“Non appartengono al nostro popolo”, l’ira della gente contro gli aguzzini

(di Silvia Todeschini, il manifesto, 17 aprile 2011)

Vittorio ormai considerava Gaza come la sua casa. Aveva in programma di andarsene il mese scorso, e poi imbarcarsi nella Freedom Flotilla, ma non se la sentiva di abbandonare il posto a causa delle recenti aggressioni delle forze d’occupazione israeliane: in meno di un mese sono stati ammazzati più di 40 palestinesi, tra cui due donne mentre preparavano il pane e bambini che giocavano a calcio. Mercoledì sera Vittorio era andato in palestra. Dopo la palestra alle volte andava a mangiare in una trattoria. Aveva prenotato la cena per le dieci. Non vedendolo arrivare, hanno provato a chiamarlo, il suo cellulare era spento. Non si sono preoccupati, perché spesso Vittorio spegne il cellulare, quando vuole lavorare o quando vuole stare da solo. Nessuno lo ha più sentito da quel momento in poi. Alle 8 di giovedì sera i suoi compagni dell’Ism hanno ricevuto la notizia del suo rapimento. Alle 3 di notte la notizia del ritrovamento di un corpo. Ancora non sapevano se fosse il suo o quello di qualcun altro, fino a che non sono stati portati sul posto e lo hanno visto, steso su un materasso a pancia in su. Aveva un stringa di plastica stretta attorno al collo e la faccia molto gonfia. Presentava del sangue dietro la nuca, forse per dei colpi subiti, e profondi segni ai polsi per le catene o lacci che lo tenevano legato. I piedi erano accavallati e le braccia lungo i fianchi. Aveva ancora addosso la benda visibile nel video, leggermente sollevata per renderlo riconoscibile.

«Restiamo umani», diceva Vittorio, per non perdere la tenerezza di fronte alla barbarie. Ci vuole una grande forza per restare umani, certe volte, Vittorio. Giovedì sera, quando si sapeva solo del sequestro, alcuni giovani di Gaza avevano organizzato una manifestazione per chiedere il suo rilascio, pianificandola per il venerdì alle quattro. Essa si è trasformata poi in una marcia commemorativa. I palestinesi cantavano melodie tradizionali, alternando canzoni che parlavano della loro terra con «bella ciao» perché era stato Vittorio ad insegnarla ad alcuni di loro. Diverse centinaia di persone hanno partecipato, moltissimi amici, e molti che non lo conoscevano, individui che raccontavano di non averlo mai visto, ma che era una grande perdita ed erano sconvolti, che chi ha commesso questo crimine non rappresenta il popolo palestinese in nessun modo che si vergognano per quel che è successo. Spiegavano che i salafiti, e la loro lettura perversa del corano, sono pochi, isolati, e crudeli: loro non li considerano palestinesi. Sabato è stata allestita una tenda per dare la possibilità di portare le condoglianze, come è tradizione in Palestina. Su un lato, sono stati appesi un centinaio di messaggi in arabo e in inglese: uno recitava: «Tu eri gazawi (cittadino di Gaza) e quelli che ti hanno ucciso non hanno mai capito quanto eri prezioso! Questa gente non è palestinese».Uno era dedicato a sua madre: «Mamma, grazie di aver portato Vittorio in questo mondo. Mamma, per favore perdonaci per non essere stati capaci di proteggere Vittorio!». Un altro era firmato dal PSCABI, Palestinian Student Campaign for the Academic Boycott of Israel: «La Palestina ha perso un figlio, noi un fratello. Eri di ispirazione per noi, ci hai insegnato come essere uomini liberi. Vittorio è un palestinese ed un combattente per la libertà! Riposa in pace, compagno!». Le manifestazioni continueranno anche oggi, per concludersi con un convoglio di macchine che accompagnerà la salma al confine con l’Egitto quando sarà il momento. «Se io muoio non piangere per me, ma fai quello che facevo io e continuerò a vivere in te», scriveva Che Guevara. Nena News

