Da schiava a sindacalista, la storia di Magda

Magda

Foggia – MAGDA Jarczak è arrivata in Italia nel luglio del 2001. Nel Tavoliere delle Puglie dalla Polonia senza passaggi intermedi, solo la corsa di un pullman che pareva senza fine. Ad attenderla, un campo seminato a promesse, una vita nuova, diversa, ricca di opportunità che l’Est post sovietico non era stato in grado di tradurre in realtà. Nel 2001, Magda aveva 21 anni, un diploma ed un lavoro di ragioniera che non le fruttava che pochi spicci. Per questo, come tanti connazionali, scelse l’Italia. Allora non conosceva le strade lastricate di fango dell’Italia, lo sfruttamento dei campi, le condizioni disumane dei braccianti. Magda non sapeva nulla o quasi nulla delle sorti dei polacchi del pomodoro, gli antenati di tutti gli sfruttati di Puglia. Fu un amico di famiglia a proporle il cambio di vita. Le disse che, certo, occorreva fare qualche sacrificio iniziale, un pacco di lavoro e schiena a dura prova, ma le cose, poi, si sarebbero aggiustate. Visto dalla prospettiva della disperazione, anche il Meridione arido può apparire un Eldorado.

“Mi prospettò un mondo che non esisteva”, ricorda oggi dalla sede della Cgil. Rispetto a dieci anni fa, lo squarcio del suo presente è un tripudio di colore. Sposata con un foggiano, due figlie, in prima fila nel sostenere i diritti degli immigrati, segretaria provinciale della Fillea, sigla sindacale che riunisce i lavoratori del mattone.

Quel mondo che non esisteva era un cursus honorum facile facile che, partendo dai campi e passando per negozi ed imprese, l’avrebbe accomodata sull’agio. Un mondo in cui “tre mesi di lavoro sarebbero stati più che sufficienti per campare di un anno di rendita in Polonia”. Ma la lingua dei caporali è diversa da quella dei sottoposti ed il loro bel parlare è un lusso riservato a pochi. Il cielo d’Italia è, da subito, bocca che vomita veleno. Alla stazione di Foggia, una delle tappe della desolazione bracciantile e dello sconforto sociale, Magda e sua sorella diciannovenne vengono avvicinate da diverse auto. Tutti, padroni e caporali, conoscono l’orario d’arrivo degli autobus in partenza dall’Est Europa. E si appostano, scelgono le prede, le corteggiano, le innestano all’interno del proprio sistema. È il gioco del gatto con il topo, rimpallati da una zampa all’altra in attesa dell’artigliata finale. Due giovani donne, poi, fanno molta gola. Il mercato del battuage è estremamente più remunerativo di quello dei campi. “In pochi minuti – ricorda con un filo di voce – si sono avvicinate a noi due grosse macchine, con uomini che ci chiedevano di salire”. Ma Magda, che non parla l’italiano, ha ricevuto un ordine categorico: “dire sempre no”. E lo esegue. La sua sorte crede sia diversa, ha dei progetti, la costruzione di una propria vita, il ritorno a casa dalla mamma sola.

Ma l’arrivo dell’”amico” è la prima mazzata alle pretese. In pochi minuti vengono scaricate in un cascinale abbandonato alle porte di Orta Nova, sottratto alla vista ed al cuore. Il casolare è la linea di confine fra l’uomo e la sua stessa negazione. Non c’è acqua, le brandine sono soltanto la proiezione fantasiosa di un giaciglio, il caldo è torrido, le pareti un’utopia. Le due ragazze condividono gli spazi con tre connazionali, tutti uomini, ma di zone diverse della Polonia. “Il gioco è sottile” spiega Magda. “Spaccano la comunità, puntano a mettere insieme uomini e donne provenienti da zone tra loro anche in conflitto storico, dialetti diversi, religioni diverse, usi diversi, in maniera tale da alimentare la sfiducia reciproca”.

E ci riescono. Nelle cascine si parla poco, per quel che v’è permesso soggiornarvi. Già, il tempo. Perché lavorare nei campi significa orari massacranti, da miniera. Dall’alba al tramonto, con una sola ora di pausa e poco mangiare nello stomaco. Il canovaccio, già allora, è quello ereditato dagli anni della tratta del bracciantato locale. I kapò passano con i furgoni attorno alle 5.30, ritirano i lavoratori, prelevandoli uno per uno dai casolari. Uno guida, due siedono fra di loro li intimano di non parlare, li minacciano. Il pranzo giornaliero (consumato fra le 13 e le 14) è un razione modesta di pane, olio e – sorte beffarda – pomodoro, la doccia serale (il lavoro si conclude alle 19), invece, una sguazzata in un misero bidone di acqua sporca. Non basta a levare l’odore acre del sudore e quello dell’umiliazione.

Dopo due settimane, Magda invoca chiarezza. “Non capivo niente, chiesi come mai a distanza di 15 giorni fossimo ancora lì, in quella casa diroccata, un caldo d’inferno e tanto sconforto”. Sono i giorni in cui le si materializza lo spettro dell’inganno. L’amico di famiglia, in assenza stessa della famiglia, non ha più ragion d’essere tale. Diventa uno come tanti, uno fra i tanti, solo, agli occhi di quello strano popolo che popolo l’Italia, un po’ più uguale degli altri polacchi. Le tratta come bestie da soma, ritira sistematicamente i documenti, requisisce i passaporti. Prende in pugno le loro vite e le stritola. “Ci ripeteva ossessivamente che se avessimo provato a parlare ci avrebbero arrestate in quanto clandestine”. In realtà, Polizia, Carabinieri ed istituzioni hanno sempre voltato gli occhi dall’altra parte. “Un giorno – racconta Magda – è arrivata una volante, ci ha controllato i passaporti e, malgrado mancassero i visti di lavoro, non ha aperto bocca”.

Magda inizia a non fidarsi più di nessuno: “Cominciai a detestare l’Italia e gli Italiani i quali permettevano che, sotto il loro naso, accadesse tutto questo”. Italiani, già. Come i due proprietari del terreno, i “datori di lavoro”. Due “galantuomini”, fratelli possidenti, legati a doppia mandata con il sistema del caporalato. Talmente tanto riconoscenti agli aguzzini da ricompensarli lautamente con prebende, auto, denaro, rispetto. Un vincolo indissolubile che funge da sovrastruttura e segna destini. E quello di ogni giovane donna è la strada. I campi, la stagione del pomodoro e quella del carciofo, per Magda e sua sorella sono soltanto un approdo, una fase di passaggio, un primo passo. “Ci abbiamo messo poco a realizzare, eravamo destinate alla strada. Bastava vedere i cigli delle statali e leggere fra le righe di comportamenti e parole”. Era quello, insomma, il lavoro migliore che era stato garantito loro al termine delle fasi agricole.

A provarci con loro è uno dei proprietari che, con una certa insistenza, tenta di convincere la più piccola delle due ad uscire con lui. Prima la corteggia, la lusinga, la copre di complimenti gentili. Poi gli apprezzamenti si fanno pesanti e l’azione violenta. Una sera, entra nel casolare e prova, di forza, a portar via la sorella di Magda caricandola in auto. Nasce una colluttazione, grida, male parole. A difendere la giovane si mettono anche i tre polacchi del cascinale. Magda è tenace, si scaglia contro di lui, non gli perdona nulla, lo ricopre di insulti e lo costringe a fuggire mentre impreca generiche minacce di morte.

Il rancore di Magda verso il Bel Paese si tramuta in sdegno e lo sdegno in forza d’animo. Capisce che “così non potevamo più andare avanti a lungo”, l’obiettivo è andar via. Con l’aiuto di un vocabolario studia l’italiano, da sola. Come il piccolo Peppino Di Vittorio nei campi di Cerignola, la ragazza polacca comprende che è attraverso il sapere ed il capire che passa il riscatto. Ed aguzza le orecchie. A poche centinaia di metri dal casolare, una famiglia di anziani passa le domeniche in campagna. Già qualche altra volta, quei vecchietti così gentili avevano portato loro pasti caldi per ritemprarsi le forze dalle ore di duro lavoro. “Un giorno presi il coraggio a due mani. Non so neanche io come feci a farmi intendere da loro. Provai a spiegare la situazione mia e dei miei quattro compagni, il lavoro nei campi, le minacce”. A Magda, cattolica, la prima cosa che balza alla mente, anche per non coinvolgere più di tanto quella coppia, è di chiedere della chiesa più vicina.

Ottiene di più: per una settimana viene ospitata, con sua sorella, in una casa nel centro di Orta Nova di proprietà dei due. Dopo due mesi di silenzio riesce a chiamare a casa e spiegare a sua madre l’accaduto. Lei lo racconta ai genitori del caporale, che si mostrano stupiti. E lui, fiutata la cosa, non ritorna più nel suo paese dove, per giunta, giustificava le sue auto di lusso ed i capi firmati millantando – ma fino ad un certo punto – di essere a capo di un’agenzia del lavoro. Qualcuno ha anche fatto il suo nome nelle indagini aperte per appurare la sorte dei 150 polacchi scomparsi in Capitanata fra 2000 e 2006.

Per i primi giorni, comunque, Magda vive barricata, nascosta, in preda alla paura, teme per la sua incolumità. Poi, le viene trovato un posto di lavoro a Foggia. Gira i locali, i pub, come cameriera. Si dedica ad assistere gli anziani. Guadagna i primi soldi, conosce Michele, si sposa. Grazie ad un tirocinio entra in contatto con la Cgil. Fonda lo sportello immigrazione, comincia a capire cosa significhi, ufficialmente, la parola caporalato. Gira le campagne, parla con i braccianti, spiega loro i diritti negati e quelli spettanti. “Se non conosci i diritti – illustra – sei ricattato, se ti senti ricattato ti senti più vulnerabile e se sei vulnerabile sei debole”. Nella sua Polonia, torna ogni estate, con il suo uomo, con le sue figlie, con la sua dignità, in un viaggio all’inverso che ha il sapore dolcissimo della normalità.

Donne e ‘scritte’, tutti i misteri dell’inchiesta Marcone

da Stato Quotidiano

Il manifesto. In alto a sinistra, in rosso, la scritta (St)

Foggia – ALLE VOLTE basta un segnale per poter mutare il corso degli eventi. Chissà se si tornerà a metter mano a un romanzo che le cronache giudiziarie non hanno scritto ancora del tutto.

Francesco Marcone, per la città di cui è figlio semplicemente Franco, morto ammazzato nel portone della propria abitazione di Via Figliolia a Foggia nel marzo del 1995, la parola fine non la conosce ancora. E’ una vittima. Anzi, stanti i riconoscimenti, è la vittima delle vittime del capoluogo dauno. Medaglia d’oro al valor civile, per il Direttore dell’Ufficio Registro. Caduto sul lavoro, matrire. Semplicemente, come lo perpetua sua figlia Daniela, un “testimone”, staffetta di onore, figura di riferimento, cardine assoluto, baluardo morale.

I MISTERI – La storia processuale di Marcone è uno zero angosciato ed angoscioso. Quasi dieci anni d’inchiesta e mai nessun colpevole. Tutti partecipi, tutti coinvolti, tutti immischiati, ma nessun mandante, nessun esecutore. Soltanto l’armatore. Raffaele Rinaldi, ex impiegato dell’Ufficio del Registro. Per i giudici, verosimilmente dalle sue mani è partita la pistola che ha ammazzato Marcone. E che nel 1993, misteriosamente, ha sparato contro la porta di uno dei suoi superiori, Stefano Caruso, ombrosa figura, sfumata apparizione della vicenda. Ma Rinaldi muore in un mai chiarito incidente stradale, sbalzato dalla sua moto mentre, ai domiciliari, scorrazzava libero per il Gargano.

