimi di interessi elitari; di fronte alla proposta avanzata, nel 2010, ad Eliseo Zanasi di candidarsi a guida della città capoluogo. E, poi, di fronte alle indagini insabbiate o ostacolate; di fronte alle mancanze più elementari di inquirenti che non verificano nemmeno lo stretto necessario all’indomani dell’omicidio di Franco.

Forse non serve cercare le colpe. Ma soltanto appurare quale sistema sia circoscritto alla morte di Franco. Che è anche quella di Panunzio. Foggia dovrebbe riunirsi attorno a questi esempi, piuttosto che vivere di vecchi rimpianti pallonari buoni ad illudere per qualche decina di minuti per poi rigettarla, Foggia, sedotta ed abbandonata, nella tragedia del quotidiano. Foggia dovrebbe fare quello che non ha mai fatto: alzare la voce. Per pretendere, per chiedere, per rivendicare. Per sapere perché, sedici anni dopo quel 31 marzo, i protagonisti di quella vicenda sono ancora lì, sani e salvi, imbottiti di onore e di stima. Oltre che di soldi.

Quegli stessi che domani non metteranno naso fuori dalle loro torri d’avorio. Certi di averla fatta franca e che le celebrazioni siano un gioco sorridente di socialità, per godere della primavera sopraggiunta. Sappiano solo una cosa: non è così.

Maurizio Crozza 7 – Ballarò 29 marzo 2011

Macondo e Radicaliliberi contro l’aggressione a Michele

Sarebbe troppo semplice giudicare l’aggressione a Michele come un atto suscitato dalla concitazione. Sarebbe banale. Significherebbe dover dimenticare l’età delle persone. Bisognerebbe non credere più che, ad un certo momento, smette d’essere l’età delle colpe ed inizia a sorgere quella delle responsabilità.

Perché fra colpa e responsabilità c’è la stessa differenza che corre tra il pensiero inconsapevole e la sua realizzazione. La prima, la colpa, non ha regole. E non le ammette. È spontanea, come l’erezione di un adolescente. La seconda, la responsabilità, richiede riflessione. Consapevolezza di se stessi, intelligenza dei propri limiti, capacità di dosare la propria voce e finanche i propri silenzi.

Non ha senso, di fronte ad una vigliaccata di stampo mafioso, permeata del solito sistema della predominanza dell’uomo sull’uomo, la stupida ma ostinata convinzione che la forza bruta trionfi sulla saggezza, neppure fare ricorso alla più sacra delle rappresentazioni democratiche, la Costituzione. Non ha senso parlare di articolo 21, di libertà di pensiero e di stampa, di esprimere le proprie opinioni e congetture, che, nel caso di un giornalista, significa mettere nero su bianco il proprio lungo lavoro di documentazione. Significa tramutare in parole, con tutto il peso della gente che hai di fronte che ti scruta come fossi un animale raro, giornate intere di lavoro e di redazione. Telefonate, incontri, fatiche.

Quello di Di Biase è un atto infame compiuto ai danni di un ragazzo che ha scelto di non restare nel proprio guscio protetto, ma di metterci la faccia. È una strampalata visione della verità. Quella che impone le mani sul resto, quella che pone la violenza davanti alla riflessione, che impedisce all’uomo di essere uomo e lo tramuta solo un po’ più in bestia.

No, questo atto di Di Biase non ha nulla a che vedere con la Costituzione, con i morti su in montagna, con i martiri della libertà, con i nonni sacrificati ai piedi della Patria. Piuttosto è la ripetizione monotona di uno stanco modello sociale in cui deve vincere a tutti i costi chi il coltello ce l’ha dalla parte del manico.

Di più. Questo atto di Di Biase non ha nulla a che vedere con la bella battaglia di Sanitaservice. Peggio, rischia di svilirla, di far avere ricadute negative su tutta la cosa, sui lavoratori in lotta che cercano dignità. Quella stessa dignità che lui, vergognosamente, ha perso.

 

La lucida follia del Cerchio

Mario Mascitelli durante lo spettacolo ai Limoni (ph: Francesca De Sandoli, TdL)

Toc… toc…toc…toc. Pulsano. Battono. Tremono. Scuotono. I rintocchi della follia. Sbatacchiano le tempie, alimentano le domande. Una scena bianca amplifica il dolore del pensare. Un letto, qualche sedia, un tavolino. Toc… toc… toc... I passi, quelli di Luigi Pirandello, resuscitato dalle ceneri della Storia per materializzarsi nel piccolo spazio del Teatro dei Limoni di Foggia. Ed il suo Enrico IV diventa “La stanza della follia”, made in Parma, opera del Teatro del Cerchio.