Comunicato stampa cooperanti ed amici di Vittorio Arrigoni in Palestina e nota di Gianni Minà

L’assassinio di Vittorio Arrigoni non sia inutile. Sembra di vivere in un incubo. Come spesso succede in Palestina, quando sembra che il peggio sia già accaduto, ci riferiamo all’inspiegabile uccisione di Jiuliano Mer Khamis a Jenin, il limite dell’orrore si sposta ulteriormente in avanti.
Esprimiamo tutta la nostra sincera vicinanza alla sua famiglia, ai compagni dell’International Solidarity Movement e a tutti coloro che hanno avuto modo di conoscere Vittorio, soprattutto nel corso degli ultimi anni, in cui nella Striscia di Gaza è stato un costante riferimento per tutti noi.

Nel dicembre 2008, unico italiano, decise di rimanere al fianco della popolazione di Gaza durante l’operazione Piombo Fuso, il massacro perpetrato dall’esercito israeliano che ha provocato circa 1.400 morti in meno di un mese. A questo si è aggiunto un lavoro quotidiano di responsabilità e grande umanità, accanto alla popolazione di Gaza, sottoposta alla punizione collettiva e ad un assedio illegale e brutale da parte del governo di Israele. Vittorio si è anche distinto per un eccezionale lavoro di documentazione delle quotidiane violazioni dei diritti umani della popolazione palestinese, oltre alle attività di interposizione fisica e di accompagnamento dei pescatori e dei contadini di Gaza, impossibilitati a pescare e a lavorare le proprie terre.
Oggi in diverse città della Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono in corso manifestazioni pubbliche per ricordare Vittorio e per chiedere che la legalità venga riportata nella Striscia di Gaza, per una giusta pace e per la liberazione della popolazione dal brutale assedio a cui è sottoposta ormai da quattro anni.

Siamo accanto ai palestinesi di Gaza e li ringraziamo della commossa solidarietà che ci dimostrano in queste ore, loro prime vittime e spettatori sgomenti dell’accaduto e primi orfani di questa voce che negli ultimi anni è stata la loro voce e la loro più diretta testimonianza.
Invitiamo l’opinione pubblica a non operare la solita banale equazione, fuorviante e controproducente tra palestinesi, terroristi, islam e fondamentalismi. Che questo sforzo di comprensione e di analisi dell’accaduto sia anche un segnale di dovuto rispetto alla memoria di Vittorio stesso, che con il suo lavoro di solidarietà incondizionata ha dimostrato come il sentimento di umanità non ammetta discriminazioni legate alle fedi religiose o alle appartenenze culturali e politiche.
Facciamo appello alle autorità responsabili nella Striscia di Gaza perché facciano luce sull’accaduto.
Ci aspettiamo che la comunità internazionale eserciti pressioni affinché questa ennesima tragedia non serva a giustificare un ulteriore accanimento sulla popolazione civile di Gaza da parte delle autorità israeliane. Chiediamo anzi che oggi piu’ che mai la popolazione di Gaza non venga abbandonata al suo isolamento, vittima inerme delle aggressioni militari, ma anche delle faide interne tra fazioni che assolutamente non la rappresentano.

Le ONG italiane continueranno a garantire il loro impegno nella Striscia di Gaza, come fanno ormai da tanti anni, per sostenere le necessità della popolazione, per rafforzare le componenti della società civile impegnata quotidianamente nella difesa della dignità e dei diritti umani, per promuovere i principi della pace e della solidarietà internazionale, come ha fatto Vittorio negli ultimi anni della sua vita.

RESTIAMO UMANI

Cooperanti e amici di Vittorio italiani in Palestina

______________________________________________________________

Mi sgomenta l’esecuzione di Vittorio Arrigoni, un pacifista vero e un collega che rischiava per far conoscere tante verità nascoste su quello che è successo e succede a Gaza e che l’informazione italiana, e in generale occidentale, nasconde, non solo perchè non sa interpretarla, ma perchè non è certo trasparente la gestione delle operazioni militari fatta sul posto anche dal governo israeliano.