La chiusura dell’inchiesta è giunta per stanchezza. Troppe secche, troppo fango, difficile avanzare oltre. Il Giudice per le Indagini Preliminari, Lucia Navazio, dovette arrendersi al decesso di Rinaldi, ultima ruota del carro di coda, colui che, su di sé, fu designato per attirare l’attenzione della magistratura. Ma l’archiviazione disse molto di più. Anzi, le motivazioni auspicarono una veloce riapertura del caso, alla ricerca della verità.

IL MANIFESTO FUNEBRE – E che il caso Marcone non sia solo uno scarabocchio nella storia recente di Foggia, lo dimostra la scritta, misteriosa, apparsa su un manifesto funebre negli ultimi giorni di agosto di quest’anno. Un manifesto con stampato nome e cognome di una donna ucraina, mai apparsa, neppure di riflesso, all’interno del caso. In rosso, marcato con un pennarello, quasi come un fuoco: “per l’omicidio di Marcone Francesco”. Uno scherzo di cattivo gusto? Un macabro gioco? Una combinazione di fatti? Resta un mistero. Quel che, al contrario, non è nascondibile è il luogo in cui ciò è accaduto. Ovvero, ad uno degli ingressi del palazzo degli Uffici Statali del capoluogo. Una costruzione risalente al periodo fascista, ubicata in pieno centro cittadino, da un lato affacciata sulla villa Comunale, dall’altro su Piazza Umberto Giordano e con i fianchi appoggiani l’uno su Via Lanza, l’altro, su Via La Rocca. Nel 1995, qui aveva sede l’Ufficio del Registro, oggi spostato in periferia, con ingresso dalla strada che di Marcone porta il nome. Qui, dunque, ci lavorava Franco. E qui, dunque, l’averne richiamato la memoria potrebbe anche non essere un caso.

Chi ha scritto sul manifesto, non ha badato alla discrezione. Tutt’altro, la sensazione porta alla conlusione inversa. La frase è infatti apparsa sul lato più esposto, quello che dà su Piazza Giordano. Nulla, al contrario, è stato ritrovato dall’ingresso opposto. Nel giro di poche ore, il manifesto è stato coperto. A quanto pare, a chiedere l’occultamento è stata la famiglia della donna, sposata con un foggiano dal cognome campano e mamma di due figli, un maschio e una femmina. A sorprendere, invece, è il fatto che non ci sia stato alcun rilevamento sullo stesso, come si trattasse di una qualsiasi incisione da stadio.

A questo punto, dunque, riannodare la matassa pare impossibile. Il corpo della donna, morta in ospedale, tra l’altro, è stato tumulato in un cimitero del suo paese d’origine. Restano solo le domande. Perché è stato scelto il manifesto della donna? E come mai una frase così secca, che non lascia adito a dubbi? Poi, chi si è preso la briga, probabilmente nottetempo, o comunque al riparo da occhi indicreti, di vergare una frase così diretta non non poter avere dupolici o tiple interpretazioni? Chi era questa donna? Lavorava presso l’Ufficio del Registro ai tempi di Franco Marcone? Oppure è sposata con qualche foggiano che potrebbe essere in possesso di informazioni?

Francesco Marcone (fonte image:ilsottosopra)

LE DONNE STRANIERE – In attesa di risposte convincenti, non resta che andare indietro nel tempo e constatare che non è la prima volta che, nella lunga vicenda inerente l’omicidio di Franco Marcone, sbuchino delle donne. E delle scritte. Addirittura, venne ipotizzata, agli albori e con discreto impiego di tempo e fatiche, una possibile pista passionale. Miseramente crollata sotto i colpi della limpidezza della vita terrena del Direttore del Registro, uomo riconosciuto da tutti come onesto e rigoroso. Ma donne, e misteriose, sono anche “la collezionista” cui si fa allusione in una strana lettera anonima recapitata a casa della famiglia nel 1998 e, soprattutto Viviana Llaci, cittadina albanese, domestica della famiglia Caruso, ferita di striscio nell’attentato denunciato dal suepriore di Marcone (era il 23 dicembre 1993, un anno e tre mesi prima che marcone fosse eliminato) e clamorosamente mai sentita dagli inquirenti, ritornata in Albania in piena ricostruzione post guerra civile e interrogata soltanto a distanza di tempo dall’interpol. Un interrogatorio molto approssimativo, basato su domande evasive e poca contezza dei fatti.

IL REBUS – 29 novembre 1998. Sono passati tre anni e otto mesi dall’omicidio di Marcone. L’inchiesta latita. E’ già stata chiusa la prima volta, archiviata. Colpa di una Procura della Repubblica ballerina, di pm giovani e di qualche episodio che era e rimane poco chiaro. Nella cassetta della posta di casa Marcone, arriva una busta, spedita da ‘Foggia Ferrovia’. Giunge in Via Figliolia a mezzo posta ordinaria. Come una cartolina. Sul fronte, la grafia insicura di un mittente sconosciuto, ha sbagliato il nome della strada. Scrive: “Via Figliolino”. All’interno, un biglietto: “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”. Eccolo il rebus, l’altro grande fantastico mistero tragicomico dell’inchiesta sulla morte dell’Direttore dell’Ufficio del Registro. L’avvocato della famiglia Marcone, Oreste De Finis, consegna il documento in Questura. Sarà assunto e messo agli atti. Ma, come spesso ha dovuto ammettere lui stesso, “tra la mole imponente di materiale d’indagine, non è dato rinvenire alcun approfondimento e/o spunto di riflessione”.

Eppure, spunti interessanti, dalla sola analisi visiva del biglietto, ce ne sarebbero anche. Primo. Biglietto e busta sono scritti con grafie diverse. Simili, ma diverse. A scrivere, non è chiaramente la stessa persona. La grafia della busta è insicura. Potrebbe trattarsi dei tentativi di un anziano di risulatre fermo. O, al contrario, dei tentativi dello scrivente di apparire agitato ed impacciato. Viceversa, il documento dell’interno conduce a rilevamenti opposti. La composizione delle lettere lascia immaginare che, a vergare la missiva, sia stata una mano ferma e sicura di sé, di chi non ha donde di nascondimenti. Potrebbe essere stata redatta da personaggi esterni all’inchiesta. Oppure da indagati. In ogni caso, non sono state eseguite perizie calligrafiche, né rilevamento delle impronte digitali. Per non parlare della prova del Dna sul francobollo o sulla lingua umettata della busta stessa.

Secondo: il corpus del messaggio, il suo senso. Che cosa vuol dire “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”?. Proviamo a capirci di più. Come pensato da De Finis, più addestro alle scartoffie di Tribunale e di amministrazione, 1972 potrebbe si, essere l’indicazione di una data. Ma, più raffinatamente, anche un “numero di ruolo ovvero di repertorio”. Possibilità che schiude le porte alla presenza di un secondo documento, da cercare per ottenere informazioni. Documento che, nel 1998, certo era nelle disponibilità di qualcuno. Di chi? Della fantomatica collezionista (“rivolgetevi ad una collezionista”)? E collezionista di che cosa? Di oggetti? Di atti? Di carte? Tornando indietro, lo scrivente parla anche di “una carta da bollo da 2000 quello con la bilancia”. Ma nel 1972, non era in uso la carta da bollo da 2000 (ovviamente Lire), che sarà adoperata molto più tardi. La bilancia richiama invece alla raffigurazione presente sui fogli degli atti giudiziari. E se la collezionista fosse, ad esempio, un’archivista, magari l’impiegata di un ufficio pubblico incaricata alla razionalizzazione degli atti?

Ma sono tutti misteri. Grossi misteri. Appassionanti, quasi giallistici, buoni per inchieste da film. Non fosse che in mezzo c’è un morto ammazzato e la dignità di una città che, dopo quel maledetto giorno, non ha mai più saputo ritrovare sé stessa.

Maurizio Crozza 18 – Ballarò 20 settembre 2011

«Quei dati? La magistratura mi ha detto di non divulgarli»

di Massimo Brancati

POTENZA – Preferisce non rilasciare dichiarazioni. Resta in silenzio e si dice tranquillo, convinto che in tutta questa storia lui ha la coscienza a posto. Vincenzo Sigillito, ex direttore dell’Arpab, sapeva dei dati sull’inquinamento di Fenice nel periodo 2002-2006 ma all’epoca aveva negato pubblicamente l’esistenza di rilievi.

Alla commissione consiliare permanente della Regione che stava esaminando il caso arrivò a dire: «In data 16 ottobre 2009 ho saputo che l’Arpab non ha mai effettuato dal 2002 analisi sulle acque nell’ambito di Fenice».

Qualche tempo dopo, incalzato dal Radicale Maurizio Bolognetti, in una nota ufficiale cambiò versione: «… è pendente presso il tribunale di Melfi un procedimento inerente alle attività dell’inceneritore Fenice. Pertanto questa amministrazione non può divulgare notizie in merito».

Circostanza che è stata confermata qualche mese fa da Bruno Bove, coordinatore Arpab di Potenza, in un’intervista al giornalista di «Stato Quotidiano» Piero Ferrante: «I dati, come tutti gli altri, sono qui, presso la sede potentina dell’Arpa.

Ho ritenuto io di non diffonderli perché assunti dalla Procura e perché in corso un’indagine. Non mi prendo la responsabilità di azioni di cui non conosco le ripercussioni. Se mi danno l’autorizzazione a diffonderle, le diffondo».

Sabato scorso, evidentemente, questo via libera c’è stato. Ma è giusto tenere all’oscuro i cittadini su questioni che riguardano la loro salute? E perché la magistratura non è intervenuta pur sapendo che da dieci anni Fenice semina i suoi «veleni» nel terreno circostante? È necessario vederci chiaro. Nei mesi scorsi qualcuno ha tentato di addolcire la pillola spiegando che l’inquinamento riguarda i pozzi «spia» da cui l’acqua non viene munta per scopi potabili e irrigui. Ciò, in qualche modo, spiegherebbe perché la Procura non sia passata all’azione dopo tre anni di indagini. Sarebbe inquietante, d’altra parte, pensare che la magistratura, pur di «proteggere» una multinazionale, abbia chiuso entrambi gli occhi. Bloccare Fenice è l’appello lanciato dagli ambientalisti e dai residenti che denunciano l’aumento di malattie tumorali. La salute viene prima di tutto. Ma, considerando ciò che sta accadendo in questi giorni, il fragile sistema dello smaltimento di rifiuti urbani della Basilicata può reggere l’eventuale chiusura dell’inceneritore? I dati dicono di sì. Nell’impianto viene smaltita la parte secca di immondizia trattata a Venosa e Sant’Arcangelo, vale a dire il 30 per cento di quello che finisce in discarica. Un quota, dunque, che può essere assorbita anche senza il «mostro».