Toc… toc…toc…toc. Un attore che si trucca, il buio, la luce sparata spartana e dozzinale, volutamente. Un cannone per sconvolgere, per rincitrullire quanti credano che sia giunto, proprio lì, proprio di fronte al palco, proprio di fonte a Pirandello, il momento di pensare. Invece no. Quello della follia diventa un gorgo, Mario Mascitelli, l’attore principale, la forza sovrumana che lo crea. “Io so che, bambino, credevo alla luna nel pozzo e credevo a tutto quello che mi dicevano. Ed ero beato”. Toc… toc…toc…toc. Il tempo scorre nella stanza manicomiale, un anno, due anni, vent’anni. Transitati sul corpo del sedicente Enrico con tutta la potenza dell’inevitabile. La mente vola, si libra nel cielo dell’oblio, complice una caduta da cavallo. Un incidente che non è affatto un incidente. Un atto di terrorismo d’amore. Forse, solo di possesso. Risate con la donna amata, una mascherata a cavallo, le risate con gli amici, la bestia s’imbizzarrisce. E, ad un tratto, un lungo buio. 12 anni, e 8 per progettare la vendetta.

Toc… toc…toc…toc. Novello Dantés, il redivivo si finge folle, gioca con la sua ossessione come una fiera che scherza la preda. E come una fiera rapace ed ingorda individua le debolezze, si maschera e si smaschera. Si confonde per confondere. Nel gioco dei ruoli, si rovesciano le mansioni. Il dottore curante, interroga i suoi carnefici. Lei, bellissima, la Matilde moderna, sbranatrice del suo cuore, gioco e sollazzo, ingrigita da una vita di convenzioni sempre identiche, ma solleticata da quell’uomo tanto particolare ed ora così malato. Lui, che di Matilde è uno strano fagotto, goffo, sbiadita copia dell’aristocrazia che fu, imbrigliato nel giogo del potere, squartato da quel pazzo che lo divora poco a poco. Fino a che la pazzia non li morde entrambi. A punto tale da andare a trovarlo e recitare quelle parti di due decenni prima. Il tutto mentre lui, sanissimo, li asseconda.

E tu ci credi, alla sua pazzia. Credi sul serio che nella sua mente quel folle disturbato sia folle disturbato, certo di essere ancora Enrico IV e non un povero malato recluso in un bianco letto ospedaliero. Ci credi benché abbia visto lo spettacolo iniziare come un vero spettacolo, con uno zoom dietro le quinte, l’attore che si trucca e si concentra sorseggiante chissà quale bevanda. Ci credi così tanto da sentirti superiore, da commiserare la sua sorte sciagurata. Ci credi perché il bianco attorno ti dice che è così e non potrebbe essere altrimenti; perché quel candore pare uno sbianchetto della memoria, l’annullamento di ogni passato recente e la scrittura di un altro passato, questa volta lontano.

Ci credi e non viene da farti domande. Finché è lui, Mario, lui, Enrico, a dirti di non essere veramente Enrico. Finché è lui, con fare strafottente da attore e personaggio, a sbeffeggiarti perché era impossibile non capire. Vendetta che si consuma verso tutti, senza sangue e senza vinti. Toc… toc…toc…toc. Mascitelli è magistrale nella rappresentazione. Qui tramuta un Pirandello in Pirandello. Tutto in lui richiama alla follia, tutto in lui arpeggia fra certezza ed incertezza. E’ incredibile l’immagine di quel re solitario e prigioniero di un incubo che ha un lenzuolo per mantello, sedativi come scettro, un giaciglio come trono, la follia come corona. Strabiliante la capacità di rendere questo povero personaggio un ritratto sublime. Lo aveva fatto già nel (migliore) “Sante Pollastri”, quando aveva reso un bandito un canto alla libertà. Ora lo ha ripetuto.

 

L’amico che tutti inseguono col bastone

DICEVA qualcuno, ed ormai siamo giunti nel campo della manualistica popolare, saggezza che cela sempre un fondo di verità, che a pensar mano si turbano le leggi di Dio ma che, per lo meno, si finisce per azzeccare.

Sulla Bio Ecoagrimm, poi, i pensieri malevoli sono ben più di qualcuno. Siamo di fronte ad una massa immane di denunce, accuse, reportage, video amatoriali, pezzi giornalistici, comitati spontanei sorti contro la ditta della famiglia Montagano. Una strana razza di imprenditori, i Montagano. Saltano da un circuito pubblicitario all’altro, rimpallando di televisione locale in televisione locale per apparire “amici” della popolazione. Peccato che, ormai da quattro anni, né i lucerini, né tantomeno le amministrazioni del centro adagiato all’ombra della torre della Leonessa, hanno trovato motivi di che instraurare intimità amicali con Stefano Montagano e parenti.

