Foggia, resisti – canto di-sperato di un foggiano fuori sede

Foggia resisti. Sali sulla montagna della giustizia, sui picchi della reazione, dell’orgoglio, esci dal fondo più fondo dove ti hanno gettato, risali la china. Foggia non morire.

Foggia resisti. Caccia fuori le unghie, tra fuori tutto quella forza di cui sei capace, riappropriati della dignità che era dei tuoi braccianti, dei tuoi ferrovieri, dei tuoi bibliotecari coraggiosi. Foggia resisti. Isola i delinquenti, i farabutti, i criminali, torna a fare società, metti al bando chi si vanta di essere ignorante, rigetta chi si bea di amarti ed invece di odia.

Foggia resisti. Scuotiti di dosso la polvere della paura, rispondi alle bombe con un’esplosione di gioia e di voci, con un trionfo di colori e di energia.

Foggia resisti, buttati per strada, occupa gli spazi, sentiti sempre nel posto giusto al momento giusto, viola le zone rosse del terrore, riannetti i quartieri, le periferie, il centro, sbianca tutte le zone grige, illumina i coni d’ombra, inonda della purezza dei bambini e degli anziani la violenza, fino a soffocarli. Foggia reagisci. Protesta contro chi ti mette agli ultimi posti di tutte le classifiche, ma fallo costruendo palazzi senza soffitti, che guardino al cielo. Foggia organizzati, reclama quello che ti spetta, pretendi di partecipare alle decisioni, ribellati alla bruttura del cemento e della spazzatura.

Foggia resisti. Non fare finta che attorno a te non ci sia che la tua ristretta cerchia di amici, familiari, colleghi. Foggia sindacalizzati, Foggia risvegliati.

Foggia, per una volta non accontentarti di perdere di misura o di pareggiare facendo catenaccio in attesa dell’acquisto che non giungerà mai. Foggia, vinci.

Donne e ‘scritte’, tutti i misteri dell’inchiesta Marcone

da Stato Quotidiano

Il manifesto. In alto a sinistra, in rosso, la scritta (St)

Foggia – ALLE VOLTE basta un segnale per poter mutare il corso degli eventi. Chissà se si tornerà a metter mano a un romanzo che le cronache giudiziarie non hanno scritto ancora del tutto.

Francesco Marcone, per la città di cui è figlio semplicemente Franco, morto ammazzato nel portone della propria abitazione di Via Figliolia a Foggia nel marzo del 1995, la parola fine non la conosce ancora. E’ una vittima. Anzi, stanti i riconoscimenti, è la vittima delle vittime del capoluogo dauno. Medaglia d’oro al valor civile, per il Direttore dell’Ufficio Registro. Caduto sul lavoro, matrire. Semplicemente, come lo perpetua sua figlia Daniela, un “testimone”, staffetta di onore, figura di riferimento, cardine assoluto, baluardo morale.

I MISTERI – La storia processuale di Marcone è uno zero angosciato ed angoscioso. Quasi dieci anni d’inchiesta e mai nessun colpevole. Tutti partecipi, tutti coinvolti, tutti immischiati, ma nessun mandante, nessun esecutore. Soltanto l’armatore. Raffaele Rinaldi, ex impiegato dell’Ufficio del Registro. Per i giudici, verosimilmente dalle sue mani è partita la pistola che ha ammazzato Marcone. E che nel 1993, misteriosamente, ha sparato contro la porta di uno dei suoi superiori, Stefano Caruso, ombrosa figura, sfumata apparizione della vicenda. Ma Rinaldi muore in un mai chiarito incidente stradale, sbalzato dalla sua moto mentre, ai domiciliari, scorrazzava libero per il Gargano.