da La Gazzetta di basilicata 20 Settembre 2011

Published in: on 20 settembre 2011 at 22.29  Lascia un commento  
Tags: , ,

Il comunicato stampa del Comitato contro inceneritori Foggia su questione Fenice

La pubblicazione dei rilevamenti sui pozzi di emungimento dell’Inceneritore Fenice è l’ennesima dimostrazione di come un sistema criminale continui a pendere, come una spada di Damocle, sulle teste di migliaia di cittadini, con il beneplacito della politica.
Ci saremmo volontariamente risparmiati questo nuovo sfregio alla decenza pubblica. Venire a conoscenza di quanto, già da mesi, andiamo sostenendo in accordo con il Comitato per la Salute di Lavello, i Radicali Lucani di Maurizio Bolognetti, l’associazione ambientalista Ola e il Comitato contro gli inceneritori di Capitanata, è solo un passo in più di un processo di verità che, giorno dopo giorno, squarcia il velo di morte che Edf, con la complicità di Arpa, Provincia di Potenza, Regione Basilicata e Procura di Melfi prima e Potenza poi, hanno alzato. Un velo inspessito dalla mollezza, addirittura dall’ignoranza delle amministrazioni della Capitanata e della Puglia tutta. A seguito delle nostre richieste d’incontro con tutte le autorità pugliesi e daune, siamo stati ricevuti soltanto dall’Assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Fiore. Silenzio assoluto, al contrario, ci è stato opposto dalla Provincia di Foggia (dove, d’altronde, restano imbarazzanti le contraddizioni dell’amministrazione, in loco contraria a tutti i processi di annessione del territorio, a Roma incastonati nei favori della Prestigiacomo) e dalla neonata sesta provincia. E allora ci chiediamo: dov’è il Presidente-barra-parlamentare Antonio Pepe? E dove l’Assessore-barra-Commissario del parco del Gargano Stefano Pecorella?
Dunque, Pulcinella ha detto: l’inceneritore è cattivo e sporco. E sta inquinando dal 2002. Praticamente, da quando è entrato in funzione. Da nove anni, in maniera ininterrotta, i fumi si spargono sulle terre, contaminano i campi, infettano i cibi, s’insinuano nella pelle. Fenice sversa nella falda nichel, cromo, mercurio, piombo, cadmio, arsenico, trialina. L’odore acre e grigio della morte si è sparso sul Vulture. È lui, l’impianto, il nuovo, vero e pericoloso vulcano. Che agisce silenzioso a pochi passi da una fabbrica di pasta, a un tiro di schioppo da fonti, ruscelli e un fiume, l’Ofanto, che bagna tre regioni. E, questo, in barba ad ogni referendum. Basta un’opportunità di guadagnano, per giunta banditesca, per mortificare il voto di 27 milioni di persone che hanno, lo scorso giugno, decretato che l’acqua non è in vendita, che è di tutti e tutti hanno il diritto ad accedervi. Evidentemente, vista l’assenza dei Comitati per l’Acqua pugliese e lucano, e, più nello specifico, di quello delle province di Foggia e di Potenza, qualcuno deve aver interpretato il referendum come una semplice occasione di festa, buona per sfoghi ludici piuttosto che come snodo cruciale di una battaglia che è solo agli albori.
Bolognetti ha parlato dei cittadini lucani come di “carne da macello”. Noi ci spingiamo più in là. I cittadini del Vulture sono carne già macellata ed abbandonata a marcire al sole tra verdura incenerita e frutta malata. Inutile ricordare, lo fanno abbondamentemente gli amici di Lavello, che tre malati su cinque ricoverati presso il Crob di Rionero in Vulture, sono proprio del centro lavellese. Ben venga allora la Commissione d’Inchiesta proposta dal Presidente della Regione Vito De Filippo. Ma chiediamo al Presidente un atto d’umiltà. Si presenti non come interrogatore di quella commissione, ma come interrogato. Spieghi ai cittadini del Vulture e, indirettamente, a quelli del barese e del foggiano, chi e perché ha deciso di occultare i dati. Chi ha deliberato la fine agricola di una terra che non ha altre vocazioni. E come mai un’Agenzia Regionale, a Potenza diretta da Bruno Bove, uomo vicinissimo al Partito Democratico, abbia volontariamente e deliberatamente deciso di non rivelare cinque anni di attività mortifera e criminale. Dica quali provvedimenti intende prendere per sanzionare Fenice. E quali contro chi non ha fatto nulla acché emergessero queste magagne. Si costituisca parte civile nel fascicolo aperto in Procura, il Presidente. Chieda conto di che fine abbia fatto il procedimento, traslato da Melfi a Potenza nell’indifferenza generale. E, finalmente, dopo un decennio di ignava presenza, incominci ad amministrare un corpo di cittadini e non un covo di interessi.
Troviamo inoltre patetico il tentativo del presidente della Provincia di Potenza, Piero Lacorazza e del suo assessore all’Ambiente, Massimo Macchia, di scaricare le proprie responsabilità occultandole dietro un dito di scusanti. Ricordino perché sono lì e ringrazino ogni giorno il cielo di avere nelle potenzialità dell’agire una missione da compiere, non un semplice lavoro di disbrigo pratiche. I fumi di Fenice non chiedono permessi. Dunque, non troveranno risposta nelle carte. Ecco perché anche noi chiediamo l’immediata chiusura dell’impianto Edf, un tavolo interregionale di confronto per affrontare, una volta per tutti, la questione della chiusura del ciclo dei rifiuti.

COMITATO CONTRO INCENERITORI DI FOGGIA
RIFONDAZIONE COMUNISTA FOGGIA
VERDE AMBIENTE E SOCIETA’ FOGGIA
LEGAMBIENTE CIRCOLO GAIA FOGGIA

Fenice, ecco le ‘carte nascoste’. 2002-2007 fu lustro di morte

da Stato Quotidiano, 19 settembre 2011

Inceneritore La fenice (pietrodommarco.it)

Foggia – CI SONO voluti nove anni, svariati morti e ancor più malati, manifestazioni di piazza, la creazione di Comitati di cittadini, diverse interrogazioni parlamentari, l’interessamento della stampa di mezzo meridione, un fascicolo (scomparso) presso la Procura della Repubblica di Melfi (ora insabbiato a Potenza). Ci sono voluti nove anni, dunque, perchè un ufficio pubblico svelasse, un lustro di magagne dell’inceneritore La Fenice. L’Arpab ha infatti reso pubblici, attraverso il suo sito ufficiale, i dati dei rilevamenti dei pozzi piezometrici a valle dell’inceneritore sito nella zona industriale della città lucana. Ed è un avverbio, il finalmente, che lascia presto il posto alla preoccupazione.

BOLOGNETTI: “ANGOSCIA E INDIGNAZIONE” – Le cifre riportate nelle dieci pagine contenenti le 29 tabelle con i rilevamenti sulle acque sono una funesta conferma delle teorie avanzate, con fragore inascoltato dall’esponente dei Radicali Lucani, Maurizio Bolognetti (e giornalista per conto della Radio del Partito di Marco Pannella ed Emma Bonino) e dal Comitato per la Salute sorto a Lavello proprio per opporsi all’attività dell’impianto della multinazionale Edf. “Lo sapevo, l’ho detto, l’ho ripetuto come un mantra. Eppure, nel leggere che i signori della monnezza della Edf hanno inquinato le matrici ambientali del vulture-melfese, la falda acquifera fin dal 2002, monta l’angoscia e l’indignazione”, piange di dolore Bolognetti. E’, il giornalista, uno di quelli più bersagliati della vicenda, messo in mezzo da amministrazioni e funzionari Arpab come sobillatore e provocatore.

DAL 2002 – E la realtà è proprio come lamentata da Bolognetti. L’inceneritore melfitano, la cui attività ha serie ripercussioni anche sul tratto pugliese del fiume Ofanto (la cui acqua viene utilizzata per irrigare i campi. A questo punto si apspetta una presa di posizione ufficiale anche dell’Autorità di bacino, tirata in ballo, un paio di mesi fa, dal Comitato foggiano d’opposzione all’impianto della multinazionale francesce), ha inquinato a tutto spiano sin dal 2002. Con la complicità di Arpa e Regione Basilicata e nel silenzio quasi totale delle amminstrazioni di Lavello e Melfi. Le cifre, d’altronde, non lasciano adito ad interpretazioni. A partire dal gennaio del 2002 e sino al luglio del 2007, i valori registrano un inquinamento perpetuo ed inquietante, con picchi mai raggiunti neppure nel periodo attuale. Le popolazioni del Vulture, in particolare, hanno dovuto fare i conti con le scomode convivenze di Cromo, Mercurio, Piombo, Cadmio e Nichel. Tutti elementi chimici estremamente pericolosi per la salute dell’individuo, molti dei quali, come il Nichel ed il cadmio, con grande incidenza su donne incinte e neonati e con altissimi tassi cancerogeni ed infiammatori.

L’INTERPRETAZIONE – Sostanze proibite, velenose e pericolose che attestano uno smaltimento “non ortosso”, sempre al di sopra dei parametri fissati già prima del (per nulla restrittivo) Decreto Legislativo 152 del 2006. Roba scottante, per un impianto che, da oltre 10 anni, è sotto l’occhio della popolazione e di un paio di associazioni ambientaliste e che opera con permessi ballerini, mai definitivi e concessi più sulla garanzia che nell’effettività dei riultati. E che, malgrado tutto, nel tempo ha ricevuto incomprensibili attestati di stima dagli stessi organi di controllo che, a stagioni alterne, l’hanno derubricato alla voce “risorsa” o a quello “opportunità”. Partendo dal circuito di posti di lavoro che, attorno all’inceneritore (ricordiamo, gestito, da inizio 2011, da una srl, che ha ereditato il testimone da una – identica – spa) ruota. “Qui parliamo di stato di diritto e legalità, di Costituzione (violata) e del diritto alla conoscenza negato”, ha commentato a caldo Bolognetti.

E allora eccole le famose carte nascoste. Cinque anni in cui i parametri vengono doppiati, triplicati, decuplicati, elevati a potenze superiori alla enne. Non c’è stato, lo dicono le carte, un solo mese in cui Fenice abbia limitato i danni.

NICHEL – Il segnalatore più inquietante è certo quello del nichel. Segnalati sforamenti in 193 casi, a fronte di un limite massimo consentito picchettato a quota 20 ug/l, il metallo pesante è stato rintracciato in quantità che definire abbondanti è ben meno che un eufemismo. A marzo 2003 ha toccato quota 2600 ug/l (130 volte di più del consentito), a luglio 2006 addirittura il pozzo di emungimento numero 9 ha restituito 7032 ug di nichel per litro. Che, tradotto, significa 351.6 volte di più rispetto a quanto fissato dalla legge. Si tratta di casi limite, punte di un iceberg (oltre i 100 ug/l il nichel è andato spesse volte nel corso dei cinque anni “di buco”) che si sta scogliendo sotto i colpi della verità. Dati, sottolineano dal Comitato per la Salute di Lavello, “leggibili ed interpretabili in maniera inequivocabile”. E che, chiaremente, non possono che allarmare. La comunità scientifica internazionale, come confermato tempo fa a Stato Quotidiano dall’Assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Fiore, sta effettuando esperimenti di laboratorio per scoprire la correlazione fra il metallo pesante e l’autismo. Nichel che, già di noto e già di suo, è una delle sostanze a più alto contenuto di allergeni presenti in natura. Oltre ad essere in possesso di buona fama di cancerogeno.