Mi addolora poi che fino al momento in cui scrivo le parole più sentite le abbia espresse il Presidente della Repubblica, che ha ricordato anche le tante contraddizioni e violenze che negano il riscatto del popolo palestinese. Ci sono tanti ragazzi come Vittorio che rischiano per nobili ideali, e qualche volta cadono. Vorrei dire ai nostri pavidi politici che ignorarli non risolverà la loro mancanza di chiarezza.

Gianni Minà, Latinamerica, 15 aprile 2011

Vik, l’anti eroe

Forse, delle tante circolate, la frase meno appropriata su Vittorio Arrigoni è una circolante sul socialnetwork facebook. Sulla foto di Vik, kefiah e cappello, aria navigata da Corto Maltese grunge, campeggia la dicitura “orgoglio italiano”. Un appellativo che, di questi tempi, non può certo essere considerato un bel complimento. A targhe alterne, sono francobollati indistintamente come eroi della Patria, martiri della giustizia, portatori di pace, eroi civili figuri che, con questi principi, hanno ben poco a che vedere.

Meglio, allora, mantenere distinti i campi. Vik è Vik. Un marinaio volontario e generoso, né lupo né pecora. Un uomo, non certo un eroe. Tutt’altra cosa, Vik, dagli eroi. La sua tempra era quella del buono. Nelle immagini che lo ritraggono sorride sempre, si accompagna agli ultimi, ai cuccioli degli ultimi, alle macerie degli ultimi. Vittorio Arrigoni, “Capitan Findus”, come lo aveva ribattezzato il giornalista de il manifestoMichele Giorgio, aveva fatto una scelta di civiltà. Nel senso che si era posto dietro la trincea della giustizia con, in testa, soltanto l’elmo della verità. Indosso, la casacca dell’apolide.

Vik, dalla Striscia, aveva raccontato il massacro dell’operazione “Piombo Fuso”. L’unico. E da non giornalista, per giunta. Segno che non occorrono distintivi di categoria per raccontare la verità. Nessuno, in Europa, poté vedere quello che l’esercito sionista, con l’appoggio degli Stati Uniti, stava infliggendo ai civili palestinesi. Da quelle giornate sotto le bombe, a contatto con il fosforo bianco, l’esfoliante dell’umanità, che brucia dall’esterno per disintegrare l’interno, da quelle corrispondenze giornaliere, venne fuori Restiamo Umani. Un testo storico, tradotto in spagnolo, inglese e tedesco. Un Vangelo secondo Giustizia.

Vik era un palestinese. Dalla Striscia non poteva che andar via così, chiuso in una bara. Gaza lo aveva adottato. E lui aveva adottato Gaza. Le sue corrispondenze giornaliere, diffuse via rete attraverso un blog crudo e preciso, narravano di una cronaca ben diversa da quella ufficiale. Con il globo impegnato a voltare le spalle alla decenza, Utopia raccontava di bambini massacrati, di bombardamenti, di violazioni dello spazio aereo. Sempre con la sua fugace rapidità essenziale, con quello spirito laico e semplice che gl’impediva di vestire l’armatura del crociato senza macchia. Con i suoi racconti delle giornate dalla Striscia, Vik si era procurato l’indignazione del mondo intero. Nel 2009, un sito di estrema destra americano, evidentemente sotto il controllo dell’Aipac, la lobby israeliana del Paese di Barak Obama, aveva posto sul suo capo una taglia. Lo volevano morto. Lui, che non è morto nemmeno ora.

Vik era arrivato a Gaza appena un anno prima queste minacce, nell’unico modo possibile: violando il blocco navale israeliano sulla Striscia. Venne catturato dall’esercito di Re Davide, rispedito in Italia. Si rimise in mare solo dopo qualche pugno di giorni, con tutta la sua folle sagacia che, fino all’ultimo, ha fatto di lui un utopista concreto. Da allora, un amore fedelissimo. Un amore da “finché morte non vi separi”.