A circa una settimana di distanza dalla tragica vicenda della sospensione idrica, che ha lasciato Lucera a bocca asciutta per cinque giorni (15-20 marzo), con ovvie e normali ripercussioni sulla quotidianità, scene da dopoguerra, con lunghe file alle fontane pubbliche, la questione è più che mai aperta. Anche perché, quella fra popolazione e famiglia Montagano è una battaglia che non conosce tregua. Con tutta ragione per i primi.

Foto dall'alto (luceraweb.it)

SCATTI AEREI – Le fotografie aeree diffuse in questi giorni mostrano una verità di un’ovvietà disarmante. Un tratto dell’Acquedotto pugliese, un’azienda di rifiuti, una fine non scritta ma naturamlente intuibile. Perché sovraccaricare d’un peso eccessivo un tubo come quello dell’Aqp significa firmare la condanna alla sete di una comunità intera. Non si può credere d’incidere su un corpo in maniera costante e ripetuta senza che, prima o poi, questo corpo, in un modo o nell’altro, reagisca. E, quando la reazione è la frattura, ne consegue quel che è accaduto a Lucera. E’ un principio fisico elementare.

Quindi, ricapitolando: L’Aqp ha una condotta che passa in contrada Ripatetta, sulla condotta, in corrispondenza di una cava dismessa, si crea una montagna di mondezza, l’Aqo ed il Comune di Lucera, malgrado le denunce degli organi d’informazione e dei residenti, non si accorgono di nulla o giarno la testa dall’altra parte, la mondezza frantuma la resistenza del terreno e squarta il tubo, Lucera si arrangia. Nel giro di cinque giorni, vengono distribuite 15 mila sacche per un totale di 75 mila litri di acqua potabile a cui si aggiungono almeno 200 trasporti di autobotti per un altro milione e 800 mila litri forniti alla popolazione. Sono cifre snocciolate da Dotoli durante il Consiglio Comunale di lunedì scorso e diffuse dallo stesso Acquedotto. Disagi che Montagano, ora, potrebbe pagare caro. L’incidente è la più classica delle gocce per il vaso stracolmo. Ed ora, dal Tribunale di Lucera, riprendono a girare le carte bollate. Dotoli stesso ha confermato che è in corso un’inchiesta. Un’altra, a carico degli imprenditori mondezzari, per chiarire alcuni importanti cuius. Qualora fosse necessario, Palazzo Mozzagrugno si costituirà parte civile. In più, si dice pronto ad entrare in eventuali class action.

Certamente, Stefano Montagano dovrà rispondere di come ci siano finiti lì quei rifiuti “particolari”. E c’è da giurare che anche la cittadinanza attiva, che da anni si batte contro l’impresa, rialzerà la testa. Tanto più perchè, attorno alla ditta in questione, sono sempre circolate una marea di voci. Prima fra tutte, quella di un intenso traffico di rifiuti nmon precisati che giungerebbero qui direttamente dalla Campania.

Camion verso Ripatetta, incrocio San Giusto (C.G., St)

Su un giornale lucerino, Adesso il Sud, Pasquale Trivisonne, scriveva un paio di anni fa: “Nonostante le denunce e le segnalazioni agli uffici competenti, nulla è stato fatto, e il traffico di camion puzzolenti che arrivano soprattutto dalla provincia di Napoli e Caserta aumenta sempre di più“. Il fatto che nessuno potesse provare questo traffico, scoraggiò sempre qualsiasi azione. Ora, a Stato Quotidiano, sono state inviate fotografie da parte di un cittadino. Segno che qualcosa si muove. Le fotografie sono state scattate qualche mese fa ed immortalano un traffico di camion verso località Ripatetta.

Il nostro lettore ci confessa di aver seguito i convogli nottetempo e di aver scattato foto servendosi di un telefono cellulare di ultima generazione. Motivo per cui risultano leggermente mosse. Salito in macchina, ha atteso che i convogli entrassero in agro lucerino e, dunque, seguiti. “Ho la certezza – ci dice – che quei camion provenissero dalla Campania. Non solo perché, dall’evidenza della targa, risultava questo. Ma anche perché, già altre volte, mi era capitato, anche con l’ausilio di alcuni amici, di seguire le tratte battute dai camion”. Chiaramente, “non tutti i camion che entrano in territorio di Lucera vengono qui per scaricare rifiuti”, Ma “questi in particolare, come tanti altri, sì”. Le foto scattate, dice, si riferiscono al bivio che, da San Giusto, porta verso contrada Ripatetta.
Un’attività, quella dello sversamento, che ci viene confermata da molti residenti della zona.