PIOMBO – E’ l’altro gentile frequentatore delle lande melfesi. Il piombo, presente proporzionalmente in quantità minore rispetto al nichel, ha fatto registrare un picco spaventoso nel corso delle rilevazioni del marzo 2006 (evidentemente, l’annus horribilis per l’inceneritore Edf e peggio anora per le popolazioni di un’intera area transregionale), quando i valori (quasi sempre comunque al di sopra del tasso permesso), a fronte dei 10 ug/l consentiti, hanno toccato quota 700 (pozzo 1, settanta volte al di sopra della norma), 590 (pozzo 2, 59 volte più del permesso), 550 (pozzo 3, stima 55 volte superiore ai 10 ug/l), 220 (pozzo 4, 22 spanne più in alto del normale), 240 (pozzo 5, 24 volte di troppo). Piombo che, se possibile, ha effetti ancora più devastanti sul funzionamento del sistema umano. Assorbito essenzialmente attraverso la respirazione e la nutrizione, non viene metabolizzato, ma per larga parte escreto, mentre il resto (circa 20%) si distribuisce nei tessuti e in particolare nel sangue, nei tessuti minerali (ossa e denti), nei tessuti molli (reni, midollo osseo, fegato e cervello). E’ un metallo fortemente intrusivo che distrugge letteramente ciò che attacca, provocando malattie non di poco conto. Il piombo, infatti, è sostanza in grado di danneggiare praticamente tutti i tessuti, in particolare i reni e il sistema immunitario. La manifestazione più subdola e pericolosa dell’avvelenamento da piombo è quella a carico del sistema nervoso. Negli adulti il danno da piombo si manifesta soprattutto con neuropatia. Provoca encefalopatia, i cui sintomi sono vertigini, insonnia, cefalea, irritabilità e successivamente crisi convulsive e coma. La neuropatia da piombo colpisce soprattutto nello sviluppo, con turbe comportamentali e danni cognitivi. Studi epidemiologici hanno mostrato una forte correlazione fra il livello di piombo nel sangue e nelle ossa e scarse prestazioni in prove attitudinali.

MERCURIO – Luglio 2003, gennaio e marzo 2004, maggio 2007. I rilevamenti tenuti nascosti restituiscono alla luce anche la presenza, nelle falde, del deleterio mercurio. Così come il piombo, il mercurio, estremamente tossico, agisce a livello nervoso. Molto nocivo anche per la cute.

CROMO – Altra sostanza con cui si scherza poco. Composti del cromo vengono usati in coloranti e vernici, chiaramente smaltiti, in quanto Rifiuti speciali e industriali (presenti anche nelle auto della vicina Fiat), a Fenice. La sua presenza è associata all’aumento di carcinomi, specie quelli del seno e del polmone. Ma è sostanza che aggredisce, e non poco, pelle, occhi, e sistema respiratorio. Fra marzo 2006 e maggio 2007, è presente con una certa pericolosità nei pozzi di emungimento a valle dell’inceneritore francese. A fronte di una quantità massima fissata a quota 50 ug/l (e silenziosamente sforata con discreta cadenza sin dal 2002), i numeri certificano, nel marzo 2007 addirittura una presenza di 1000 ug/l di cromo all’interno del pozzo 6, che erano stati 600 ug/l appena nel luglio dell’anno precedente, 454 due mesi prima e diverranno 557 a luglio. Guarda caso, questi tetti massimi di sforamento dei limiti, segno che non tratta di occasionalità, ma di un malfunzionamento nella macchina del controllo e dell’intervento, sono stati registrati nelle acque dell’identico pozzo, il numero 6. Che cosa significa? E come mai questo aumento repentino è avvenuto proprio nel 2006, dopo che, nel gennaio, il monitoraggio era andato buca? E perchè proprio a gennaio, ovvero nello stesso mese in cui Fenice presenta alla Regione la concessione Aia? Interrogativi che, al momento, restano insoluti.

CADMIO – Nell’ultimo rilevamento “ignoto”, quello cronologicamente risalente al luglio di quattro anni fa, riscontrate tracce di cadmio in 6 dei 9 pozzi. Il materiale, presente nei minerali dello zinco, è voce inedita, precedentemente non riscontrata. Potrebbe essere dovuta allo smaltimento massiccio di materiale industriale o pile in disuso. Il cadmio infatti, viene utilizzato per le batterie ricaribili, ma se ne rinviene in tracce anche nei rottami di ferro ed acciaio. Inutile dire che, a sua volta, ha ricadute deleterie sulla salute dell’uomo, con conseguenza riscontrabili sul funzionamento dei sistemi circolatorio e renale.

LE REAZIONI – La pubblicazione delle cifre ha sollevato un discreto polverone negli ambienti politici lucani. Malgrado, come specifica a Stato Michele Solazzo, Comitato contro “La Fenice” di Capitanata, “si trattasse solo di dare la conferma di un segreto di Pulcinella”. Il primo a prender parte alla sfilza dei sorpresi, l’ex primo cittadino di Melfi, Ernesto Navazio. A Mariateresa Labanca, giornalista del Quotidiano di Basilicata, Navazio ha rivelato di essere “basito”. E ancora: “Eravamo seduti su una polveriera e nessuno si è preso la briga di farcelo sapere”.

PROVINCIA, REGIONE, PD – Iscritti a parlare anche il presidente della Provincia di Potenza, Piero Lacorazza ed il suo Assessore all’Ambiente Massimo Macchia. I due, “in ordine alla vicenda del termovalorizzatore di Fenice”, hanno diramato un comunicato stampa doroteo, moderato nei termini e fumoso sull’azione da intraprendere. Una lunga nota in cui rimpallano l’intera responsabilità all’Arpab, scaricando la coscienza dalle proprie mancanze: “Abbiamo mantenuto il silenzio in questi giorni – giustificano – pensando che tutti i soggetti istituzionali si potessero ritrovare ad una tavolo, cosi come avevamo chiesto qualche settimana fa con la richiesta della convocazione straordinaria dell’osservatorio ambientale per discutere degli ultimi risultati del monitoraggio su Fenice. Vicende cosi delicate, questo e’ il nostro parere, si governano con chiarezza, fermezza, trasparenza ed assunzione di responsabilità. E allora se dovesse essere utile, anche noi, nel coro delle dichiarazioni, ne aggiungiamo qualcuna”. Nulla di nuovo, insomma, ma che apre un fronte di guerra tutto interno al centrosinistra di governo del capoluogo lucano. Tirando in ballo l’Arpab, infatti, Macchia e Lacorazza gettano una patata bollente nelle mani della Regione, dove il presidente Vito De Filippo e l’Assessore all’Ambiente Agatino Mancusi, dovranno muoversi facendo ben attenzione a non intaccare le spartizioni di potere foraggiate dal pd (lo stesso Bruno Bove, mammasantissima dell’Arpab potentina, è uomo del Presidente del Consiglio regionale Vincenzo Folino, piddino di ferro, per 5 anni segretario regionale Ds) e, nel contempo, non scontentare un intero popolo che, ora più che mai, di fronte all’evidenza, invoca giustizia. Così, mentre Mancusi prende tempo, addirittura rinvendicando il diritto di capire cosa “significhino effettivamente quei dati” (bislacco che Mancusi, Assessore all’Ambiente, non lo sappia), De Filippo promette di dar vita ad una Commissione regionale d’Inchiesta che dovrà appurare le responsabilità retroattive di politica, enti e, ovviamente, di Fenice. “Per quanto attiene gli effetti di questi sforamenti sulla salute dei cittadini della zona Nord Basilicata, rimandiamo l’Assessore Mancusi ad una attenta lettura di quanto contenuto nella letteratura scientifica internazionale che lui, in qualità di medico, dovrebbe ben conoscere”, è la risposta, piccata e netta, dei cittadini di Lavello. Che tornano a chiedere la chiusura dell’inceneritore: “Bisogna bloccare immediatamente l’attività di FENICE-EDF attraverso la revoca della autorizzazione temporanea della Provincia e l’annullamento della procedura autorizzativa AIA del Dipartimento Ambiente Regione Basilicata”.

Ma la storia non si fermerà, andrà avanti. Maurizio Bolognetti proverà a capire dove sia terminato il fascicolo nascosto tra le pieghe della Procura potentina. E, in questa storia di coincidenze ed insabbiamenti, che uccide tre Regioni di veleni e spazzatura, si scrive un nuovo capitolo strano. Quello di un anno, il 2011, che si è aperto con il cambio della ragione sociale di una società (la farfalla Fenice Spa, 300 milioni di capitale sociale si ri-tramuta nella crisalide Fenice srl, capitale sociale 50 mila euro) ed è giunto ad epifania quasi 10 mesi dopo, con il disvelamento del più richiesto dei segreti. Se fra i due eventi dovesse esservi un legame diretto, un filo conduttore, si tratterebbe o di naso fino (di Edf) o di una strategia studiata a tavolino. Con buona pace della Procura.

p.ferrante@statoquotidiano.it

IL COMUNICATO DI MAURIZIO BOLOGNETTI – Non siamo carne da macello, non siamo cittadini di serie B, non vogliamo essere il costo che qualcuno è disposto a pagare per fare carriera, acquisire benemerenze o ingrassare il conto in banca. Da tre anni chiedevo conto dei monitoraggi effettuati dall’Arpa Basilicata tra il 2002 e il 2007. Bene, adesso Raffaele Vita ha deciso di abbattere il muro di omertà e di pubblicare quei dati on-line sul sito dell’Agenzia. Lo sapevo, l’ho detto, l’ho ripetuto come un mantra. Eppure, nel leggere che i signori della monnezza della Edf hanno inquinato le matrici ambientali del vulture-melfese, la falda acquifera fin dal 2002, monta l’angoscia e l’indignazione.

Davanti agli occhi si materializza lo sguardo di Lucia Lenoci, un’ insegnante di Cerignola, che venerdì sera ha partecipato al sit-in organizzato dal Comitato diritto alla salute di Lavello fuori ai cancelli dell’inceneritore.
Lucia, che mi ha detto: “la politica siamo noi, dobbiamo ribellarci”.
Inceneritore e non termovalorizzatore. Questi non valorizzano niente, ma in compenso ci hanno regalato veleni e inquinamento. Hanno appestato l’aria, l’acqua e la terra.

La politica? Quale? Quella di assessori regionali all’ambiente che da mesi lanciano accuse di allarmismo e procurato allarme? Di quale politica parliamo? Di quella espressa da un ceto partitocratico che tenta di distruggere l’immagine di chi chiede il rispetto di leggi e convenzioni internazionali, non limitandosi a protestare, ma avanzando proposte sulla gestione del ciclo dei rifiuti, sulla nomina dei direttori delle Arpa, in materia di trasparenza e diritto alla conoscenza? Parliamo di questa politica?

Solo poche ore fa l’Assessore regionale all’ambiente Agatino Mancusi ha parlato della necessità di tutelare la psiche dei cittadini del vulture. Un tentativo, l’ennesimo, di minimizzare la gravità della situazione. Come quando parlando di pozzi di petrolio da costruire in prossimità di invasi e ospedali, beffardamente si parla di “VIE”(Valutazione d’impatto emozionale). E intanto, alla faccia della “emozionalità” veniamo condannati dalla Corte di giustizia europea per la violazione della direttiva 2008/1/CE che impone il rilascio di un’autorizzazione per tutte le attività industriali e agricole che presentano un notevole impatto inquinante. Fenice opera da anni in assenza di una “Autorizzazione Integrata Ambientale”. Altro che psicologia e emozionalità, qui parliamo di stato di diritto e legalità, di Costituzione(violata) e del diritto alla conoscenza negato. Ma come avrebbero potuto dare l’autorizzazione a quelli della Fenice, se adesso troviamo conferma a ciò che era più di un sospetto: inquinano non da 4 anni, ma da dieci e probabilmente da un minuto dopo l’inizio delle loro attività. Il silenzio omertoso e complice di enti di controllo e istituzioni è durato non un anno e mezzo, ma dieci anni!!!