La chiusura dell’inchiesta è giunta per stanchezza. Troppe secche, troppo fango, difficile avanzare oltre. Il Giudice per le Indagini Preliminari, Lucia Navazio, dovette arrendersi al decesso di Rinaldi, ultima ruota del carro di coda, colui che, su di sé, fu designato per attirare l’attenzione della magistratura. Ma l’archiviazione disse molto di più. Anzi, le motivazioni auspicarono una veloce riapertura del caso, alla ricerca della verità.

IL MANIFESTO FUNEBRE – E che il caso Marcone non sia solo uno scarabocchio nella storia recente di Foggia, lo dimostra la scritta, misteriosa, apparsa su un manifesto funebre negli ultimi giorni di agosto di quest’anno. Un manifesto con stampato nome e cognome di una donna ucraina, mai apparsa, neppure di riflesso, all’interno del caso. In rosso, marcato con un pennarello, quasi come un fuoco: “per l’omicidio di Marcone Francesco”. Uno scherzo di cattivo gusto? Un macabro gioco? Una combinazione di fatti? Resta un mistero. Quel che, al contrario, non è nascondibile è il luogo in cui ciò è accaduto. Ovvero, ad uno degli ingressi del palazzo degli Uffici Statali del capoluogo. Una costruzione risalente al periodo fascista, ubicata in pieno centro cittadino, da un lato affacciata sulla villa Comunale, dall’altro su Piazza Umberto Giordano e con i fianchi appoggiani l’uno su Via Lanza, l’altro, su Via La Rocca. Nel 1995, qui aveva sede l’Ufficio del Registro, oggi spostato in periferia, con ingresso dalla strada che di Marcone porta il nome. Qui, dunque, ci lavorava Franco. E qui, dunque, l’averne richiamato la memoria potrebbe anche non essere un caso.

Chi ha scritto sul manifesto, non ha badato alla discrezione. Tutt’altro, la sensazione porta alla conlusione inversa. La frase è infatti apparsa sul lato più esposto, quello che dà su Piazza Giordano. Nulla, al contrario, è stato ritrovato dall’ingresso opposto. Nel giro di poche ore, il manifesto è stato coperto. A quanto pare, a chiedere l’occultamento è stata la famiglia della donna, sposata con un foggiano dal cognome campano e mamma di due figli, un maschio e una femmina. A sorprendere, invece, è il fatto che non ci sia stato alcun rilevamento sullo stesso, come si trattasse di una qualsiasi incisione da stadio.

A questo punto, dunque, riannodare la matassa pare impossibile. Il corpo della donna, morta in ospedale, tra l’altro, è stato tumulato in un cimitero del suo paese d’origine. Restano solo le domande. Perché è stato scelto il manifesto della donna? E come mai una frase così secca, che non lascia adito a dubbi? Poi, chi si è preso la briga, probabilmente nottetempo, o comunque al riparo da occhi indicreti, di vergare una frase così diretta non non poter avere dupolici o tiple interpretazioni? Chi era questa donna? Lavorava presso l’Ufficio del Registro ai tempi di Franco Marcone? Oppure è sposata con qualche foggiano che potrebbe essere in possesso di informazioni?

Francesco Marcone (fonte image:ilsottosopra)

LE DONNE STRANIERE – In attesa di risposte convincenti, non resta che andare indietro nel tempo e constatare che non è la prima volta che, nella lunga vicenda inerente l’omicidio di Franco Marcone, sbuchino delle donne. E delle scritte. Addirittura, venne ipotizzata, agli albori e con discreto impiego di tempo e fatiche, una possibile pista passionale. Miseramente crollata sotto i colpi della limpidezza della vita terrena del Direttore del Registro, uomo riconosciuto da tutti come onesto e rigoroso. Ma donne, e misteriose, sono anche “la collezionista” cui si fa allusione in una strana lettera anonima recapitata a casa della famiglia nel 1998 e, soprattutto Viviana Llaci, cittadina albanese, domestica della famiglia Caruso, ferita di striscio nell’attentato denunciato dal suepriore di Marcone (era il 23 dicembre 1993, un anno e tre mesi prima che marcone fosse eliminato) e clamorosamente mai sentita dagli inquirenti, ritornata in Albania in piena ricostruzione post guerra civile e interrogata soltanto a distanza di tempo dall’interpol. Un interrogatorio molto approssimativo, basato su domande evasive e poca contezza dei fatti.