I PRECEDENTI – Già nel 2007 all’azienda Ecoagrimm vennero posti i sigilli dalla Procura della Repubblica di Lucera, a seguito delle segnalazioni di abitanti della zona, di numerosi esercenti e delle RSU di sette aziende del circondario, che lamentavano, in una lettera-denuncia, la presenza di un tanfo “insopportabile che rende irrespirabile l’aria con conseguenti enormi difficoltà di permanenza nell’area e con pesanti conseguenze che incidono fortemente non solo sul benessere fisico, ma anche sui livelli di attenzione necessari per il lavoro svolto e sul rendimento lavorativo”. A seguito di quella sospensione delle attività (cui, l’anno successivo, ne è seguita una seconda), Montagano denunciò alla Procura della Repubblica di Lucera per reati in fase di accertamento tutti i Funzionari dei vari Enti firmatari dell’arbitraria, superficiale ed illegale azione di “sequestro preventivo dell’impianto”. Tanto che, dopo battaglie e minacce, il buon Stefano e la discussa Bio Ecoagrimm s.r.l. erano ancora lì.

Con la complicità della Provincia di Foggia che, in due diversi momenti, ha autorizzato, e con due diverse determine, sia lo scarico – nel torrente Vulgano – delle acque provenienti da eventi meteorici che impattano sulle superfici esterne dell’impianto (det. N. 377/2007), sia le emissioni in atmosfera di quanto proviene dall’impianto di produzione di concime agricolo (det. N. 1315/15/2008). Il tutto, con Valutazioni di Impatto Ambientale mai depositate e, verosimilmente, mai realizzate. Fu così che, nell’ottobre 2008, Palazzo Dogana, con il Preappennino ed il Tavoliere invasi dalle zaffate puzzolenti derivanti dall’azienda lucerina, provvide a ridurre a 83 mila le tonnellate annuali di materiali da trattare. Con tanto di indignazione da parte di Montagano e minacce di licenziamentii verso sindaci (minacciò, tanto per dirne una, il primo cittadino lucerino, Pasquale Dotoli, di citarlo in giudizio con una richiesta di danni pari a 13 milioni di euro), lavoratori ed amministratori. E minacce a giornalisti coinvolti nella vicenda.

link:Stato Quotidiano

∞ Storia (vera) di feudalesimo, orchi e Moratti ∞

Il Paese dei Moratti è il Paese in cui la fabbrica gioca il ruolo di un Geppetto spietato, creatore di illusioni e facitore di blasfemi sinonimi di quella grande storia in salita che è da considerarsi l’esistenza umana. Il Paese dei Moratti è popolato di Lucignoli e Mangiafuochi, attraenti imbonitori rivestiti di patine griffate ma contundenti. Il Paese dei Moratti è il locus dei tanti, piccoli, meravigliosi, innocenti Pinocchi costretti a mentire a se stessi nell’estremo tentativo di ripetersi che, da quelle morti, da quei tumori, da quello smog, transiti l’unica possibilità di liberazione, la verà libertà. E loro, lignei fanciulli protesi nello slancio verso la carnificazione; e loro, anime intorbidite e sogni seppelliti da cumuli annuali di scorie e liquami, loro sì, non posso fare altro che credervi. Non hanno soluzione diversa che donare il proprio tronco povero di clorofilla, sradicato di botto all’adolescenza, nelle mani di presidenti eleganti e compiti.

Nel Paese dei Moratti, però, ci sono anche bui anfratti, parti di mondo dimenticate dall’uomo e da Dio, dove il sole non giunge ed il cielo non è che un’immaginazione ardita. Nel Paese dei Moratti ci sono spose bambine piangenti, salici costretti a seccare in tutta fretta da un dolore che azzera la linfa. Sono le lande popolate da lacrime, parenti vicini costretti alla lontananza, morte invece della vita, tombe al posto delle barche, cenere in sostituzione del mare.

