Nelle mani della squadra (Recensione “Andare avanti guardando indietro”)


“Prendi uno sport, togli tutta l’ipocrisia e otterrai qualcosa di simile al rugby”. È sin troppo gaudente, con i tempi che corrono e che, impietosamente, marcano le distanze fra un popolo in boccheggiamento economico ed eroi sportivi strampompati (economicamente e fisicamente parlando, s’intende), leggere una testimonianza di autenticità come quella racchiusa in “Andare avanti guardando indietro”. Il libello pretende molto da se stesso. Lo pretende la Ponte alle Grazie. Lo pretendono le sei mani e tre cervelli che ci hanno lavorato: Mauro e Mirco Bergamasco (i fratellissimi icone del rugby tricolore) con Matteo Rampin. Rampin che gli stessi Bergamaschi sbeffeggiano con l’appellativo di “strizzacervelli”. In effetti, medico psicologo ed assistente personale di molti atleti professionisti. Una pretesa soddisfatta. “Andare avanti guardando indietro” pretende per fissare una meta, per puntare un paletto, per gettare l’obiettivo. Sarà per questo motivo che non racchiude inutilità ovvie e facciate inutili. Sarà per questo che ostracizza da sé, mediante atto di ripulsa, una vanità vacua, non pratica.

Si diceva, è oltremodo consolante leggere e sentir raccontare di un mondo che, spesso, la poca poeticità televisiva ha sconvolto, seppellito sotto cumuli di macerie spettacolaristiche. È rassicurante tornare a scorrere l’intera gamma di dolore, sangue, agonismo, rivalità che s’arresta dirimpetto al rispetto. E quelle immagini cautamente ricomposte di avversari che non sono nemici, di maglie scambiate in campo e sugli spalti, di terzi tempi venerati come l’essenza stessa della contesa, di muscoli tesi e spalle lussate, corse liberatore e storie di squadra. Una birra, un posto a tavola, fiumi di offese scherzose e bonarie. Mostrare l’altra faccia di sé all’altro. Per denudarsi, uomo di fronte a uomo, in una contesa che è con-tatto. Che si manifesta attraverso un’insistenza violazione degli spazi altri, lo sfregamento di arti contro arti, membra contro membra, spalle contro menti, polsi contro nasi, orecchie contro capelli, sangue contro sangue. Un amalgama indistinto che mette tiene insieme tutto. Che forgia un essere che ha tutti gli odori di fatica e tutte le ferite dello scontro fisico. Ma anche tutta la delicatezza di un gesto vagamente paterno, come quel pallone stretto nel concavo che si crea fra braccio e petto.

Mirco e Mauro, con Matteo, fanno delle regole del rugby, degli elementi che ne contraddistinguono la vita, una filosofia. E, di conseguenza, del testo un piccolo manuale. Un libro che, volontariamente, assume i connotati di un cammino di crescita. E il cammino, come ogni iter di maturazione, sottende sforzi umani e sovrumani, il desiderio e la capacità di voler andare oltre se stessi, scherzare con i propri limiti, irretire i dubbi, vincere le paure sapendo che gli uni e le altre sono comunque confinate in un punto periferico dei pensieri, in un angolo ristretto dell’emozione. E lì restano, zittiti dalla cascata di adrenalina sprigionata dal verde del campo dal bianco delle linee, dalla cromia della propria maglia, dal numero sulle spalle. Numero che è appartenenza, esemplificazione di una missione, concretizzazione di un obbligo. Verso la propria persona e verso tutto il gruppo. La dedizione alla squadra è elemento totalizzante, esteriorizzata in quella piccola grande apparentemente inspiegabile regola dell’avanzare passando palla a chi sta dietro. Da cui, appunto, la titolazione del libro. Nei fatti, si tratta dello schieramento del rugby a tutto titolo fra le discipline sportive di squadra. Una regola che è forma mentis e che “ci ricorda che quando si è forti si è potenzialmente deboli”. In quanto è esattamente nell’istante preciso in cui si è soli contro l’avversario, tensioni contro, corpi nella protesa dello scontro, dolori potenziali che si fanno prossimi, rivi alla fase della convergenza, ebbene è proprio in quell’attimo “in cui abbiamo la situazione in mano” che ci rende conto che “per portare a termine il compito può essere etile effettuare un dietro front, una battuta d’arresto, effettuale una diversione dalla traiettoria, mettere in salvo quanto è già stato conquistato”. È la certezza che s’impone, il riconoscimento della forza propulsiva del collettivo, il trionfo opportuno ed anche opportunistico dell’umiltà quale “virtù strategica”.

Eccola schiudersi la potenza racchiusa in questo testo. Una potenza che è più di mente che di muscolo, che sa supplire al rigonfiamento del bicipite con l’immediatezza della sinapsi. Equilibrio, controllo, dosaggio. Una linea sottile, un varco delicato, uno sforzo stentoreo. Tendere alla disciplina significa non soltanto accettare le regole, significa interiorizzarle, trasformarle in proprio bagaglio, in idem sentire. In questo sforzo, i due omaccioni li immagini mutati in clowneschi funamboli del’ovale, sospesi su una corda a destreggiarsi per non cadere. Da lissù ululano sicuri che “non c’è forza più grande di quella di chi riesce ad esprimere in modo misurato e gentile il proprio potere, limitandone l’uso allo stretto indispensabile, senza mai oltrepassare il segno”. Segno che è la tacca tracciata in terra dalla decenza sportiva, che è decenza umana. Perché “chi è forte non ha bisogno di ostentarlo”. Perché “essere forte con i deboli e debole con i forti è un’abitudine che spesso deriva dalla cattiva coscienza riguardo la propria (presunta) potenza fisica”.