Lo hanno ucciso, pare, i salafiti. Una costola ribelle ed inquietante di Hamas. Si dice. Vik, di Hamas, era considerato un fiancheggiatore. In verità, fuori dal linguaggio complottistico in uso presso i vigliacchi, Vittorio Arrigoni appoggiava apertamente Hamas. In epoca ed a latitudini di presunta democrazia, l’Occidente, l’anomalia della Striscia è palese. Gaza patisce la fame, un embargo che sottrae ai palestinesi medicine, cibo, beni di prima necessità, cemento per l’edilizia (le case crollano, sotto le bombe, molte sono ridotte a groviera che, in confronto, Mostar pare il Paese dei Balocchi), finanche le pericolosissime matite colorate, per aver, nel 2006, votato in maniera sbagliata, dando il consenso proprio ad Hamas contro i fantocci di Fatah. Inutile dire che, qualora il Sudan, Cuba o l’Iran avessero anche soltanto tentato un’alleanza di Nazioni per buttar giù, a suon di armi, il governo degli Stati Uniti, o di Israele, governi regolarmente eletti, la comunità internazionale avrebbe gridato all’attentato alla democrazia, affisso al muro dell’attualità manifesti roboanti di persecuzione, pericolosi terrorismi politici e religiosi in rinascita, dannosi Lazzari che si sono alzati per camminare contro il mondo civile con un rigurgito di bolscevismo.

Vik, alla storiella dell’estremismo islamico, non ci ha mai creduto. Presumibilmente, non ci credeva neppure con quella benda che, sugli occhi, gli raggrumava il sangue. Presumibilmente, neppure quando, negli ultimi sussulti della vita che volava, strangolata, aveva contezza della fine. Chissà, poi, se davvero è quel che sembra. Chissà se, sul serio, dietro le mani che gli serrano i capelli, i fucili spianati, le corde mortali, le bandiere nere del fascismo islamico che garriscono con sottofondo musica inquietante, ci sono questi sedicenti gruppi. Salafiti o altro che siano. Al soldo di sceicchi. O di eserciti stranieri.

In quelle scene, diffuse in tutto il mondo, Vik era fedele alla sua umanità. Restava umano, impaurito come un umano. Sapendo, a differenza di Quattrocchi, che un italiano muore al pari di un palestinese, di un finlandese, di un cileno, di un coreano: con la paura negli occhi e lo spavento nel cuore. Per questa vita così breve ed abbagliante, messa a servizio di un’idea non fine a se stessa, della verità assoluta e rombante, come una moto nel mezzo del deserto. No, Vik non era, non è un orgoglio italiano. Non può esserlo. L’orgoglio delle pistole puntate contro i padri, l’orgoglio delle feste con cori ed Osannah agli imputati sulla soglia dei tribunali, l’orgoglio di comparse e di puttane, di nani e ballerine, di ragazze pittate come vecchie baldracche per spillare un soldo di più vendendo un grammo di dignità all’offerente di turno. Non per forza al migliore. No, Vittorio non era, Vittorio non è orgoglio italiano. Vittorio è Vittorio. Prima, un umano. Ora, un cadavere.