IL REBUS – 29 novembre 1998. Sono passati tre anni e otto mesi dall’omicidio di Marcone. L’inchiesta latita. E’ già stata chiusa la prima volta, archiviata. Colpa di una Procura della Repubblica ballerina, di pm giovani e di qualche episodio che era e rimane poco chiaro. Nella cassetta della posta di casa Marcone, arriva una busta, spedita da ‘Foggia Ferrovia’. Giunge in Via Figliolia a mezzo posta ordinaria. Come una cartolina. Sul fronte, la grafia insicura di un mittente sconosciuto, ha sbagliato il nome della strada. Scrive: “Via Figliolino”. All’interno, un biglietto: “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”. Eccolo il rebus, l’altro grande fantastico mistero tragicomico dell’inchiesta sulla morte dell’Direttore dell’Ufficio del Registro. L’avvocato della famiglia Marcone, Oreste De Finis, consegna il documento in Questura. Sarà assunto e messo agli atti. Ma, come spesso ha dovuto ammettere lui stesso, “tra la mole imponente di materiale d’indagine, non è dato rinvenire alcun approfondimento e/o spunto di riflessione”.

Eppure, spunti interessanti, dalla sola analisi visiva del biglietto, ce ne sarebbero anche. Primo. Biglietto e busta sono scritti con grafie diverse. Simili, ma diverse. A scrivere, non è chiaramente la stessa persona. La grafia della busta è insicura. Potrebbe trattarsi dei tentativi di un anziano di risulatre fermo. O, al contrario, dei tentativi dello scrivente di apparire agitato ed impacciato. Viceversa, il documento dell’interno conduce a rilevamenti opposti. La composizione delle lettere lascia immaginare che, a vergare la missiva, sia stata una mano ferma e sicura di sé, di chi non ha donde di nascondimenti. Potrebbe essere stata redatta da personaggi esterni all’inchiesta. Oppure da indagati. In ogni caso, non sono state eseguite perizie calligrafiche, né rilevamento delle impronte digitali. Per non parlare della prova del Dna sul francobollo o sulla lingua umettata della busta stessa.

Secondo: il corpus del messaggio, il suo senso. Che cosa vuol dire “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”?. Proviamo a capirci di più. Come pensato da De Finis, più addestro alle scartoffie di Tribunale e di amministrazione, 1972 potrebbe si, essere l’indicazione di una data. Ma, più raffinatamente, anche un “numero di ruolo ovvero di repertorio”. Possibilità che schiude le porte alla presenza di un secondo documento, da cercare per ottenere informazioni. Documento che, nel 1998, certo era nelle disponibilità di qualcuno. Di chi? Della fantomatica collezionista (“rivolgetevi ad una collezionista”)? E collezionista di che cosa? Di oggetti? Di atti? Di carte? Tornando indietro, lo scrivente parla anche di “una carta da bollo da 2000 quello con la bilancia”. Ma nel 1972, non era in uso la carta da bollo da 2000 (ovviamente Lire), che sarà adoperata molto più tardi. La bilancia richiama invece alla raffigurazione presente sui fogli degli atti giudiziari. E se la collezionista fosse, ad esempio, un’archivista, magari l’impiegata di un ufficio pubblico incaricata alla razionalizzazione degli atti?

Ma sono tutti misteri. Grossi misteri. Appassionanti, quasi giallistici, buoni per inchieste da film. Non fosse che in mezzo c’è un morto ammazzato e la dignità di una città che, dopo quel maledetto giorno, non ha mai più saputo ritrovare sé stessa.