E continuano a bruciare Rsu e rifiuti speciali e pericolosi, tanti. Ma che importa, tanto a Melfi c’è un procuratore che nel settembre del 2009 ebbe a dichiarare che non aveva sequestrato l’inceneritore perché persona responsabile. Da due anni e mezzo si protraggono indagini, prima a Melfi, poi a Potenza, che al momento hanno portato al nulla. Disastro ambientale, disastro colposo, omissione di atti d’ufficio, violazione del D.LGS 152/2006 e del D.LGS 4/2008, avvelenamento colposo, avvelenamento di sostanze alimentari, violazione di convenzioni internazionali e dell’art. 32 del dettato costituzionale, potrebbero essere queste le ipotesi di reato che una qualche procura potrebbe ipotizzare, formulare, contestare, ma ahimé, al momento nulla di tutto questo è avvenuto e, come al solito, qualcuno ha addirittura provato ad agitare la clava dell’allarmismo e del procurato allarme. Colpirne uno, verrebbe da dire perquisirne uno, per educarne cento.

Leggo i dati dal 2002 al 2007 e mi stropiccio gli occhi. I veleni finiti nella falda, almeno quelli che hanno controllato(chissà come), si chiamano Cromo, Mercurio, Piombo, Nichel, Cadmio e poi l’arsenico, che appare e scompare pochi mesi fa, i Voc, la trielina.

Stanno operando quelli di Fenice con un’ autorizzazione “provvisoria”, rilasciata dalla Provincia di Potenza nelle “more” del rilascio dell’AIA da parte della Regione. Viene da sorridere, ma c’è da piangere. Il gioco delle tre carte, dove nessuno vuole assumersi responsabilità. IDV, ricordi che ha una nutrita pattuglia in Consiglio regionale che certo non ha certo brillato su questa vicenda. Quanti sono quelli che sapevano e hanno taciuto? Non credo che le responsabilità possano essere circoscritte solo a Sigillito(ex direttore Arpab) e Bove(funzionario Arpab).

Nel giugno del 2009, il direttore dell’Arpab rispose alla richiesta radicale, finalizzata ad ottenere l’accesso agli atti, con un no motivato dall’inchiesta aperta dalla procura di Melfi. Sigillito disse che c’era il segreto istruttorio. Rispondemmo che i dati ambientali non possono essere sottoposti a nessun segreto. Dopo mesi di pressioni, ad ottobre del 2009, l’Arpa quei dati li tirò finalmente fuori. Da settimane, non chiedetemi come, noi quei dati li avevamo già. Dissero che era venuto meno il segreto. Un mese prima un funzionario dell’agenzia aveva dichiarato: “Sapevamo dell’inquinamento, ma non era nostro compito denunciarlo”. Pubblicarono i dati, ma solo a partire dal dicembre 2007. Gli altri, quelli che leggiamo oggi, dissero che non c’erano.

A novembre 2009, il direttore Sigillito, audito presso la III Commissione regionale, dichiarò: “In data 16 ottobre sono venuto a conoscenza del fatto che l’Arpab non ha effettuato analisi sulle acque di monitoraggio di Fenice dal 2002, cioè da quando ha avuto l’incarico da parte della Giunta regionale.”

Tutto finito? Macchè, in questa storia un po’ kafkiana e un po’ surreale, i colpi di scena non finiscono mai. Sono gli effetti speciali prodotti dalla costola lucana de “La Peste italiana”. A giugno 2011, il solito funzionario Arpab, il solito Bove, dichiara in un’intervista rilasciata a “Stato Quotidiano” che i dati ci sono, ma che non può prendersi la responsabilità di azioni di cui non conosce le ripercussioni. Bove afferma: “Se mi danno l’autorizzazione a diffonderle, le diffondo”. Eppure, la foglia di fico del segreto istruttorio era caduta due anni prima. Eppure, avevano detto che non c’erano. Domande: Quali ripercussioni? Può un funzionario pubblico arrogarsi il diritto di negare dati ambientali? Di fronte a tutto questo, leggere frasi del tipo “la Regione detta le regole” è davvero ridicolo. Qui le regole sono diventate carta straccia e di certo se qualcuno ha dettato qualcosa non credo si tratti di coloro che avrebbero dovuto governare e tutelare questo territorio. Sul mio spazio Facebook, Giuseppe Festa ha scritto: “E ora all’attacco”. Si caro Giuseppe, all’attacco per chiedere legalità, giustizia, rispetto dello Stato di diritto e del dettato costituzionale, delle leggi della Repubblica e delle convenzioni internazionali. Tutti i ministri interrogati, ad iniziare dalla signora Prestigiacomo, su questa vicenda non hanno mai inteso rispondere. Non una risposta alle interrogazioni presentate da Elisabetta Zamparutti e dal gruppo radicale alla Camera. Muti anche loro. Muti come i pesci del Pertusillo, che, si sa, si sono suicidati. E muta pure la Commissione ambiente, che vanta tra le sue fila l’on. Salvatore Margiotta.
Lo confesso, a questo punto mi aspetto dalle istituzioni lucane e in primis dal governatore Vito De Filippo uno scatto di reni. La “ricreazione” è finita e deve finalmente prevalere il senso dello Stato, della difesa della Res pubblica.

Ai sindaci del Vulture, invece, voglio ricordare che un qualche margine è loro concesso dagli articoli 50 e 54 del D.LGS 267/2000. Abbiamo davvero bisogno che qualcuno torni a governare il nostro territorio. Abbiamo bisogno che qualcuno si decida a far rispettare le regole. Ora, subito, è necessario anteporre la tutela della salute pubblica e dell’ambiente ad interessi altri. Perché non è stata una pagina edificante quella scritta fino ad oggi e si è scherzato fin troppo sulla salute dei cittadini lucani. Fare il “profeta di sventure” può essere sgradevole, ma, ahimè, ogni giorno andiamo sempre più convincendoci che quanto affermato da Marco Pannella è assolutamente vero: “La strage di legalità ha sempre per corollario, nella storia, la strage di popoli”.
Per dirla con Lucia, la politica, quella buona, quella che si interessa della polis era in piazza a Melfi, davanti ai cancelli di Fenice. La politica partitocratica ne segua l’esempio. Se nulla cambierà, non resterà che appellarsi al Presidente della Repubblica in quanto garante del dettato costituzionale e a quella Europa, che anche in materia di tutela dell’ambiente e della salute, così come sull’amministrazione della giustizia, ci ha ripetutamente condannati.

A chi ci accusa di spargere “veleno sociale”, rispondiamo che l’unico veleno è quello di un regime che fa del potere un fine anziché un mezzo. La Edf deve pagare i danni prodotti, ad iniziare da quello di immagine. L’inceneritore va immediatamente chiuso. Con il Comitato Diritto alla salute dico: “Mo Avast” e confido nella capacità del governatore De Filippo di saper ascoltare le istanze delle popolazioni del Vulture.


FOCUS – ECCO LE CARTE!

FOCUS 2 – L’INCHIESTA FENICE ATTRAVERSO GLI ARTICOLI DI STATO QUOTIDIANO
1. Fenice, un caso di (a)normale inquinamento (Stato Quotidiano, 16 maggio 2011)
2. Fenice, la verità di Bolognetti: “Ci uccidono in silenzio” (Stato Quotidiano, 27 maggio 2011)
3. Fenice, contro l’inceneritore si muove anche la Capitanata (Stato Quotidiano, 31 maggio 2011)

4. Melfi, i panni sporchi di Arpab: “Giusto che Fenice chieda di bruciare di più” (Stato Quotidiano, 9 giugno 2011)
5. Fenice la rabbia del Comitato di Lavello: “Una presa in giro” (Stato Quotidiano, 14 giugno 2011)
6. Fenice avvelena ancora. A maggio riscontrato Arsenico (Stato Quotidiano, 20 giugno 2011)

7. Fenice, Comitato di Capitanata: “Clamoroso silenzio delle istituzioni” (Stato Quotidiano, 21 giugno 2011)
8. Bolognetti in tackle su Arpab: “Qualcuno blocchi Fenice”
9. L’intervista al Coordinatore Arpa di Potenza, Bruno Bove (28 giugno 2011)
10. Bolognetti contro Bove: “Se ci sono i dati, allora li tiri fuori” (4 luglio 2011)
11. La gente di Foggia, quella di Lavello e un grido: “No a Fenice” (9 luglio 2011)

Appunti italiani

Tina Anselmi è un monumento non consunto della democrazia tricolore. Staffetta (a 19 anni) della Brigata autonoma Cesare Battisti e del comandante regionale del Corpo volontario della libertà del Veneto, democristiana sociale, prima donna Ministro (al Lavoro), mai una voce su di lei, mai un bizzarro evento, mai un condizionamento. Rigore morale ma mai moralista, randellatrice del suo e dell’altrui. Giusta, Tina Anselmi, ancora adesso che, ad 84 anni suonati, la lucidità gli pone innanzi sceneggiati da seconda serata. Unti e bisunti cartocci di prodotti appiccicaticci: la P3, la P4 e chissà quante altre propagande. All’amica di una vita, Anna Vinci, ha affidato i suoi diari. Che in realtà non sono diari. Piuttosto carte, veri e propri appunti, raccolti nel tempo in cui ha occupato la Presidenza della Commissione d’Inchiesta sulla P2 (1981-1984). Stracci di politica, di vita, di affari. Panorami di un’Italia che c’è ancora, immutata, con gli stessi nomi e gli stessi moduli operativi.

Leggere “La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi” (prezioso lavoro di recupero timbrato Chiarelettere e firmato dalla Vinci), ovvero le due copertine che racchiudono queste carte, è pratica inquietante. È un’esperienza quanto più prossima possibile alla lettura di “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini. In definitiva, dal punto di vista meramente storico, il testo non aggiunge nulla di nuovo. Conferma solo (si fa per dire) le sensazioni di penetrante fragilità di uno Stato nelle mani di poteri invisibili ad occhio nudo, piccoli come eserciti di soldatini di piombo ma devastanti come le Armate di Timur lo zoppo. Legioni che ridono delle muraglie, che regalano la normalità a villaggi su cui vigilano con certosino interesse e patriarcale libertà. Conferma, una volta di più, che “basta una sola parola che ci governa ricattata o ricattabile, perché la democrazia sia a rischio”. E che Dio abbia in gloria l’Italia per l’attualità di questa profezia.

Il libro regala uno spaccato di pressioni, condizionamenti, esperimenti d’onnipotenza. L’Anselmi annota la carrellata di nomi che le sfilano di fronte. Nelle loro versioni rintraccia contraddizioni e verità. Coglie, soprattutto, i tic isterici di una giustizia turbata. È come se, pur chiamata ad indagare, fosse già conscia della gattopardesca essenza della sua Commissione. Non un organo inquirente, ma un puntello di una Repubblica allo sbando. A tratti, addirittura una copertura, una legittimazione, un’affermazione di tutto quanto rappresentato dal Venerabile Gelli ed i venerabilini suoi sottoposti. Eppure, con rigorosa dovizia, ricopre una mansione che la porrà dirimpetto allo sfacelo della sua formazione partitica, quella Democrazia Cristiana sempre meno democratica e men che meno conforme agli insegnamenti evangelici.