Ed allora viene sul serio da domandarsi con tanto di arrovellamento encefalico se si tratti sul serio di filosofia. Se sia finalmente giunta l’ora di resettare le banche dati delle nostre storiche convinzioni collettive per abbracciare, in una mischia etica, una nuova regola che suona sinceramente democratica. Intimamente democratica. Sentitamente democratica. Eppure non è filosofia. “È solo rugby”.

Mauro e Mirco Bergamasco (con Matteo Rampin), “Andare avanti guardando indietro”, Ponte alle Grazie 2011

Giudizio: 4 / 5

Differentemente, bici

Resistere vuol dire, talvolta, mettere nelle gambe la fatica di avanzare senza ausilio meccanico. Subire l’avversità di un cosmo, quello urbano, improntato alla centralità automobilistica; creato, secondo i dettami di un’arte perversa, per assorbire e rigettare il grigiore dello smog. Resistere in città, oggi, è una scelta, un atto di coraggio. E scegliere vuol dire rinunciare alla sopravvivenza per schiudere i battenti alla vita. Ostracizzare il vivacchiante ciondolarsi di periferia in periferia a bordo di una scatola metallica. Rinunciare di essere batacchi di una campana che va da sé coartando la volontà di immobilità. Ripristinare il sistema antico del camminare, dello spostamento che lascia il torpore muscolare dello straripamento dell’acido lattico nei polpacci.

La raffigurazione della resistenza del Duemiladieci, la montagna contro la dittatura del tubo di scappamento, è la bicicletta. Amata ed odiata, un po’ fanciullesca, un altro po’ residuato di primo Novecento, un po’ indispensabile ma soprattutto pratica ed economica, la bicicletta è oggi più che mai un simbolo. Democratico innanzitutto. È per tutte le tasche, ricchezza di ogni padrone o padroncino, astronave nell’immaginario, sudore nella realtà.

Nella giungla automobilista pullulante di un sottobosco catramoso ed appiattito, la bicicletta fa da liana certa e pericolosa. La pedalata come lotta quotidiana contro l’asfalto. Ogni colpo di pedale, un tratto di strada opposto al grigiore. Nell’avanzata contro “il logorio della vita moderna”, è d’aiuto l’esperienza. Piccoli trucchi assommati a qualche attenzione, qualche prevenzione ed un filo di scaltrezza. Come scegliere le traiettorie, come indagare le strade migliori, cosa fare di fronte alle buche, quale velocipede è migliore di un altro. Tutto è racchiuso nel prezioso testo “Manuale di resistenza del ciclista urbano”. Scritto da Luca Conti (blogger che da anni lavora presso la Rai) ed edito dalla Casa editrice specialistica di due ruote Ediciclo, il libro racchiude tutto ciò che occorre sapere per affrontare la normale follia della mobilità urbana. Tecnicismi ma non solo, utilità semplici per metter mani sulla bicicletta, modi per risparmiare tempo e soldi, equipaggiamento da portare in spalla e quant’altro concorra all’aspetto (ed alla tranquillità psicofisica) del ciclista. Conti passa in rassegna, con l’occhio abituato dell’esperto (partecipa alle attività della Ciclofficina Popolare Ex Lavanderia di Roma), una carrellata di ostacoli possibili che potrebbero frapporsi sulla strada del ciclista abituale.

Quello da lui pennellato è un piccolo mondo antico odorante di nafta e grasso, di polvere di selciato e di gite in campagna; ma, soprattutto, è frenesia ironica, caos alla soglia del ridereccio. È la foresta abitata di Suv e mezzi inquietanti, di pericoli pubblici per l’incolumità umana. Scorci di una follia antropica potenziata all’inverosimile. Una follia che colpisce ed ammorba, che inquina ed incalza, che costipa e costringe. Il mondo come un barattolo grigio in cui il ciclista viene continuamente scosso. Già, perché la strada è impero del pericolo. Sopravvivervi è questione di coraggio, di forza, di lotta giornaliera e perentoria. È l’oclocrazia del rombo del motore a giocare da padrone. Resistervi è atto sociale di chi non si sottomette alla massificazione, di chi non soccombe al consumo. Di chi, soprattutto, è capace di immaginare un modo di viere differente. Un modo di vivere in cui la fretta è antesignana di un impegno concreto, non semplice imprinting di un Dna confuso, scambievole risultante dell’accoppiamento fra tv e lavoro. In questo mondo alternativo, popolato di meccanici non riconducibili all’infimo livello di negozianti opportunisti, in questo mondo dove la rottura di un componente non è sintomo di rivoluzione, ma di aggiustamento, la bicicletta diventa finanche uno strumento di lusso e non un riduttivo gioco di bambino dalla rustica infanzia.
Ecco perché il testo di Conti, con la sua pretesa ingorda e cocciuta di ridare senso al tempo, con la sua pretesa ingorda e cocciuta di avocare alla vita del ciclista il diritto di circolazione suona come una goccia di rugiada in un prato di desolante arsura.
Un trattato utile ed insieme sognante. Di quei sogni concreti e normali di cui il mondo ha bisogno per smontare, pezzo per pezzo, la robotizzazione automobilistica. Perché, a volte, “bagnarsi è molto meglio che rimanere imbottigliati nella vostra scatoletta ad ascoltare tormentoni musicali”.