Noi non ci si arrende mai

LEGGI IL PEZZO SU: http://www.statoquotidiano.it/20/01/2011/contro-la-criminalita-organizzata-legalita-libera-tutti/40664/

Nella tana del CECATO

Interno locale boss Mastrangelo 
 

Cerignola – “ABBIAMO sottratto la terra al giogo delle mafie; e, alle mafie (proprio mentre lo scorso 26 settembre 2010 i carabinieri del reparto operativo di Foggia, con i Ros di Bari e i militari della Stazione dei Cc di Monte Sant’Angelo catturavano il super latitante Franco Li Bergolis Arresto Li Bergolis), abbiamo sottratto il suo ruolo di deus ex machina, al sua pretesa di comandare, nel bene e nel male, le sorti dei lavoratori e del lavoro. Questo significa lottare tenacemente, credendo che, insieme, con gli sforzi di ciascuno, si possa migliorare questa terra. L’esempio di località Scarafone a Cerignola, quella che un tempo era considerata la peggiore delle cittadine della provincia, deve illuminare e far sperare che un’altra Capitanata è possibile”. Mimmo Di Gioia, referente provinciale della rete di associazioni contro le mafie, Libera, quando s’infiamma, è un fiume in piena. Mimmo ha anni di esperienza politica alle spalle, un curriculum di lotta all’illegalità diffusa grande così. Già ne ha passate più d’una, di tribolazione. Telefono intercettato, minacce. Una lunga militanza prima in Democrazia Proletaria, poi nei Verdi, infine l’approccio a Sinistra ecologia e Libertà. È con lui che ci siamo recati in contrada Scarafone, sabato 18, in occasione della vendemmia in quei terreni (quattro ettari e mezzo di viti) sottratti a Giuseppe Mastrangelo, alias “il cecato” uno dei boss più influenti della criminalità organizzata cerignolana.

PROFILO DI UN BOSS – LE TERRE CONFISCATE ALLA MAFIA – Coinvolto nell’Operazione Cartagine per omicidio, droga, associazione mafiosa ed estorsione, Mastrangelo è stato condannato a tre ergastoli. “Può tornare a nascere altre due volte”, ci scherza su Pietro Fragrasso, cooperativa Pietra di scarto. Una di quella che si occupa della gestione dei terreni. Oltre a quei terreni, una casa. Due piani, apparentemente anonima. Un cancello in ferro a chiuderne l’ingresso. Viti ed ulivi del basso Tavoliere a far da recinzione, da protezione naturale. Ora, reticolati e chiusure servono meno. Il terreno, dal 2008, è della comunità. Precisamente, appartiene al Comune di Cerignola. Prima la giunta guidata Matteo Valentino, ora quella di Antonio Giannatempo, hanno fatto di tutto per recuperare alla città questo pezzo usurpato. Ma nessuno, per lo meno a livello apparente, ci mette cappelli su. Attorno all’ingresso della dimora, da due anni, ci sono i sigilli della Polizia Municipale. Entrarvi è realmente difficile. Oltre che impedito. A terra, mucchi di vetri rotti. Verosimilmente, si tratta di quelli delle finestre. L’interno è una caterva di detriti, sanitari rotti, roba precipitosamente accumulata ed altrettanto precipitosamente abbandonata. Ma distrutta con certosina precisione. E metodica barbarie. Già, perché la sottrazione dei beni materiali, nuoce gravemente allo stato di salute delle mafie. Meno potenti e più fragili, senza cassa. Perciò, nello sfogo del momento, gli ex inquilini si son dati allo sfregio. Rompere per rendere inservibile, lasciando in piedi unicamente l’inutile. All’interno, comunque, ci sono ben visibili ancora i segni di una lontana frequentazione. Non è stato facile il lavoro degli esecutori giudiziari. Non è facile, ancora a distanza di due anni, capire effettivamente come recuperare uno spazio ben diviso ma malmesso.