Nelle carte di Tina Anselmi dimora tutta l’Italia avvenire. Quella del controllo mediatico delle menti, quella delle banche padroni, quelle dell’affaristica privata tramutata in affaristica di Stato. In tal senso, le sue carte si tramutano in epitaffio, un’indicazione miliare per imboccare la complanare e tornare indietro. Lei stessa, diventando donna, persona, esistenza, lo urla: “Fate presto a pubblicare i miei appunti, dopo, anche solo qualche giorno dopo, sarà troppo tardi”. E questa sua ragione ha dovuto fare i conti con gli interessi superiori, con gli ordini dall’alto, con la sozzura di mani che nessuna svolta epocale ha ancora pulito (malgrado le promesse contenute nei titoli roboanti delle inchieste giudiziarie). Tanto che ancora nel 2004, la Presidenza del Consiglio (oggi come allora nelle mani del tesserato P2 numero 1816), dette alle stampe, sotto l’egida dell’allora Ministra alle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo, tre volumi intitolati “Italiane”, in uno dei quali (l’ultimo) la Anselmi diventa figura sovversiva, a tratti robespierriana: “La presidenza della commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2, assegnatale nel 1982 – si legge – cambiò il suo destino, quanto il moralismo giacobino, la vergogna del potere, l’istinto punitivo e tuttavia accomodante tra le parti, che furono la contraddittoria filosofia inquirente, dopo di allora, di tutte le commissioni parlamentari, cambiarono il corso del guerreggiato consociativismo italiano”. Quel che sarebbe dovuto essere un ritratto imparziali si tramutò in scarabocchio volontario, un’opera di Delacroix. Quello scritto, si concludeva così: “Era rimasto imprevedibile, e straordinario, che la furbizia contadina della presidente divenisse il controverso modello della futura demonologia politica nazionale, distruttiva e futile. I 120 volumi degli atti della commissione che stroncò Licio Gelli e i suoi amici, gli interminabili fogli della Anselmi’s List infatti cacciavano streghe e acchiappavano fantasmi”.

E come una strega, sul rogo ce l’hanno messa l’Anselmi. Senza, però, riuscire ad arderla.
Anna Vinci (a cura di), “La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi”, Chiarelettere 2011
Giudizio: 4 / 5 – Operazione verità

Isole ecologiche, queste sconosciute

(In)Terra... nera (Ph: Roberta Paraggio, St)

Foggia – OCCORRE una mattinata in auto per spaccare tutta Foggia. Nel ventre del capoluogo, si annidano, oggi, trenta isole ecologiche. Teoricamente, una delle strade percorribili per la risoluzione del problema della spazzatura emersa. Ma, al momento, soltanto una grana in più per Amica. La controllata del Comune di Foggia, le cui difficoltà vanno acuendosi con l’evolversi delle vicende giudiziarie, non ha né soldi né mezzi per fronteggiare la sperimentazione delle isole ecologiche interrate. Una sperimentazione nata nel 2006, anno in cui il sindaco di Foggia, Orazio Ciliberti, accompagnato in pompa magna da assessori e dirigenti comunali, diede lo start definitivo al progetto che, a ben leggere, doveva essere il fiore all’occhiello della giunta di centrosinistra. La tecnologia Gemini 3, la più sicura ed ecologica in produzione un lustro fa, avrebbe garantito l’assorbimento del materiale di una città che nel 2006 si attestava ad una differenziazione del 7% appena.

DAL 7 AL 9% – Come sappiamo, in cinque anni è cambiato poco o nulla. Nel 2011, il centro più grande del Tavoliere è fermo al palo. La differenziata, l’anno scorso, si è arenata al 9%, uno dei risultati peggiori in Italia e la cittadinanza è in preda ad un furore da rifiuto che non aiuta alla risoluzione del problema. Manca la preparazione, manca l’educazione, manca soprattutto un piano tale da consentire ad una popolazione di 150 mila anime di conferire nei luoghi, nei modi e nei tempi giusti.

2.5 MILIONI – Per la creazione delle trenta isole ecologiche, Corso Garibaldi, grazie al concorso della Regione Puglia ed alla ricezione di fondi dell’Unione Europea, investì 2.5 milioni di euro. Mica spiccioli. La stessa somma promessa dalla giunta vendoliana, oggi, per far funzionare una corretta raccolta porta a porta (ma i soldi, al momento, non si sono ancora visti). Ovvero, quel sistema che l’isola ecologica si prefiggeva di superare.

“IL SISTEMA PIU’ MODERNO DEL MONDO” – Quel finanziamento a pioggia cadde proprio nel cuore del più arido dei deserti. Le tessere, necessarie per il funzionamento delle macchine, si persero. Prima erano troppo poche, poi divennero troppe, infine si configurarono come introvabili. La comunicazione istituzionale fu carente ed estremamente riduttiva. “Il più moderno sistema di raccolta differenziata dei rifiuti presente a livello mondiale”, come lo definì Amica attraverso il suo portale web e gli opuscoli distribuiti – quelli sì – a migliaia, si impantanò in un fango appiccicaticcio.

La differenziata delle isole ecologiche (R.P, St)

LE PRIME DENUNCE – Non passa infatti neppure un anno che, alla fine di luglio del 2007, la prima protesta scuote il ventre ambientalista. Wwf e Legambiente, di fronte al cattivo funzionamento della distribuzione delle card, insorgono. Prendono carta e penna e redigono una lettera al curaro contro Amica e l’amministrazione: “I cittadini – scrissero – non hanno mai compreso a cosa servissero questi cilindri d’ acciaio apparsi all’ improvviso come funghi nelle vie cittadine. Molti li hanno studiati invano per lungo tempo e qualcuno, avendo intuito che in qualche modo fossero inerenti ai rifiuti, ha cominciato a riempirli di cartacce, cicche o altri simili scarti. Un’ altra triste storia dunque di spreco di denaro pubblico”.

SMEMORY CARD – Già, le card. Nei famigerati depliant illustrativi, l’Assessorato all’ambiente del Comune di Foggia, non solo ne alludeva alla presenza, ma specificava, con chiaro riferimento, la loro imprescindibilità rispetto al funzionamento dell’intero sistema. “Queste unità – si leggeva – verranno utilizzate dal cittadino, per il conferimento dei rifiuti da differenziare, mediante l’ impiego di una personale memory card. Scopo della card è quello di seguire il conferimento di carta, cartone, vetro e plastica di ogni singolo utente attraverso una serie di dati di volta in volta immagazzinati dalla card e di riconoscere all’ utente diligente un premio per conferimenti di questo tipo, inteso come riduzione percentuale (da stabilirsi) della quota annuale sul rispettivi tributi ovvero, in alternativa, al quartiere/circoscrizione più meritevole un benefit spendibile, per esempio, sotto forma di acquisto di beni d’ arredo o di quant’ altro utile per la collettività”. Insomma, una strategia bella e conclusa, con tanto di premialità. Forse, il limite stette in questa utopia priva di fondamento. A sei mesi dalla denuncia di Tonino Soldo ed Enzo Cripezi, che a Foggia sbarca Striscia la Notizia. Gli inviati Fabio e Mingo documentarono tutto e lo proiettarono agli occhi di milioni di Italiani. Di fronte alle telecamere di Canale 5, Elio Aimola, padre padrone di Amica, promise interventi nell’immediato tanto che ai primi di gennaio 2008, alle sei circoscrizioni foggiane (oggi ridotte a tre), vennero ripartire 7500 card. Ancora una volta fu molto fumo e niente arrosto. Pochissimi foggiani scelsero di recarsi nelle sedi delle circoscrizioni. Soprattutto, non tutte le famiglie trovarono la card e si videro ripetutamente respinte. Malgrado ciò, la municipalizzata non ce la fece a gestire il servizio. E nel 2010, nel cuore dell’emergenza rifiuti, si ebbe il primo incendio di isola ecologica. Ad essere incenerito fu il cilindro di Via dell’Arcangelo Michele, in zona Macchia Gialla, non distante dalla chiesa di San Pietro e a pochi metri da un parco strapieno di bambini.

LE ISOLE – E, nel più classico dei giochi al massacro, passata appena l’emergenza urlata della scorsa primavera, Foggia oggi continua a non poter usufruire di questi depositi. Stando alle cifre fornite a Stato Quotidiano dal gabinetto del Sindaco e provenienti da Amica, delle 30 isole, sarebbero non ripristinabili o da ripristinare soltanto sei. Le restanti 24, dunque, in teoria sarebbero usufruibili. Ed invece, niente di più lontano dalla realtà.

L'isola incendiata in Via dell'Arcangelo Michele (R.P, St)

PRIMA CIRCOSCRIZIONE – Annovera sei isole ecologiche interrate, di cui una (in Via Ciano, nei pressi di Via Iconavetere) appartenente all’ex prima e le restanti 5 facenti parte della vecchia sesta circoscrizione urbana del capoluogo due in Via Giuseppe La Torre, una in Viale Giotto, via Petrucci, Piazza Aldo Moro). Ufficialmente, sarebbero funzionanti, non destinate a lavori di manutenzione straordinaria, né manomesse in alcuni modo. E l’impressione, in effetti, è quella. Ovvero, lo stato – per lo meno l’impatto estetico – è tutto sommato discreto. Chiaramente, è ancora troppo poco. Non c’è, per esempio, un criterio preciso che ha permesso l’ubicazione di due distinte isole interrate nella periferica Via Giuseppe La Torre, periferia foggiana di nuova costruzione, costipata fra Via Rovelli e Via Lucera. I due cilindri, abbandonati nel cuore della selvaggia estate foggiana, sono spenti. I led che indicano la capienza non danno segnali di vita. Soltanto, lampeggia sul corpus metallico una luce rossa. Ovvero: rifiuti in smaltimento, attendere. In verità, sono andate in tilt come due flipper sballottati da un giocatore nerboruto. Tanto che, trovandosi a passare, una residente conferma che, alla faccia dei proclami e di due presentazioni ufficiali, non c’è memoria, nel quartiere, del funzionamento di queste “diavolerie”. Cambia panorama, ma non la sostanza. Muovendoci nei limites della circoscrizione numero uno, sono inattive e senza speranza alcuna le isole interrate di Via Ciano, Via Petrucci (estremo lembo di Candelaro) e Viale Giotto. Sono pulite ma senza alcun cenno di attività. Al contrario, c’è sporcizia in Piazza Aldo Moro. Nel più centrale degli spazi di conferimento differenziato, infatti, diverse buste sono ammonticchiate alla base, creando un colpo d’occhio tutt’altro che piacevole. In zona, in una città che torna a ripopolarsi, bambini in bicicletta, tate a spasso con i carrozzini, badanti in accompagnamento e ragazzetti di quartieri alle prime sigarette segrete. Tutti, insomma, ma nessuno che denunci. Al contrario, i pochi cassonetti sono pieni ed emanano cattivo odore.