Luca Conti, “Manuale di resistenza del ciclista urbano”, Ediciclo 2010
Giudizio: 3 / 5 – Deciso

Quel calcio sparato in cielo (rec. “Campanile sera”, Ninì Delli Santi, La Ricotta 2010)

Il primo enigma che ci si pone avendo in mano una copia di“Campanile Sera. Il calcio all’alba dell’Atletico Vieste” (Ninì Delli SantiLa Ricotta, 2010) è che cosa diavolo significhi quella locuzione così simile ad un periodico indipendente di matrice cattolica.“Campanile sera”, invece, non è l’organo officiale di qualche oratorio di provincia, ma un modo gergale per intendere un pallone scagliato in aria, verso il cielo di Dio, con tutta la forza esplosiva di un calcio.
Il secondo enigma, più concreto è cosa ci trovi un viestano doc come Delli Santi a narrare la storia di una squadra che, così, apparentemente, limitandosi alla copertina di un libro, non ha una tradizione, è destoricizzata dal contesto dei grandi e dei medi, relegata non nell’alveo della mediocrità, ma in quello della totale abulia sportiva.

Eppure basta una scorta, è sufficiente già leggere l’emozionata prefazione che lui stesso pone a testa delle duecento e rotte pagine, per capire come, ancora una volta, la narrazione di una storia sia semplicemente il presupposto per l’emersione di un pensiero recondito. Come il pallone racchiuda, nella sinuosità suadente della sua forma, le condizioni essenziali del quotidiano; come le gioie e le delusioni provate su un campo verde, null’altro sono, alfine, che le anticipazioni della vita vera. Il gioco di squadra, le norme comuni, il sudore, la fatica, l’esultanza, la maglia attaccata al petto, il saper capire dove incominci e finisca lo scontro. È qui la tacca territoriale del calciatore, è qui il confine che si confonde, mescolando ambiti diversi ma compatibili. Eccola, l’ammissione: “Non so se alla fine questo libro parla di me attraverso il gioco del calcio, o se parla del gioco del calcio attraverso la mia persona”. Lo dice l’autore in un accenno di sentimentalismo, prima di dare avvio alla narrazione vera e propria. Prima di battere una strada per metà sospesa nel cielo dell’autobiografia, per un’altra metà calata con i piedi nella saggistica. La prima, filosoficamente stimolante, abitata da un viandante per nulla occasionale, Vincenzo. Il primo maestro di calcio del decenne Ninì, che apprende segreti, tattiche, trucchi nello scalcagnato stadio di Vieste. È a contatto con questo Nereo Rocco in la minore che il bambino matura la velocità dei pensieri fusa alla rapidità dell’esecuzione. È grazie a questo eremita chiuso nel tempio erboso che Ninì si scopre capitàno della squadra della sua infanzia, impara a godere delle gioie del pallone, a manipolarlo senza mancargli di rispetto.
La seconda parte del libro, si dipana sulle vie del saggio. Un saggio sui generis, composto originale di storia e poesia, in cui i calciatori sono poeti, narratori, filosofi, scrittori. Utile (si trovano tabelle delle stagioni migliori dell’Atletico Vieste) ed insieme mai arrendevole alle catene della noia.
Perché il calcio parte dal basso e nel basso trova, spesso, la sua realizzazione emozionale più concreta.

Ninì Delli Santi, “Campanile Sera. Il calcio all’alba dell’Atletico Vieste”, La Ricotta 2010
Giudizio: 3 / 5

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Diavolo d’un Milan (rec. Pape Milan aleppe, Sedizioni, S. Giuntini)

.:: Milanisticamente parlando::.

“I signori bauscia, nonostante l’atavica supponenza […] dovranno continuare ad invidiarci. Imitarci o superarci no, perché anche mettendocela tutta non ne saranno mai capaci. Troppo diabolici noi, per il loro catto-interismo”. Sergio Giuntini è un intellettuale, storico, autore di molti saggi. Ma Sergio Giuntini è la dimostrazione di come la conoscenza attuata alla perfidia produca risultati sghignazzanti.
Per la casa editrice meneghina “Sedizioni”, ha scritto un pamphlet godereccio ed ozioso, ideale da leggersi in quell’Arcadia infernale chiamata stadio. “Pape Milan Aleppe. Il Milan è un linguaggio di poeti e prosatori” è, lo dice lui stesso, in apertura, con ben più di un tocco di soddisfazione malcelata, la “via milanista alla letteratura”. Perché al centro del testo ci sono tutti gli eroi che hanno fatto grande (e celebre) il Diavolo. C’è Liedolhm e c’è Baresi, c’è Rivera e c’è Van Basten, c’è Gullit e c’è Schiaffino. Ci sono tutti quanti hanno fatto impazzire i cugini, schiaffeggiandoli per una lunga parte della loro storia passata e recente.

Ma, ancor più delle loro carni, ci sono le loro trasfigurazioni letterarie. Ci sono le parole che racconti, romanzi, poesie ed articoli giornalisti hanno marcato a fuoco nel ventre del tempo per eternificarli. Come calciatori e come uomini. Figurine adesive incollate sull’immane album del mito.

Il punto di vista di Giuntini è volutamente parziale. Milanista nel midollo e, per rivendicazione, di “sinistra-sinistra”. Sarà per questo che incarna, nel contempo, la figura del Tacito (lo storico), di Cicerone (l’avvocato) e di Giulio Cesare (il generale).

Come storico, menziona, uno dopo l’altro, tutti coloro, letterati e poeti, giornalisti e scribacchini che, dal dopoguerra ad oggi hanno, pur soltanto a mezzo di un rapido passaggio, alluso al Milan. Lo fa in un linguaggio pieno di scherzosi eccessi, in un milanistese (il linguaggio ufficiale del tifoso) che lancia spunti e butta bombe esilaranti nel campo avversario. Cita Alfonso Gatto, Franco Loi, Leonardo Coen, Pierpaolo Pasolini, Lorenzo Bianciardi e Michele Prisco; obietta contro Gianni Brera, il milanista rinnegato, ricorda Giulio Nascimbeni e se la ride con Beppe Viola; si esalta ballando sulle parole del cileno (milanista) Antonio Skarmeta e del giapponese Kazuo Ishiguro. E non si esime dall’accostamento donna – calcio quando ricorda gli stupori diversi di Camilla Cederna ed Oriana Fallaci di fronte all’Abatino Rivera. Che, in barba a Santon, a vent’anni, “valeva già come un jet bimotore, un Rembrandt, un Botticelli e due Cezanne”. Accostamento di livello talmente lontano, quello fra calcio ed arte, che diventa compatibile soltanto se, sul piatto della bilancia, si pongono artista con artista.