E “Nel paese dei Moratti”, autore il giornalista Giorgio Meletti (edizioni Chiarelettere, anno 2010), è una favola ruvida. Spoglia di etica. Inutile, in fondo, cercare la morale dove la morale non c’è. Una fiaba lucida ed impietosa raccontata con gli occhi di un cronista. Tanti pezzi che si completano l’un l’altro come trame composite e complementari. Meletti scrive ed è come se parlasse di null’altro che d’una storia povera, semplice. Quella di un giorno come gli altri, fatica, orari, lavoro, stringenze. Una narrazione triste del secolo che corre verso la desolazione della precarietà. E’ la storia di Daniele Melis, Bruno Muntoni e Gigi Salinas, innanzitutto. 29 anni, 27 anni, 58 anni. Ma è anche la storia di un minuscolo ecosistema chiamato Sarroch, 5 mila anime arroccate nella provincia di Cagliari, e di un ecosistema nell’ecosistema: la Saras, gioiello di famiglia della scuderia industriale dei fratelli Gianmarco e Massimo Moratti.

Il 26 maggio 2009, mentre il primo tratta di un ingente prestito (190 milioni di euro) con la banca Intesa San Paolo, ed il secondo asseconda le lamentele dell’allenatore dell’Inter José Mourinho, i tre operai, uomini cacciavite delle ditte esterne che lavorano in condizioni a dir poco disastrate nella Saras, muoiono in una cisterna della raffineria. A catena di reazione macabra. Prima Gigi, poi Bruno, infine Daniele. Tutti e tre immolati sull’altare dell’insicurezza sul lavoro. Muoiono asfissiati per inalazioni di azoto, una sostanza che è capace di azzerare, praticamente, le condizioni di vita attraverso una radicale riduzione dell’ossigeno. Alla Saras lo usano per pulire alcune cisterne.

Un bocchettone infilato, una carta non firmata, una distrazione. Tre vite stroncate.

Quella della Saras è una storia come poche. Contrariamente ad altri impianti industriali, non conosce mezze misure. Determina i rapporti intimi, permea la familiarità. A Sarroch, i cittadini la amano e la odiano. Rende, insieme, la vita e la morte. E’ capace di dare stabilità ed incertezza. Ma chi la ama sa anche odiarla. E chi la odia sa anche di doverle gratitudine. La Saras è un pezzo di mondo, un appezzamento di terra. E’ ciò che attiva rapporti di atavica dipendenza coloniale, addirittura feudale. Un abitante sardo, parlando con l’autore, sintetizza: “Il mio primo giocattolo mi è stato regalato dalla Saras all’asilo. Il mio primo panettone (mignon Alemagna) mi è stato dato dalla Saras alle elementari. I libri di scuola sino alle medie mi sono stati pagati dalla Saras. I piedi di catrame me li ha sporcati la Saras. Il fumo acre all’odore di cavolfiore arrivava dalla Saras. Il primo suono di sirena alle 8 del mattino l’ho sentito alla Saras”.

Nessuno passa immune dalla Saras. Da quell’inferno che rigurgita malattie, ma sa inondare di soldi i suoi padroni. Loro, in perenne perdenza eppure abili a sfruttare le nefandezze finanziare di un mercato forte con i deboli e debole con i forti. Con i soldi sfilati alle banche, di quegli stessi istituti che non hanno fatto fronte ai debiti dei piccoli imprenditori onde, poi, pronarsi alle magagne azionarie dei fratelli milanesi, i Moratti hanno innalzato i dividendi. Ben consci di essere buona parte dell’azionariato Saras. E, in una sola manovra finanziaria, spalmata nell’arco triennale, sono stati capaci di sottrarre al mercato oltre un miliardo di euro, per convogliarlo nelle proprie tasche, giocandolo nell’azzardo pallonesco tinto di nerazzurro.

Sarroch ed il suo dolore, Sarroch e le sue promesse mai mantenute, Sarroch ed i processi senza colpevoli, Sarroch e la perfidia spiacevole di un liberismo rapace sono la cima di un sistema ampio e consolidato. Un sistema popolato di orchi e uomini neri, di Tronchetti Provera e di Marchionne. Perché nel paese dei Moratti c’è davvero posto per tutti.

Giorgio Meletti, “Nel Paese dei Moratti. Sarroch-Italia, una storia ordinaria di capitalismo coloniale”, Chiarelettere 2010
Giudizio: 4 / 5 – Crudo