L'isola ecologica di Piazza Padre Pio (R.P, St)

SECONDA CIRCOSCRIZIONE – Ma se Sparta piange, Atene non ride. La seconda circoscrizione, che assomma i territori che furono, in parte, delle vecchia 2 e della totalità della 3, ha problemi anche peggiori. Otto isole, due (fonte: Amica) da ripristinare, una sommersa dalla spazzatura ed un paio con tanto di cartelli di ammonimento redatti dalle popolazioni imbufalite. Discrete (ma, chiaramente, non funzionanti), quelle di Via Gino Acquaviva, Via Caracciolo (Chiesa di san Giuseppe Artigiano), Via Manerba (zona Macchia Gialla), Via Giustino Fortunato (zona stadio) e Via D’Addedda. Va molto peggio, invece, a quelle più centrali. Concentrate nell’arco di poche centinaia di metri, i tre “atolli della mondezza” di Viale Michelangelo, Piazza de Gasperi e Piazza Padre Pio, sono il risultato di una evidente stratificazione di un’inciviltà del sacchetto selvaggio che ha pochi eguali. Nel primo caso, l’isola ecologica è a pochi passi dalla sede della Biblioteca Provinciale. Da sempre giace in condizioni di abbandono. Ci sono periodi dell’anno, confessano a Stato un paio di residenti, in cui le buste invadono il marciapiede e il perimetro di una fu (ma molto molto fu) aiuola verde attualmente ridotta a zero. Spento il led di segnalazione, nessuna luce lampeggiante, il cattivo odore si avverte senza pietà, in spregio al fatto che dovrebbe trattarsi di materiale inodore. Giusto lì accanto, una fiorera in pietra è divenuta un naturale cestino. Viva la creatività. Selve di lattine di bibite gassate fanno capolino, adagiate su un terriccio multicromatico di buste in plastica e bottiglie in vetro di birra e vino. In Piazza De Gasperi, le buste sono adagiate, in piccola misura, a terra. A scoraggiare gli sporcatori, un tragicomico avvertimento in prima persona. “Chiedo la cortesia a tutti coloro che abitano in zona di non lasciare sacchetti con plastica, vetro e carta a terra nella zona dell’isola ecologica: sporcheremo inutilmente perché non saranno riciclati ma finiranno in ogni caso nella spazzatura indifferenziata. Sforziamoci noi di mantenere pulito questo spazio dal momento che chi lo dovrebbe fare non lo fa”. Scoramento che, invece, non è riuscito ad un secondo foggiano, anch’egli predicante dalle pagine di un A4, in piazza Padre Pio. La spazzatura attanaglia l’isola e sfora nei giardini retrostanti, vola con il soffiare del vento. Bottiglie in vetro, tante, plastica ovunque, anche solido urbano. L’aria è irrespirabile, il tanfo è tanto. “Amica non ha più gli occhi per piangere, la differenziata facciamola noi”, ammonisce il messaggio, strappato in parte senza aver trovato adepti.

TERZA CIRCOSCRIZIONE – La sterminata terza zona urbana (riunisce le ex numero 4 e 5 per intero), periferica, accalorata, abbandonata finanche, è puntellata di isole ecologiche. Sedici in tutto, secondo Amica, solo tre da ripristinare ed una impossibile da recuperare. È quella, già menzionata, di Via dell’Arcangelo Michele. Data alle fiamme un anno fa (era il settembre del 2010), è ancora oggi arsa e fuori servizio. Potrebbe essere considerata il simbolo vivo (morto?) e pulsante del fallimento di una strategia ben pensata ma malissimamente impostata. È un epitaffio alla memoria di tutti i fallimenti della Foggia recente. Da un lato, di una politica incapace di progettare e controllare; dall’altro, di una cittadinanza che, avulsa dal concetto di diritto, non ha trovato appieno il bandolo della matassa del vivere sano e collettivo. Bruciacchiati sono anche il cartello del Comune indicante l’ubicazione dell’isola e tre cassonetti destinati alla raccolta del solido urbano. Spostandosi di poco, la situazione non muta. Come in un gioco matematico di combinazioni di fattori in cui, uno dei due, sarà sempre zero. Ed allora l’area di Via Fares è un deposito di buste e finanche di vestiario e scarpe, sebbene possano essere utili e sebbene, nei pressi, in vista, c’è un cassonetto giallo di quelli della Caritas. Quella di Via Berlinguer (forse la strada più sporca dell’intera città, con la sua mini discarica personalizzata di elettrodomestici e ceramiche da bagno) è ridotta in stato pietoso, con i cilindri che sono stati addirittura forzati. Il led non è funzionante, addirittura dalla centralina sono stati strappati i collegamenti. Spostandosi verso Est, è un continuum di led spenti, lucine impazzite, tilt evidenti. Nessuna isola è stata mai svuotata. In Via Saragat (non distante dallo Zaccheria), accanto all’isola due bottiglie di whiskey ed una siringa. Il cerchio si chiude in Via Martiri di Via Fani, isola numero trenta cui giungiamo. Come un segno del destino, accanto ci sono due uomini. Uno cura il verde, un altro maneggia una scopa. Chiediamo lumi sulle isole. Attorno al bidone vi sono diverse buste che giacciono. Dice che non gli compete, con fare risoluto. Nel frattempo, alle nostre spalle, transita un camion di Amica. Tira dritto. Da queste parti si attende l’emergenza. Poi, eventualmente, si vedrà come fare.

da Stato Quotidiano, 5 settembre 2011

Scempio olimpionico comunale. Reportage dalla piscina abbandonata

La gradinata della piscina (Piero Ferrante, St)

Foggia – A VOLERCI ridere su (ma anche a ben guardare), si potrebbe dire che l’unica caratteristica vagamente olimpionica della piscina in endless progress di Via Galliani sia la lordura. Senza pari. Come il degrado che l’avvolge. Un mostro periferico e dimenticato, nato, negli anni Novanta, per stupire, rimasto invece monco e chiosato alla maniera foggian style, con una lastra di oblio e tanti saluti. A bloccare i lavori fu il ritrovamento di alcune testimonianze archeologiche e l’imposizione dei vincoli da parte della Soprintendenza.

SCUSE – Soffocata fra il boschetto della Villa Comunale ed il teatro Mediterraneo – altro bell’esempio di spreco edilizio di cui parleremo nei prossimi giorni -, la struttura è composta di un vascone all’aperto con annesse tribune ed una serie di locali oggi al limite della riconoscibilità. Ufficialmente, è uno dei mille luoghi “state alla larga” del capoluogo dauno. Connotazione ufficiosa ma di comodo, tanto utile a chi ne ha fatto un dormitorio, quanto alle impalpabili amministrazioni comunali (da Paolo Agostinacchio in poi, giù fino all’attuale Governatura Mongelli).

Il water (Ph: amici della Domenica)

SILENZIO DI TOMBA – Sulla piscina è calato un silenzio di tomba praticamente ancor prima della conclusione dei lavori. Alcuni foggiani credono sia la parte non riuscita del “Mediterraneo”, i più giovani ne ignorano l’esistenza, qualcuno crede addirittura sia stata abbattuta. La verità è che, se l’avesse vista, Paolo Rumiz, giornalista di viaggio de La Repubblica, ne avrebbe fatto l’immagine simbolo della sua inchiesta estiva: “Le case degli spiriti”.

IL RISCHIO DI ENTRARCI – Anche se non ci sono spiriti in Via Galliani. Solo, qualche disperato che ne ha fatto una casa. E, prima ancora, qualcuno che ne ha estirpato la funzionalità, tramutandola in una sorta di cartone vuoto. Il risultato è un luogo desolato e desolante, sventrato, pugnalato al cuore da chi ne avrebbe potuto e dovuto usufruire. Un luogo tutt’altro che inaccessibile, va detto. Basta spingere con il minimo delle forze il portone grigio e giallo che affaccia sulla biglietteria del Teatro all’aperto limitrofo, squallido anche nella cromia, per accedere ad un universo muto. Un silenzio che incute più d’un timore. Attorno, nell’arco di almeno un chilometro, c’è ben poco. Viale Fortore è al di là del Mediterraneo, Via Galliani è poco frequentata ed anche l’ultimo avamposto del parco urbano è al riparo. La solitudine è vera ed inoppugnabile e come ogni solitudine si presenta nel suo abito arso. Quel poco di prato annesso alla struttura è più un’intuizione che un dato di fatto plausibile. Claustrofobico. A pochi passi dal cancello, percorrendo un piccolo sentiero, la struttura in mattoncini marroni che accoglie i locali. Che sia abitata lo si capisce immediatamente. Una bottiglia d’acqua minerale (ce ne sono tante all’interno) che promette giovinezza eterna, fa bella mostra di sé su un misero tavolo. Da una delle vetrate che affacciano al’interno, si scorgono finanche dei letti, con tanto di coperte e lenzuola.

Qualcuno ci dorme... (Amici della domenica)

L’INTERNO – Tutto il divertimento (si fa per dire) sta nell’arrivarci, ai punti d’osservazione. Le piante secche sono spine vegetali, al tatto graffiano la pelle. Sotto il sole a picco il lucertolaio urbano è non dissimile da un deserto. Ci sono sterpaglie arse, fra le sterpaglie roba rubata date alle fiamme, tra la refurtiva, biciclette vecchie almeno una decina d’anni la cui estetica è ferro carbonizzato. Un piccolo sentiero in brecciolino ci accompagna a quello che deve essere uno degli ingressi. Se si tende l’orecchio, l’unica risposta alla sollecitazione dei sensi è un mare di indifferenza. Per accedervi, qualcuno ha pensato bene di farsi strada a forza di mattoni, lasciando in terra molta della vetrata frantumata. Occorre prudenza. La stanza, una decina di metri quadri, è ben tenuta. Le pareti sono pulite, neppure una scritta, la pittura sembra fatta di nuovo. La porta è in legno, cardini senza una grinza, maniglia tutto sommato pulita. Neppure una ragnatela negli angoli del soffitto. Pochi metri, il panorama muta. Gli ambienti restano tutto sommato decorosi. C’è un lungo corridoio su cui s’affacciano tante stanze. Si procede con calma perché la sensazione proietta la mente ai western, alle trappole, ai canyon, le gole, le frecce, le imboscate. Ma i timori da Roncisvalle fuggono con il cammino. Tutti i climatizzatori sono stati letteralmente divelti ed abbandonati a terra. I fili elettrici sono scoperti. La monotonia costruttiva ha fatto sì che si aprano, sul corridoio, stanze tutte identiche. Il tempo, al contrario, ha giocato a renderle uniformi nell’utilizzo: nessuno.

IL BAR – A metà percorso con la prima porta che si apre giunto in faccia al senso di percorrenza, sulla destra, un atrio più vasto. C’è un bancone che è azzardato dire devastato ma non è nemmeno usufruibile. Alle spalle, attrezzatura varia da cucina, forno-frigo-vetrina. Poche decine di metri e, camminando per il corridoio, s’oltrepassa uno stipite. C’è un pannello elettrico nuovo nuovo, sfuggito alla metodica distruzione riservata ai termosifoni-climatizzatori. Non c’è traccia di sporcizia sui muri mentre nell’aria si captano segnali di vita. Le stanze sono deserte, certo. Ma è questa l’ala che, dall’esterno, lascia intravedere le tracce abitate. C’è anche un bagno. L’odore è riprorevole. Uno dei water è intasato e sporco. Il fetore è da mal di stomaco. Probabilmente, nel progetto iniziale, questi sarebbero dovuti essere gli spogliatoi.

Il corridoio. Sulla destra, si aprono le stanze; sulla sinistra, dalle finestre, ci si affaccia sulla piscina (P.F, St)

LA PISCINA – Lungo una delle parti corridoio, quella dove non s’aprono le stanze, i finestroni danno sulla vasca vuota. L’acqua non c’è mai stata, ma d’inverno, dopo le piogge abbondanti, ristagna. Adesso non è che un deposito di erba, alberi e materiale da risulta alto circa tre metri. Le gradinate grigio tufo, vuote, hanno un qualcosa di post moderno. O, peggio, di post bellico.