Come Cicerone, Giuntini si sente in diritto di difendere se stesso. Si fa voce della categoria del tifoso imbarazzato che arrossisce al pensiero del Presidente Operaio. E così reclama al banco degli imputati altri rosso(neri). Chiama a deporre al banco della curva altri nomi, ma stessa passione. Assume la veste di avvocato del Diavolo, perché lui stesso si sente Diavolo. Smonta i perbenismi interisti, di quanti portano nelle sacche bontà da distribuire e poi “torna a casa e picchia i figli” (Viola), di chi esalta il presidente “petroliere ecologista”. Rivendica, ridendo ma neanche troppo, il diritto di esistere al di là delle persone e dei finanziatori. Al di là dei governi e delle ideologie. Perché, ricorda, già un tempo provarono a cambiar volto alla squadra, imponendole una “o” di troppo. Era il 1939, l’autarchia fascista delle vocali finali, l’italianizzazione di territori e di valori che italiani non potevano essere.

E fa da generale. Avoca a sé gli scrittori milanisti, si pone a capo di una colonna di indiavolati per partire all’assalto del fortino nerazzurro. “Altroché interismo – leninismo”.

È un libro che farà sorridere e gasare i milanisti tanto quanto incazzare gli interisti. Tanto che la lettura è sconsigliata a quanti ammalati di malattie quali: vittimismo, favoritismo, guidorossismo, telecomismo cronico. Facciamoci una risata.

Sergio Giuntini, “Pape Milan Aleppe. Il Milan è un linguaggio di prosatori e poeti”, Sedizioni 2010
Giudizio: 3 / 5 – Milanista-leninista

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Quando parlano i tifosi (recensione di “Noi odiamo tutti”)

Ci sono pochi fenomeni che trovano proiezione concreta sulla realtà quotidiana come il calcio. Il tifo, nomen omen, è ben più che una semplice modalità di ammirazione. È fanatismo, è malattia. È una composizione desossiribonucleica insita in intere generazioni, un morbo che si diffonde rapidamente. È una pandemia, spesso urbana, altre volte suburbana, finanche nazionale e sovrannazionale. Nasce in un contesto sottoforma di amore per una squadra: undici persone con la stessa maglia che, come un piccolo esercito, marciano compatti all’assalto del fortino nemico. Poi diventa di più. Diventa un contenzioso di linguaggi, un confronto – scontro di modus vivendi contrapposti. Fino a fare esplodere le contraddizioni, le rivalità geografiche, religiose, economiche.

Il tifo è la prosecuzione del calcio con altri mezzi. Tanto più estremo è il calcio, tanto più simile ai gironi infernali le categorie, tanto più viscerale si palesa l’attaccamento. E nasce la mentalità ultras. Nasce nelle strade, nei mercati notturni, nei centri sociali. Nasce nelle associazioni sportive, nasce nei rioni e nelle borgate. È una mentalità che invade, striscia, comunica. Che parla alla gente attraverso un lessico tutto sessantottino. Usa un linguaggio immediato e calzante, poetico ed ironico. La sua Commedia è lo striscione, la sua penna vergante la bomboletta spray, la sua musa cortese ed angelicata la maglia.

“Noi odiamo tutti. Il movimento ultras italiano attraverso gli striscioni politicamente scorretti” (editrice napoletana, La città del Sole) è il tentativo di studio più completo compiuto sul fenomeno negli ultimi anni. Merito di tre autori giovani ed appassionati, a loro volta immersi fino al collo (ed anche più su) nel modo ultrà nostrano: Vincenzo AbbatantuonoDomenico MungoGabriele Viganò. Tre sguardi tutto sommato simili eppure prospettive diverse. Stesse convinzioni, stesse conclusioni, stesse idee espresse. Stesso posizionamento lì, nel cuore della passione semimilitarizzata della curva domenicale. E stesso identico rispetto ed apprezzamento per quella semantica da stadio che popola ed incide più di quella da cellulare.

Il loro lavoro certosino assomma le caratteristiche somatiche del saggio a quelle della militanza. Il testo è politico (nel senso più autentico del termine) fin quasi all’estremo confine, spinto al limitare della guerriglia. Mente e cuori fusi in un unico composto, storia ed attualità del movimento come sociologia impeccabile. E quel titolo, “Noi odiamo tutti”, che ancor prima di essere un’intestazione è una dichiarazione bellicosa ed identitaria. La carta d’identità di una massa di soggetti che rigetta le istanze normative repressive e si schiera soltanto con il suo amore spassionato ed incondizionato. Un libro di fuoco.

Le curve italiane sono la materia prima della redazione di “Noi odiamo tutti”. Quella curva intesa come regno di idee e valori diversi dalle idee e dai valori accademicamente riconosciuti. A tratti eccessivamente mitizzata, eccessivamente nobilitata. Mai purificata, mai verginizzata. La cura degli autori è quella di mantenere i suoi tratti distintivi ed autogeni; di preservarne le peculiarità di nicchia. In curva tutto è concesso perché in curva il sentire democratico viene escluso. “La curva non è democratica, è meritocratica”. È sentire comune espresso per mezzo di uno, due, tre, colori. Che sono quelli di una maglia. Che si evolvono in quelli di una fede. L’immagine trasmessa dal libro è dello stadio come luogo mistico ed insieme popolare, intriso di misticismo ed insieme di una volgarità gratuità che, tutto sommato fa parte del gioco. Perché ogni cosa, fosse anche la più estrema, fa parte del gioco.