Maurizio Crozza 6 – Ballarò 22 marzo 2011

Un Foggia bello da impazzire annienta l’Atletico Roma

Santarelli 5. Eroe su una zuccata di Ciofani, schiappa terrificante quando punta a fare il fenomeno sugli avanti laziali con finte e controfinte. Talmente tanto funambolico, che finisce per incantare anche se stesso. Si fa male proprio nel momento in cui avrebbe anche potuto prendersi un caffè in tutta tranquillità. Spariamo non sia nulla di grave. Pendolo. (31’ st – Ivanov 6. Giusto il tempo di inzaccherarsi i tacchetti)
Kone 7. Spinge, dribbla (lui si, riuscendoci), crea gioco. Offende e difende. Gode del miglioramento di tutta la squadra. Visto così, non sembra nemmeno quel mattone che, in alcuni frangenti, ha impersonato. È uno dei giocatori più in forma dei satanelli. Terzino.
Regini 6.5. Salva, immediatamente prima dello 0-1, una palla sulla linea di porta. Poi, nel secondo tempo, va vicino anche al gol. Vista questa Sampdoria, gli converrebbe rimanere in questo Foggia. Fondamentale.
Burrai 6. Nel domino della metà campo foggiana, dove ognuno scala assolvendo il compito di chi precede, si trova arretrato in fase di regia. Salamon gli tira lo scherzetto regalandogli la casella da titolare. E lui fa il suo. Disciplinato
Rigione 6.5. Si fa sorprendere da Cofani quando, per un pelo, il centravanti romano non fa gol. Ma fa alcuni interventi da premio Nobel. Stando alla calma che assicura alle coronarie, è quello per la Pace. Obama bianco.
Romagnoli 7. Semplicemente, un muro.
Farias 5. Fuori forma, fuori fase, fuori tutto. Prova a duettare con i compagni di reparto senza, tuttavia, riuscire a stare al passo dei più in palla Sau ed Insigne. La pausa cade a fagiolo. Dategli un’amaca. (12’ st. Agodirin 6.Dà brio alla fase offensiva, ma palla tra i piedi si incarta ancora troppo)
Palermo 5. Funge da anello debole del gioco della mediana rossonera. A lui spetta fare da Burrai, ma è come se Burrai, prima di scendere in campo, fosse stato messo sotto da un autotreno in piena corsa. Dovrebbe creare e non abbozza neppure, dovrebbe mettere ordine ed invece crea caos. I suoi lanci sono tutti e puntualmente imprecisi. Non è un caso che Zeman lo butti fuori. Evanescente (12’ st. Agostinone 6. Una bella sorpresa.)
Sau 9. Grandissima partita. Due gol e un assist. Quest’ultimo da vero e proprio rapinatore, burlandosi di Doudou come fosse un pivellino. Erano anni che a Foggia non si vedeva uno così. Macchina da gol.
Laribi 7. Clamoroso al Cibali. Non doveva neppure giocare. Ed invece gioca e fa il solito immenso partitone. In un centrocampo tutto sommato sottotono, è lui a dare la scossa e a prendersi sulle spalle l’onere di organizzare. Da una sua conclusione, smorzata, nasce il vantaggio di Sau. Direttore d’orchestra
Insigne 6.5. Lo fa il suo bel golletto, ma ha vissuto domeniche migliori. Lui è quello che ha più bisogno di riposarsi. Ha dato tanto, tantissimo. Ora può rilassarsi.
Zeman 7. Fa cinque. E speriamo anche sei, sette, otto…

∞ Produzione di futuro ∞

Che ci sia un’Italia migliore, probabilmente, non lo sa soltanto Nichi Vendola. Il mondo dei giovani impegnati, dei padri che sfangano la giornata riproducendo sorrisi grossi quante le bollette ed i mutui, delle donne che lottano per non soccombere sotto il peso dell’indifferenza o, peggio, della gravosità sessista. Che ci sia un’Italia migliore lo dice l’impegno delle Fabbriche di Pomigliano e di Mirafiori, di quei nuovi sfruttati in tuta blu che oppongono i loro dieci, cento, mille niet all’imposizione dall’altro di un sistema economico strutturato giust’apposta per incatenarli a vita, forse a morte, su un posto di lavoro ingrato ed infame, di quelli che l’esistenza e che drenano le energie. Che ci sia un’Italia migliore, poi, ce lo dice anche la Fandango (appunto, “C’è un’Italia migliore. Dieci passi per avvicinarci all’Italia che vorremmo”, Nichi Vendola e La Fabbrica di Nichi, 2011) e ce lo dicono i nuovi costruttori della democrazia. Quelli che, indipendentemente dai simboli di partito, non hanno scelto l’immobilismo culturale e politico. Quelli che hanno smosso mari, monti e qualche pianura per sbarcare in Puglia gli studenti fuori sede e negare al potere di difendere se stesso attraverso la partecipazione corale.