BOLLENTI SPIRITI – Determina dirigenziale del Comune di Foggia numero 74. Data: 13 maggio 2011. Procedura numero 689. Dirigente: Fernando Biagini. I numeri ed i nomi non sempre dicono tutto. In ogni caso, all’interno di questa determina c’è scritto ben di più di quanto indichi l’oggetto. Infatti, ufficialmente, si tratta della liquidazione dell’onorario di un anonimo professionista,Vincenzo Anselmi. Ma, sotto le righe, se ne deduce ben altro. Ovvero che, grazie al “Progetto di riqualificazione urbana Foggiattiva”, nel 2006 Corso Garibaldi avrebbe ottenuto oltre 700 mila euro dalla Regione Puglia. Fondi, questi (da integrare con un bonus obbligatorio di 73 mila euro, in tutto 773 mila euro, dunque), assumibili dal portafogli munifico, d’invenzione vendoliana, “Bollenti Spiriti” e destinati, appunto, al “recupero funzionale ed alla ristrutturazione di due strutture” (sic!). Ovvero, l’anfiteatro di Parco San Felice (mecenate: Agostinacchio, fra le critiche di un’intera città che resistette a lungo al tentativo di ridimensionare a cemento l’unico polmone verde del capoluogo). E, appunto, la piscina comunale olimpionica di Via Galliani. Per la realizzazione materiale del progetto, il Comune di Foggia crea una fantomatica Unità Operativa-tecnico-amministrativa-gestionale esterna (con determina dirigenziale 584/2008, poi modificata 1535/2008), di cui Anselmi è esperto gestionale.

Di “Foggiattiva” si trova traccia, ancora una volta, nei documenti. A darne riprova, sono le determine dirigenziali, ma questa volta della Regione Puglia. La 057/dir/2007/0050, siglata dal Dirigente delle Politiche giovanili dell’ente barese, è quella che dona il denaro a Foggia. E che, ufficialmente dà il via libero a Foggiattiva. Vale a dire, alla creazione di “un centro d’aggregazione e inclusione giovanile basato sulla realizzazione di un centro servizi diviso per aree tematiche”. Il Comune specifica addirittura le aree: “area di collocazione musicale, redazione giornalistica, magazine cittadino e contact center”. Nulla di tutto questo è stato, in un lustro, realizzato.

Zanotelli prova a scuoterci: “Foggia, rialzati!”

Padre Alex Zanotelli a Palazzo Dogana (St)

Foggia – L’ABBRACCIO di una città, i brividi di Alex Zanotelli. Il padre comboniano torna a Foggia (e, ancora una volta nel Tribunale della Dogana del Palazzo che accoglie la Provincia di Capitanata) tre anni dopo la sua ultima salita da Napoli per discutere di “Bioetica interetnica”. Fenomenologia evanescente, carezzevole discussione, buona per risvegliare l’orgoglio di un uomo potente come Zanotelli. Maglia blu, jeans chiari, gli eterni sandali, crocifisso colorato al collo e sciarpa iridata, il fondatore di Nigrizia ha colto l’occasione per “tirare le orecchie” ad una comunità intorpidita dalla crisi, lentamente afflosciatasi sotto i colpi dell’impotenza. Una comunità, per giunta, spunatata, primva dei suoi vertici istituzionali. Il sindaco Gianni Mongelli si affaccia soltanto alla celebrazione religiosa recitata da Zanotelli in ricordo del “fiore di questa terra”, fiore alquanto dimenticato, Ettore Frisotti. Antonio Pepe e squadra non si fanno vedere. E nelle ultime file si scorgono soltanto i consiglieri di Palzzo di Città Leonardo De Santis e Michele Sisbarra.

L’AMBASCIATA DI PACE – Cade così nel vuoto il rimbrotto dolce di padre Alex. Che ripesca dalla memoria storica del Capoluogo dauno l’esperienza dell’ambasciata di Pace: “Avevate una delle strutture più belle presenti in Italia. Foggia e la sua Ambasciata di Pace significavano tanto per la causa della legalità e del disarmo”. L’ambasciata, plasmata da associazioni e partiti grazie alla sponda istituzionale fornita dall’ex presidente di Palazzo Dogana Antonio Pellegrino (recentemente scomparso a seguito di una lunga ed incurabile malattia), si disperse nel vuoto d’improvviso, nel silenzio generale. Zanotelli implora i ragazzi di riassumere il controllo, di “ridarle vita e forma”, di “fare rete, di unire e non di dividere”. E chiede: “Come si fa a parlare di pace quando a pochi passi si ha un aeroporto come Amendola da cui partono caccia che hanno fatto e fanno strage di civili?”

LE SPESE MILITARI – E parte da qui la bioetica di Zanotelli, dallo stop da imporre alla guerra come strumento di morte, di lesione dei diritti inviolabili dell’uomo ed della collettività, dal rispetto per la vita come “parte viva”. Ammonisce la politica che fa i conti sottraendo alle persone senza mai sottrarre alle cause stesse di un disastro annunciato. Il discorso non può non scivolare sulla riforma approvata dal Parlamento: 43 miliardi per risollevare, in teoria le sorti economiche del Paese. IN effetti, come chiesto dall’Unione Europea, una manovra politica per “rassicurare i mercati”. Zanotelli parte all’assalto: “L’Istituto Sipri (Istituto svedese, il più importante al mondo per quel che riguarda le ricerche scientifiche in materia di conflitti e cooperazione, ndR) ci ricorda che, nel solo anno 2010, l’Italia ha speso, in armi e guerre, 27 miliardi”. Nella voce, l’inflessione di chi sa ma che, in ogni caso, strabuzza gli occhi di fronte a cifre tato alte. “Ma neppure se fossimo invasi dagli ufo!”, scherza con un filo di sarcasmo. E continua: “Aggiungendo ai 27 miliardi i soldi spesi nell’acquisto di aerei e armaneti vari, si andrebbe a coprire senza nessun dubbio la cifra della manovra”. Ed allora, “perchè non intervenire una volta per tutte e tagliare le spese realmente inutili per la gente, quelle militari?”. Applauso e approvazione.

La pleta. Di spalle, padre Alex (St)

BENI COMUNI, ACQUA – “Acqua, terra, fuoco, aria. Dobbiamo ripartire da qui, riprendere questi elementi per riaffermare realmente un’etica della vita”. Sono le ricette contro la fame, contro la mortificazione, contro la sopraffazione. Le detta alzando il dito padre Alex. Le detta con nella mente ancora il grande movimento d’opinione, “realmente popolare”, che ha determinato la vittoria nella tornata referendaria di giugno. E se, appena ieri, il Ministro Sacconi ha rilanciato la sfida del mercato, proponendo un passo indietro sul tema dell’acqua, aprendo la porta ad un ripensamento in tema di pubbliciczzazione degli impianti idrici, il padre comboniando ribatte con la forza dei numeri: “27 milioni di italiani, per la prima volta nella storia, si sono opposti ad un tentativo di sottrazione di beni comuni. Tutto il mondo ci ha seguiti. Anzi, al di fuori dei nostri confini, l’eco è stata ancora più forte, siamo un esempio per tutto il mondo. Nessun partito in parlamento, ricordo al Ministro, ha un bacino elettorale di 27 milioni di voti”. Di più. Per Zanotelli sarebbe, un eventuale ritorno all’idea privatistica, un “calpestare i diritti insiti nella democrazia”. Per questo, invoca una “democrazia di massima intensità”, una “biocrazia cosmica”, un “governo della vita” che parta dalla consapevolezza del patrimonio comune, da principi ecosistemici, solidarietà uomo-natura, uomo-ambiente, difesa dei beni in comune. Guarda i giovani negli occhi, a loro si rivolge, li implora impegnandoli in un monitoraggio continuo: “Come abbiamo potuto permettere ad un parlamento di privatizzare l’acqua? L’acqua è vita, l’acqua è madre. Avete mai privatizzato di privatizzare vostra madre?” E, più in concreto: “A che punto siete con l’attuazione dei principi referendari a Foggia? E’ pubblico l’Acquesdotto Pugliese? Il vostro Presidente dice che ne farà una struttura pubblica, ma a me risulta si tratti di una spa”. Non ci sono sindaci in sala, ma le orecchie di 61 fra uomini, donne e Commissari prefettizi saranno fischiate con potenza sibilante in corrispondenza temporale con il monito del comboniano: “Che i Comuni vigilino, che i comuni sappiano, che i comuni difendano l’acqua”.

BENI COMUNNI, TERRA – “La prima Bibbia che Dio ha scritto è il nostro pianeta, dobbiamo difenderlo con tutte le nostre forze, perché ce lo stanno togliendo”. la sfida di padre Alex è dura ma già lanciata. “Come è possibile parlare di bioetica se non siamo in grado di difendere quel che ci circonda e da cui la nstra stessa vita dipende?”. Disegna i principi cristiani della condivisione, dell’abbondanza, della ricchezza. Che non è patrimonio, che non è capitale. E quasi inneggia alla grandezza dei Cieli quando chiede e si chiede: “Avete un solo fiore? Avete milioni di fiori! Avete un solo seme? Avete milioni di semi! Avete un solo uccello? Avete milioni di uccelli! Dio è stato di un’abbondanza sconvolgente nel regalarci il mondo e pochi potenti provano a togliercela”.

SPAZZATURA – E per sottrarla al controllo dei cittadini usano le armi della propaganda, della prepotenza. Ma, anche, dell’affare, il più lucroso dei quali, di certo, è quello della spazzatura. “Discutere di bioetica significa discutere anche di un progetto di raccolta differenziata”. Un progetto quanto mai concreto che fa il paio con “la separazione secco umido”, con la raccolta differenziata obbligatoria, con il porta a porta. Anche in questo caso l’emergenza Foggia torna alla mente. Ma anche fare i conti “con uno stile di vita ben al di sopra delle nostre possibilità”. 12.5 miliardi di bottiglie di plastica prodotte in Italia nel 2010, 300 miliardi di tonnellate di materiale inerte in una nazione “che ha l’acqua migliore del mondo”.

MIGRAZIONI – E terra, ricorda Zanotelli, significa anche migrazione, cammino, spostamento. Specie in epoca di una “globalizzazione che ci ha obbligati a guardarci tutti in faccia”. Significa continenti, significa Europa, America, Occidente, Asia rampante. Soprattutto, per il comboniano, segnato dall’eseprienza di Korococho, significa Africa. “Africana era la prima coppia di uomini. Dall’Africa discendiamo tutti. L’Africa è il paradiso terrestre descritto nella genesi”. La rivoluzione del sacerdote colorato parte da quie approda alla lotta dichiarata al razzismo insito nelle due leggi approvate in Italia in tema di immigrazione. “Prima la Turco-Napolitano, poi la Bossi-Fini sono atti di razzismo” che colpiscono “gli emarginati, gli ultimi”, alimentando pericolosi circuiti di ritorno alla schiavitù. “I 20 milioni di schiavi prelevati dall’Africa sono stati il gruzzoletto iniziale del capitale”.

CHIESA – Chiude con un pensiero alla sua casa, Zanotelli. Alla Chiesa rivolge un gioioso inno alla vita, a farsi partecipe della sua promozione, della sua valorizzazione totale e completa. Ammette di condividere le posizioni ufficiali in tema di aborto ed eutanasia. Poi, però, specifica che “siamo ancora lontani dall’imperativo per la vita, che è un prima e un dopo, ma anche un durante”.

da Stato Quotidiano, 17 settembre 2011