Il corollario di striscioni altro non è che l’espressività di quel volto pulsante. Lo striscione è il nervo, il muscolo, la ruga che si stampa in faccia al settore degli ultrà. Un modo per calcare la mano sulle tragedie, ingigantire i vizi della fazione opposta ed i vezzi della propria. Nello striscione la verità non è elemento peculiare. Lo striscione è stato generato con il chiaro intento di esagerare, come la perfetta sincronia di una bomba rabbiosa e di tenerezza smodata. La redazione di uno striscione è un atto che accomuna, una realizzazione sociale, una promozione. “Questi ragazzi [quelli che scrivono gli striscioni, ndr] sono geniali – si legge nel testo – dotati spesso di una vis poetica fra il Catullo innamorato o il Pasquino irridente”.

Per spiegare non servono teorie, ma fatti. Ed ecco una lunga sfilza si scritte vergate ad ogni latitudine, in ogni stadio, per sostanziare l’affetto in qualsivoglia serie. Perché la maglia, si sa, è sempre la maglia. E per gli ultras, è l’unico, solo, vero, grande obbligo.

Domenico Mungo – Vincenzo Abbatantuono – Gabriele Viganò, “Noi odiamo tutti. Il movimento ultras italiano attraverso gli striscioni politicamente scorretti”, La città del Sole 2010
Giudizio: 3 / 5 – Incendiario

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LINK 2: http://fabiocalcinaro.wordpress.com/2011/01/12/palloni-di-carta/

LINK 3: http://www.statoquotidiano.it/12/01/2011/palloni-di-carta-8/40113/

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Letterariamente Giro (rec. Il Giro d’Italia fra letteratura e giornalismo)

Nel 1909, in petto all’Italia liberale pulsava il cuore giolittiano. La Patria era una bella idea ma una realizzazione parziale. Non erano bastati i moti popolari, le camicie rosse di Giuseppe Garibaldi e le idee di Giuseppe Mazzini per far di una selva di gente un corpo civile omogeneo, una genìa nazionale. Si salmodiavano le gradi realizzazioni straniere, recitandone teatralmente atteggiamenti e successi. Insomma, lo sforzo del popolo e dei suoi governanti era quello di fare davvero la Nazione che mancava.

Di farla e, soprattutto, di farla conoscere. Diffonderla a quegli stessi attori sociali che avrebbero, a pieno diritto, dovuto conoscerne per lo meno già il copione. O almeno una parte del copione. O almeno il titolo dell’opera. O almeno dell’esistenza dell’opera. Ed invece, nel 1909, l’Italia era un essere informe, acefalo e senza arti. Incapace di camminare ed incapace di maneggiare.

È in questo contesto, in questo meltin’pot di emozioni, linguaggi, dialetti, emigrazioni, povertà, ricchezze, che produce il suo primo vagito una creatura destinata ad andare molto lontano. A camminare come poche. A percorrere la strada a piede nudo e con la sola protezione della gomma lavorata.
È il piccolo roseo volto del Giro d’Italia che sbuca fuori dal grembo di mamma Italia.
È con uno degli eventi sportivi più rumorosi del nostro Paese che si creano i presupposti – quelli veri, concreti, tangibili, diffusi, democratici – per il riconoscimento unitario.

Non a caso, la prima edizione del Giro si generò sotto la duplice e contemporanea azione di Gazzetta dello Sport e Touring Club Italiano (allora Touring Club Ciclistico Italiano) per mettere a fuoco la bellezza artistica e naturalistica del Belpaese. Onde poi evolversi sempre più decisamente verso nuovi lidi, strade asfaltate, fatiche minori. Occorsero tempi lunghi, servì l’intermediazione di due guerre, la caduta di atleti e la distruzione di città. Ci volle la crudeltà per scendere a patti con la bellezza.

Le sofferenze, i sogni, la forza. Tutto è raccolto nel prezioso testo curato da Angelo Varni “Il Giro d’Italia tra letteratura e giornalismo”. Si tratta della raccolta degli atti di un convegno (pubblicati dalla Bononia University Press) svoltosi nel 2009, in occasione del primo secolo di vita della corsa in rosa, promosso dal Comitato Nazionale per i cento anni del Giro d’Italia, dall’immancabile Gazzetta dello Sport, dalla Scuola di Giornalismo “Ilaria Alpi” di Bologna e dalla Fondazione Corriere della Sera. Undici interventi diversi, undici analisi, undici sguardi prospetticamente differenti per illustrare l’evoluzione ma anche le criticità del fenomeno ciclistico italiano.