Sono loro, insieme con Nikita il rosso, gli autori del libro. Sono le loro esigenze ad incarnare, in perfetto stile vendolese ed in perfetto linguaggio vendolese, ed in perfetto accordo ideale con il leader di Terlizzi, figura oramai cardine del centrosinistra dell’oggi e del domani, le soluzioni. Da qui passano le strategie. Tanto che il decalogo contenuto nel libro altro non è che una lunga discussione, ma anche un documento politico, un programma di partito, una collezione di propositi. Sfide e necessità, dall’urgenza del recupero della città, alle ricette per l’economia, dalla pazza scommessa (vinta) delle rinnovabili, all’esigenza della cultura. Con la scuola sullo sfondo e l’aura di don Tonino Bello fluttuante e veleggiante ed una eccessivamente misticata immagine della Puglia, Nichi ed i Nichini cantano alla luna l’ode della speranza. Talora, forse, con eccessivo compiacimento, talaltre calcando con eccessiva pressione la penna della speranza sul foglio del presente.

E poi predizione profetiche. Quasi come in uno dei tanti editoriali su Fukushima, i fabbricanti picconano impietosamente le strategie nucleari della cricca atomista. Un’avventura di cui “l’Italia non ha bisogno”, perché “antieconomica”. E, soprattutto, per quel cartello non in vendita che recita: “Cernobyl non è più qui”. L’ha spinta lontano la voglia di partecipazione alle sorti di territorio, il desiderio di abitare città che siano “la scena dell’agire insieme, non più dell’ideologia della salvezza individuale”, dove ognuno viene prima di tutti. Forse, e forse soprattutto, l’ha spinta alla deriva la sequela deprimente di fallimenti dell’atomo, dal caso ucraino a quello giapponese. Con il precedente di Three Miles Island, Usa.

Piuttosto, il libro regala un omaggio alla strategia delle rinnovabili (anche se con il limite di non mettere mano ad un piano organico, ma in linea tutto sommato teorica), come forma nuova di rispetto dell’ambiente. Come, in più, alternativa ad un sistema distruttivo e logorante, che utilizza tutto lo specchio delle risorse della terra per farle propedeutiche alla produzione, al soddisfacimento delle impellenze economiche prima ancora che umane. Come resistenza al capitalismo predatorio, antidoto all’“istinto maldestramente mercantile” che accompagna le scelte dei governanti a tutto scapito della creatività.

Un viaggio nei meandri dei principi che hanno fatto il vendolismo e che lo perpetuano. Nel tornio di quei grossi capannoni valoriali che sono le Fabbriche che portano il nome del governatore.
Nichi Vendola e La Fabbrica di Nichi, “C’è un’Italia migliore”, Fandango 2011
Giudizio: 3 / 5 – Eccessivo

La memoria che (non) resta, di Gianni Rinaldi per Stato Quotidiano

Ci sono delle piccole parti di storia che, se li metti insieme, rischi (già, perché la storia a volte è un rischio per chi sa di sconrgervi tratti nettamente scomodi) che mostrino una poesia disarmante. Colori a tinte forti e mai banali. Colori di lotte, sporco di sangue ed odore di polvere da sparo. Brezza profumata di sconfitta e tanfo di vittoria. Non è una metafora, immaginare di immortalare la storia. La Scuola d’arte popolare di Fiano Romano, aveva realizzato un’impresa del genere, donando un murale sulla vita di Peppino Di Vittorio alla città di Cerignola. In cambio, solo oblio. La storia del murale la racconta Gianni Rinaldi
(Piero Ferrante)
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Cerignola – “QUESTO monumento a Di Vittorio, mi pare, per molte ragioni, eccellente e per me pieno di richiami, non soltanto per il suo valore di opera d’arte, ma perché riporta tra noi e nella piazza del suo paese, Cerignola, l’immagine di un grande. Una grande figura, Di Vittorio: per la sua schiettezza, la sua verità, la sua complessità, e per aver assunto in sé tutti i problemi fondamentali del nostro tempo, averli vissuti, aver contribuito in modo decisivo a risolverli, conservando una sua personalità straordinaria e poetica, in una vita spesa per gli altri.” Sono parole di Carlo Levi di fronte al modello della grande opera dedicata a Giuseppe Di Vittorio e la condizione del Mezzogiorno, commissionata dal Comune di Cerignola, che sarà installata in una piazza della città nel 1975.