Chomsky, Pappé, l’urlo di Gaza

Non solo le nubi oscure dello strangolamento di Vik Utopia Arrigoni. Nei cieli di Gaza, la nuvola nera della morte scroscia pioggia di dolore da un pezzo. Dire vita, nella Striscia, significa diremorte, nella Striscia. E la vita, nella zona più densamente abitata del mondo, 1.400.000 abitanti costretti da fili spinati, barriere, posti di blocco, aviazioni, carri armati, varie ed eventuali, in appena 360 km2, scorre veloce. Tanto che, vista dal treno dell’arroganza, dell’oscurantismo internazionale, della dis-conoscenza delle responsabilità, appare normale. Ma non lo è. Nella lunga e tortuosa cavalcata lungo il binario mediorientale, curve della Storia, salite e discese, interruzioni di linea, ponti crollati e poco carburante, gli accordi di pace falliti come stazioni di una Via Crucis di sangue, emblema di una crocifissione che ha inchiodato al legno decine di migliaia di vittime civili, di vittime bambine, arrestando il tempo in una Polaroid lancinante. Ebbene, in questo lungo correre, l’ultima fermata è Gaza. Casupola diroccata senza neppure la biglietteria. Farebbe lo stesso: nessun controllore ne accetterebbe la validità. Gaza è la stazione fantasma, spersa nella nebbia del mattino spettrale ed atroce.

Ma dagli altoparlanti, bucano l’aria le parole forti di Noam Chomsky ed Ilan Pappè. Sono loro due, il grande linguista e l’esimio storico, gli autori di “Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi” (ottimo lavoro dell’editrice Ponte alle Grazie, timbrato 2010). E le loro voci, autorevoli, sono ben diverse dalle metalliche e fisse riproduzioni computerizzate delle stazioni moderne. Chomsky e Pappé non recitano copioni già scritti, non ripetono all’infinito ed all’unisono quel che il passeggero vuol sentirsi dire, la previsione di un tragitto rassicurante, stazione dopo stazione, fino alla destinazione prefissata. No, Chomsky e Pappè ripercorrono, in maniera diversa ma complementare, come due rette parallele, identiche ma con l’incontro fissato alla fine dei tempi geometrici ed umani, il viaggio a ritroso. Attraverso una storia cosparsa di giudeizzazioni forzate, vecchie pretese bibliche e teologiche, pulizie etniche, ragioni che non sono ragioni e non lo sono mai state. No. Sono loro, Chomsky e Pappé, contro ogni volontà dei paganti, a decidere il percorso e l’approdo. Prendono in mano il treno e lo frenano nelle stazioni che loro stessi decidono. Nel tempo: 1947 – 1967 – 1982 – 1993 – 2006 – 2007 – 2008 – 2009. Nello spazio: Camp David, Oslo, Gerusalemme, Ramallah.

Ed ecco comparire, chiari, i paesaggi devastati, gli “errori” di valutazione dei missili, le guerre lanciate dal potente contro una massa di civili male armati e destinati al macello, le risoluzioni violate. Si schiude un mondo identico a quello vero, ma letto attraverso le cristalline lenti della giustizia, della verità. Lenti senza ditate e graffi, che rovesciano la sostanza, non la forma. Perché quando Stati Uniti ed Israele, soli, a braccetto, nel 2008, si oppongono alla risoluzione Onu per il “diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese”; e se ancora loro, ed ancora nella stessa seduta, votano contro una risoluzione per “la libertà universale di viaggio e la vitale importanza del ricongiungimento familiare”; e se Usa e Zimbabwe, guarda caso sempre nella stessa identica seduta, sono gli unici stati al mondo a votare contro la moratoria al commercio delle armi; e se, infine, clamorosamente nella stessa assise, gli Stati Uniti, in beata solitudine decidono di opporsi al “diritto all’alimentazione”, e se, facendolo, hanno contro l’intero mondo conosciuto, allora si rovescia la teoria dell’egemonia. Ed anche quella dell’isolazionismo di Hamas. Perché ad essere isolati sono gli aggressori, non gli aggrediti.

Con lucide analisi (Chomsky) e dotazioni fattuali (Pappé), i due autori danno corpo ad un autentico manuale della verità, un lungo ed involontario pamphlet, dalla forza di un fiume in piena che tracima gli argini e dilaga fin nell’anima di chi legge. Un libro che è sfacciatamente politico, spudoratamente di parte. Quella giusta.

Noam Chomsky-Ilan Pappé, “Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi”, Ponte alle Grazie 2010
Giudizio: 4 / 5 – Per restare umani