Una collezione di interventi e di ricordi, grandangolo sulla storia spesso poco considerata dello sport italico e sui suoi riflessi sociali. Eppure sì che il Giro ed il girini hanno goduto, soprattutto all’indomani del secondo dopoguerra, di un’attenzione spasmodica, oppressiva, golosa di giornali e giornalisti. Un’attrazione al limite dell’erotismo informativo. Lo tratta benissimo Andrea Battistini, autore dell’intervento “A ruota libera”. Battistini discetta del Giro raccontato dagli scrittori e dalle peculiarità da questi introdotte nella narrazione. Dino Buzzati ed il suo ciclismo sognato, Achille Campanile ed il suo ciclismo ironico, Vasco Pratolini ed il suo ciclismo sociale, Alfonso Gatto ed il suo Giro sentimentale, Anna Maria Ortese ed il suo Giro problematico, malinconico ed intimista. Tanti cronachisti arrabattati ed improvvisati, alle prese con i disagi della competizione e degli spostamenti; profani sbalorditi dall’immersione nella polvere a tal punto da non volersene e potersene staccare. Nelle loro mani, il ciclismo trasla di senso e di figura. Da sangue e merda diventa lirica raffigurazione delle fatiche dell’uomo alle prese con l’ineluttabilità della vita. Si tramuta in una grossa sudata metafora della Natura e dell’esistenza. Imbrigliati nelle loro parole, i girini si trasformano magicamente in eroi popolari, epici, mitologici. Gli atleti sono novelli Ulisse, i narratori eccelsi Omero. E, come nell’epos greco, ecco prender forma i duelli, le battaglie, le amicizie, la morte. E mentre l’uomo si innalza, la Natura si antropomorfizza. La strada si antropomorfizza. Entrambe vestono le vestigia del nemico da sconfiggere.
E, senza nasconderlo, si trovano a parteggiare spudoratamente per questo e per quello. Ammiccano alla classe del campione ma amoreggiano con le fatiche del gregario; nei loro occhi campeggiano le immagini stentoree degli assi, ma è con i “proletari” del Giro che simpatizzano.

Nelle analisi dei vari saggisti raccolti da Varni, il ciclismo si lega inestricabilmente con il passato più eroico. Claudio Gregori, nella fattispecie, ardisce nel paragonare gli elementi caratterizzanti del Giro quelli del mito: epos (“i partenti sono come gli Argonauti”), seduzione (“Il Giro trasforma la cronaca in favola”), totemismo (“è bandiera nazionale”), commozione (“è dramma”), fede (“La salita è calvario ed ascensione”), canto (“Non c’è mito senza cantore”), educazione (“è lezione di vita. Ci trovi il dolore e la speranza, il sacrificio estremo e l’egoismo”), cavallo magico (il “destino” della bici “è il volo”).

Ma, come ogni carattere somatico, è destinato ad evolvere con la specie. Il quinto dito è stato rappresentato dall’avvento della televisione. Con la presa del potere mediatico da parte della scatola catodica, e la naturale e conseguente fine della diarchia carta stampata – radio, muore l’evocazione, la fantasia, la sorpresa. Defunge quell’aspetto cruciale che aveva fatto dei due elementi mediatici l’essenza stessa del ciclismo. La fatica immaginata, anche esagerata. Con le immagini, la mitizzazione si ridimensiona. Negli sforzi contenuti, gli eroi tornano sulla terra. Più uomini degli uomini, ma comunque uomini. In particolare, il “Processo alla tappa” di Sergio Zavoli (1964) ha dato il colpo di grazia all’immaginifico, pregiudicando mortalmente il costrutto epico del ciclismo. Ma, come ammette il seppur critico Aldo Grasso (in “Giro-girotondo: il Giro in tv”), senza la televisione “il ciclismo sarebbe solo una vecchia storia da raccontare”.

Fatta di strade sventrate dalla guerra. Eppure sono state quelle carovane colorate di maglie rose, di Coppi, di Bartali, di Chiappucci, di Bugno, di Indurain, di Pantani, di soprannomi funambolici ad evitare la noia catodica. Ed è la connotazione originaria che impedisce al Giro, malgrado la tv, di conformarsi sugli standard dei reality, di assuefarsi alla malattia delle produzioni Endemol, a rigettare pacchi da aprire ed identità da individuare. Perché al centro resta la bicicletta, quel mezzo livellante che ha rappresentato la prima forma di moto libero, divertimento borghese ed utilitarismo proletario (Alberto Malfitano). Malgrado il doping, malgrado la sovresposizione. Malgrado la televisione.

INTERVENTI. “A ruota libera. Gli scrittori al Giro d’Italia” – Andrea Battistini; “Letteratura e ciclismo” – Ezio Raimondi; “Giro-girotondo: il Giro d’Italia in tv” – Aldo Grasso; “Miti ed epica al Giro” – Claudio Gregori – “L’immagine del ‘campione’ nella costruzione giornalistica” – Alberto Preti; “I primi giri e il racconto del territorio italiano” – Alberto Malfitano; “Il racconto del Giro nei primi decenni del ‘900” – Claudio Santini – “Le cronache del Corriere e della Gazzetta tra fascismo e dopoguerra” – Giuseppe Savini; “La stampa meridionale al Giro d’Italia” – Francesca Canale Cama; “Il mutarsi del racconto giornalistico di fronte all’avvento della televisione” – Mirko D’Adamo; “Gli effetti della cronaca televisiva” – Mario Proli

ANGELO VARNI (a cura di), “IL GIRO D’ITALIA TRA LETTERATURA E GIORNALISMO”, BONONIA UNIVERSITY PRESS, 2010
Giudizio: 4 / 5 – Storia

Il calcio in camicia nera (recensione de “Il calcio e il fascismo” – Simon Martin, Mondadori 2007)

Simon Martin, "Il calcio e il fascismo", Mondadori 2007

Simon Martin è ricercatore alla British School of Rome. Tre anni fa ha dato alle stampe questo libro, “Calcio e fascismo”, edito da Mondadori, in cui, attraverso una documentazione accurata ed ampia, tratta esaustivamente l’argomento. Un saggio storico che risponde ad ogni crisma della ricerca ed in cui, accanto al trinomio, “Fascista – quaderno – moschetto”, l’autore ne pone un secondo: “Fascismo – sport – monumentalità”. Certo, perché il calcio, oltre ad essere uno sport di squadra, è ciò che scompagina i rapporti o che li sedimenta. E se il calcio è socialità, lo stadio è il fulcro della vita sociale intessuta attorno alla matassa sportiva.