Il Centro di Arte Pubblica Popolare di Fiano Romano, guidato da De Conciliis, realizzò un’opera innovativa e unica, del tutto diversa dal solito monumento di tipo celebrativo (statue, busti, lapidi). Il ‘murale’ si presentava come una piramide rovesciata sostenuta da una struttura metallica alta oltre dieci metri. Sergio Michilini, pittore friulano e muralista, nel suo blog descrive bene le peculiarità dell’opera: “Era una delle poche in Italia dove erano stati applicati alcuni principi metodologici fondamentali del muralismo moderno, sperimentati e teorizzati in Messico dal maestro David Alfaro Siqueiros. Parliamo di integrazione plastica, cioè del superamento del divorzio tra le tre Arti Plastiche fondamentali (Pittura, Scultura e Architettura) e re-integrazione con l’intorno pubblico e urbano. Parliamo di poliangolarità, cioè del libero movimento dello spettatore e delle conseguenti infinite deformazioni ottiche che attivano un meccanismo dinamico espressivo dell’opera d’Arte…”

“Siqueiros lo definiva muralismo cinematografico. Parliamo di arte pubblica, cioè di un metodo creativo democratico che coinvolge la partecipazione del pubblico fin dalle prime fasi progettuali dell’opera. Parliamo infine di materiali e tecniche dell’industria moderna… Oggi sappiamo che i prodotti dell’industria moderna sono spesso inadeguati per le Arti Plastiche, perché concepiti secondo l’ottica del massimo lucro possibile, invece che per una durata massima nel tempo. Il caso del Monumento di Cerignola, per esempio, presenta problemi di contaminazione nella struttura dei supporti pittorici (amianto), proprio per il carattere sperimentale con cui erano stati concepiti negli anni ’70. Ma sono problemi che, una volta individuati, si possono sicuramente risolvere.”

Il carattere molto particolare dell’opera è evidente anche quando passiamo ad osservarne i contenuti. Ognuno dei tre pannelli aveva un proprio tema narrativo. Nel primo, il viaggio degli emigranti verso il Nord. Nel secondo, la caduta del sistema clientelare di corruzione mafioso. Nel terzo, contadini e braccianti si uniscono a operai e intellettuali intorno a Di Vittorio. Sullo sfondo il treno degli emigranti che tornano. Sono quasi cento i ritratti presenti nell’opera, tra quelli di Di Vittorio, dei grandi meridionalisti, di politici, sindacalisti, intellettuali e anche dei martiri delle lotte per le occupazioni delle terre, da Melissa a Portella della Ginestra. Poi tante altre facce di donne e uomini meridionali. Un’opera quindi che può essere considerata una sorta di ‘manuale artistico’ di storia contemporanea, da interpretare, da ammirare, da condividere e discutere. Gli artisti scelsero di dipingere con la gente, nei dibattiti si parlava di pittura, riflettendo anche su tanta storia meridionale. De Conciliis raccontò: “Forse anche il lavoro di preparazione per quest’opera è servito a qualcosa: essa si è formata formandoci”. Sul valore e sulla novità rappresentata dall’opera si sviluppò, inoltre, un vivace dibattito nazionale che coinvolse personalità come Ernesto Treccani, Renato Guttuso e Carlo Levi.

Il monumento durò purtroppo pochi anni, durante i quali fu anche sfregiato da colpi di pistola, e “L’Espresso” titolò “Di Vittorio? Va fucilato alla memoria”. Negli anni ’80 a causa dei lavori di ristrutturazione urbanistica dell’area per il nuovo Municipio, fu smontato e accantonato, si disse, in attesa di nuova ricollocazione. Poi, circa 30 anni di oblio e degrado. De Conciliis, costernato, toglierà l’opera dall’elenco dei suoi lavori.

Ritrovai parte dei pannelli, che si ritenevano dispersi, nel 2008, nell’ambito del progetto Casa Di Vittorio e oggi, insieme a un movimento di centinaia di cittadini, in massima parte giovanissimi, riuniti su Facebook, ha preso slancio l’idea del recupero dell’opera. Si è perso molto tempo, perché in tutti questi anni, come ha scritto nel suo blog Vincenzo Maurantonio, “un bimbo avrebbe potuto chiedere, con la curiosità che contraddistingue tutti gli esseri umani in quella fase di vita, cosa fosse quell’”affare” al centro della piazza. Da quel punto in poi sarebbe partito il racconto appassionato del nonno che avrebbe coinvolto e soddisfatto la curiosità del bambino. Continuando, così, a tessere la trama del ricordo e infondendo passione e conoscenze. Un bambino, nel 2010, non può vivere la stessa cosa. È questo, quindi, uno dei principali motivi per il quale il murale di Di Vittorio è diventato ormai un caso. E non solo.”

Recuperarlo, con cura, mestiere e passione, perché, venendo a visitare Cerignola, chiunque possa trovarvi tracce di memoria del suo uomo migliore.

(Giovanni Rinaldi è antropologo e studioso di storia bracciantile. Per anni ha portato avanti il sogno di Casa Di Vittorio. Link http://www.statoquotidiano.it/06/03/2011/la-memoria-che-non-resta-murale-a-di-vittorio/43590/)