Ecco perché, durante il Ventennio, lo sport nazionale assunse un’estetica che varcò la semplice rappresentazione del campo. Il fascismo, ed in particolar modo i vari ras locali, guerreggiarono tra di loro per cantierizzare il campo sportivo più rappresentativo, nel medesimo istante istanza sportiva e voluttà politica. Bergamo, Bari, Bologna, Firenze, Roma, Verona: lo sport si risciacquò nelle vasche di palazzo Venezia e ne uscì adornato di simboli e di statue, vestito di marmi e lastricato di ideologia. Gli stadi assunsero la forma di teatri, si dotarono di torri e di tribunette d’onore. In giro per l’Italia, i fasci locali si affaccendarono nel dare il nome del Capo a questa o a quella parte della struttura. Il popolo come parte integrante dello spettacolo, romanizzato nell’idea del panem et circenses, gli artisti – in primis i futuristi – tutti presi ad inseguire la nuova tendenza di massa.
Martin affronta molti altri temi. La competizione sportiva che si commuta in uno spintonarsi politico per occupare la fila dirimpetto al Duce, la questione degli Oriundi, vecchio e nuovo pallino delle Federazioni di ogni tempo. Perché, insomma, il calcio non è solo sport. È molto di più.

SIMON MARTIN, IL CALCIO E IL FASCISMO, MONDADORI 2007

Link: http://www.statoquotidiano.it/29/12/2010/palloni-di-carta-6/39575/

E adesso pedala (Recensione de “La mia prima bicicletta” – Ediciclo 2010)

AA.VV, La mia prima bicicletta, Ediciclo 2010

Trentuno come il padrone di casa per la smorfia. Trentuno, come i giorni massimi incastonati nella pagina di calendario di un mese. Trentuno come le storie racchiuse in “La mia prima bicicletta”, un manualetto edito da Ediciclo. Racconti. Macchè racconti, ricordi. Macchè ricordi, memorie. O ancora pensieri, sfoghi, filosofie, confessioni, retroscena. A volte confusi con gli attimi, sedati dagli anni, assopiti dal tempo. Altre volte perfetti come la luce folgorante, vividi come un soffio di tramontana preso in piena faccia.

Trentuno piccoli aneddoti. Trentuno: a ben pensarci, uno al giorno. Uno a sera. Da cavalcare liberamente, senza troppa concentrazione, senza troppi pensieri. Per lasciarsi andare al flusso dell’infanzia, per diventare l’ala di una rondine in perfetto equilibrio con l’aria da fendere, per sommergere le fatiche sotto le braci calde e consolanti di una passeggiata in campagna. Affidandosi all’acciottolare delle pietruzze al di sotto dei pneumatici della bici. Per la precisione, della prima bici.

Rossa, arancione, azzurra, bianca. Un sunto di tutti i colori del mondo, le prime due (tre, quattro) ruote personali sono la chiave per l’accesso alla prima grande, immane emozione vitale. Con l’epifania in quell’attimo supremo, sommo, dello stacco. Mano del papà che si stacca dal sellino del figlio. Un librarsi, un planare, un piccolo grande volo nella vita, lo sfondamento delle porte della consapevolezza dei propri limiti e delle proprie grandezze.

Paolo Colagrande, Maurizio Crosetti, Margherita Hack, Gianluca Morozzi, Gianni Mura, Darwin Pastorin, Paolo Rumiz, Susanna Tamaro, Wu Ming2. Tanti autori ed altri ancora. Giornalisti, scrittori, medici, interlucori con il foglio della propria personale e singolare esperienza. Redattori di un dizionario delle emozioni infantili; orchestrali della sinfonia del sogno, sgranatori del Santo Rosario della magia della bicletta.

Non già professionisti del pedale, quindi, ma partecipi di un destino che è destino d’amore. Tutti innamorati della meccanica del cammino, del progredire nel vento, della locomozione pulita e faticosa, del lavorio degli arti. Per questo, il loro scrivere non riassume un fine letterario, ma è respiro, è affanno, è vita quotidiana, è pioggia presa in dosso, è sabbia respirata a pieni polmoni, è sole inghiottito con i sensi. È pedale e freno.

Quando “ogni colpo di freno era come un no. È il no che forma. Il si parteggia, è acquiescenza, acquisizione, comunione, è sibilante, aderente. Il no è dialettica, identità, individua chi sei […] La vita comincia con un no. Con il primo respiro, la prima violenta, feroce boccata d’aria appena usciti dal grembo materno. È un no che dice non voglio morie, voglio essere, esistere, non annullarmi”.

La bici non è ciclismo, è movimento, è voglia di affermarsi. Voglia di essere. E di esserci. Se cercate conferme, qui ne avete trentuno.

AA.VV. “LA MIA PRIMA BICICLETTA”, EDICICLO 2010

Giudizio: 4 / 5

LINK SU http://www.statoquotidiano.it/15/12/2010/palloni-di-carta-4/38951/

Scalare la vita a forza di pedalate (Recensione de “Ubu in bicicletta”, Alfred Jarry, Piano B 2009)

“Un prolungamento minerale del nostro sistema osseo”. Alfred Jarry applica la filosofia della bicicletta ad ogni aspetto della vita umana. Una filosofia, appunto. Ovvero, un modo di essere, di pensare. Per farla breve, un’ideologia. La continuazione in altra lega, che sia acciaio o titanio, dell’energia, della forza fisica e dei quella morale, del respiro, dell’esistenza. Uno svago per abbandonarsi placidamente agli ozi naturali della Francia ottocentesca e sistema metrico per la misurazione degli eventi storico – religiosi. Perché tutto è sintetizzabile in quella porzione di moto a due ruote e sellino che è la bici.

“Ubu in bicicletta” (Piano B Edizioni) è una raccolta di undici racconti dal sapore agrodolce. Stipiti di antiche leggende e ataviche credenze, sgabuzzini di un mondo lontano ed ingiallito. È un album di foto d’epoca, un viaggio nel tempo condotto a forza di pedalate. Salite e discese, falsipiani e pianure. Leggendo Jarry, si entra nel suo mondo, ci si trova talora vestiti di abiti scuri, altre volte sudati come al culmine di un’impresa. Scalandone le pagine, con i racconti come traguardi volanti, non si smette di stupirsi, di assuefarsi ad un libro breve, rapido, fulgente, veloce. Un libro che dà allucinazioni, che sorprende e che mai annoia, che pretende concentrazione ed insieme impone svagatezza. Burlesco, più che altro. Al limite dell’allucinazione.

E se anche il racconto della Passione è trasponi bile nella figurazione di una scalata, racchiudibile nelle copertine di una piccola grande metafora ciclistica della vita e della morte, allora Jarry non può che essere annoverato nella schiera dei geni. Gesù corridore e la croce la sua bicicletta legnosa, Pilato starter, la Veronica fotografa, Simone di Cirene gregario, Maria spettatrice: ognuno parte di un grande tutto. Un tocco di scrittura folle ed esaltante, ironico e felicemente ricercato.

Tanto singolare quanto leggibile. E tanto leggibile quanto rapido. Da leggere e rileggere.

ALFRED JARRY, “UBU IN BICICLETTA”, PIANO B EDIZIONI 2009

Giudizio: 4 / 5

(appuntamento numero 2 della rubrica di STATO QUOTIDIANO “Palloni di carta” http://www.statoquotidiano.it/01/12/2010/palloni-di-carta-2/38164/#comment-3903)

LINK SUL SITO DELLA PIANO B http://www.pianobedizioni.com/rassegnastampa.aspx

“Storie di pugni”. Jack London si dà allo sport

Jack London, "Storie di pugni", Piano B edizioni 2010

“Questa gara tra uomini con guantoni imbottiti non è qualcosa di superficiale, una moda del momento o di una generazione (…) È qualcosa di profondo come la nostra coscienza ed è radicato in ogni fibra del nostro essere. È cresciuto come è cresciuta la nostra lingua. È un’istruttiva passione di razza (…) È il richiamo della scimmia e della tigre dentro di noi, credetemi. Questo istinto è chiuso in noi come un uomo in carcere. Non possiamo scinderlo da noi (…) Ci piacciono le sfide: è la nostra natura”.

Una natura da combattimento, da lotta, da ring. Una ritualità antica come il desiderio di vittoria, come la voglia di non soccombere. La boxe, quell’insieme di attimi in cui uno di più può risultare fatale. Lo sport delle regole e della forza, muscoli aperti al vento, scoperti di fronte ad altri muscoli, compattati in un muro fibroso di resistenza fisica, morale, intellettiva. Uomo contro uomo, un fronteggiarsi di ideali, di esigenze, di vissuti. Storie dentro e fuori il quadrato che si contrastano e si confondono nel sangue e nelle gocce di sudore, negli spasmi di dolore e nell’annebbiamento encefalico.

Sporca e tosta, la boxe è la vita che entra nell’agonismo. Ci hanno provato in tanti raccontarla. Jack London c’è riuscito. La Piano B, casa editrice toscana, ha messo insieme quattro sue storie: racconti e testimonianze giornalistiche. Un amalgama di reale e di creatività; un intrecciarsi pulsante di ribellione e arresa, un avvicendarsi rutilante di forze e debolezze.

“Storie di pugni” è mal di bicipiti, è un montante nello stomaco, un dolore nel cervello. “Storie di pugni” è la sintesi dei colpi presi in pieno volto, è il sangue che vola sul tappeto, il setto nasale che si maciulla sotto la pressione dei guantoni. “Storie di pugni” è una letteratura che non va in clinch, cui non occorre appoggiarsi su altro che su sé stessa, che non chiede pause al tempo, ma sul tempo si impone con il suo vomitare crudo e secco. Con il suo linguaggio sporco, i suoi scenari impregnati di fumo.

Ed il Jack London che vi si scorge è lo scrittore delle tematiche forti, un documentatore sociale più efficace di una video camera, più incisivo di una lama nella carne. Il London di “Storie di pugni” è il pungolo costante della coscienza. Nei primi tre racconti cozzano dicotomie tutte afferibili all’incedere della storia umana: politica contro affare, vita contro morte, fame contro gloria. Finanche, amore contro amore. “Il messicano”, “Una bistecca”, “Il gioco”, sono tre enzimi che innescano l’inevitabile reazione emozionale. Uno stantuffo sentimentale, con le emozioni che incedono di pari passo con quelli dei protagonisti.

Pietre grezze, mai affinate. Lavorate al massimo del minino.
L’inedito “Il match del secolo” è il colpo finale. Si tratta di un lungo reportage, dieci giorni di investigazione intima e nel contempo riflessione sportiva dell’autore, condotto da London nel 1910, anno in cui venne inviato dal New York Herald per seguire lo scontro fra il pugile nero Jack Johnson ed il bianco James Jeffries. Il match del secolo, appunto. In teoria destinato a fare epoca, in pratica una formalità per l’imbattibile Johnson. L’opposizione fra due mondi discostati, razze umane che si giocavano il primato nell’unica maniera incisiva: combattendo.
Gemma.

JACK LONDON, STORIE DI PUGNI, PIANO B 2010
Giudizio: 4 / 5

LEGGI SU http://www.statoquotidiano.it/24/11/2010/palloni-di-carta/37775/

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