GLI INTERNI: IMMAGINE DI GESU’ CRISTE E MADONNINE DEVOTE – A piano terra, quello che fu il soggiorno porta le ferite dell’ira. Restano ancora gli arredi. Un camino con qualche disegno fuliginoso, archi in mattoni a vista color del cotto, un divano ormai di sbieco. Mentre il pavimento è un ricettacolo, anche qui, di carte da gioco lacere, vecchi addobbi natalizi, ciarpame ammassato, gettato alla rinfusa in attimi che lasciano presupporre scompiglio. Accanto, superato un arco, un ambiente piccolo, verosimilmente la cucina. Non resta nulla di quello che fu l’arredamento originario. Soltanto, mestamente, un vassoio appoggiato su di un piano. Sopra, una bottiglia ancora aperta di menta e due bicchieri. Per un fotografo, una golosità, questo quadretto. Appena dietro, infatti, si apre una finestra, dalla quale è possibile vedere i grandi alberi dell’esterno. Tanta esplosione di vita all’esterno, tanta mortificazione all’interno.

Alle spalle del divano, nel soggiorno, una scalinata in ferro battuto porta al piano superiore. Siamo in quella che fu la zona notte della casa di campagna di Mastrangelo. Ogni passo sulla rampa è un groppo in gola. I muri, bianchissimi, scarni e senza vita. Non ci sono segni di quadri appesi. Le ragnatele nascondono gli angoli del soffitto. Terminata la rampa, un piccolo ambiente su cui si aprono tre porte. Una prima, esattamente di fronte, con un bagno tutto distrutto. Lapidario il commento di Di Gioia: “Nemmeno questo hanno risparmiato. Un classico”. In effetti la distruzione, a seguito di una confisca può derivare da due fattori. In primis, dalla necessità di riportare alla luce e disseppellire da nascondigli ad hoc, materiale che non si vuole caschi nelle mani degli inquirenti. In secondo luogo, per arrecare un ulteriore danni a tutti quanti suppliranno alla mancanza del vecchio proprietario.

NEL FUTURO: “PER NON ESSERE RICORDATI COME CITTADINI DELLA PEGGIORE DELLE PROVINCE POSSIBILI” – Subito avanti a noi, unici ad essere entrati nella casa, la troupe di Libera.it, televisione on line dell’associazione. C’è silenzio e nessuno si avventura sin lì. Oltre al bagno, water rotto a martellate e bidet rovesciato, due stanze. Una prima, ad ambiente quadrato. Un materasso in terra, due finestre ad inondarla di luce, un misero alberello di Natale che più che dare idea della festa, mette tristezza. E rabbia. Ancora una volta, la scena è la stessa. Le braccia della criminalità calate a frammentare l’ordine in una sommatoria di piccoli caos. Anche qui, carte da gioco, una bottiglia di birra vuota in un angolo, addobbi e suppellettili varie. Anche qui, nessun arredo vacuo. Anche qui, una lontana eco di vita. Ma solo lontana. La seconda stanza, invece, doveva essere la principale. Al centro, in risalto, un lettone matrimoniale che non c’è più ha lasciato il posto al nulla. La porta, ostruita nell’aprirsi da un cassettone. Tutti i tiretti, vuoti, sono aperti. Nel primo, un santino di Gesù Cristo a metà. Un’immagine sbiadita. L’idea, quella che concorre a creare qualche brivido alla schiena, è quella del covo dei grandissimi ricercati della criminalità organizzata, falsi devoti seppelliti di santini ed immagini di santi, Madonne e Figli di Dio immolato. Chissà, qualcuno, si chiede, uscendo dalla casa, se sarà misericordioso anche con i pluriergastolani.

pubblicato su http://www.statoquotidiano.it/03/10/2010/cerano-una-volta-i-boss/35287/

URLIAMOLO: “CHE VIVA ROSARIO LIVATINO”

“Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Rosario Livatino, quando vent’anni fa veniva ucciso dalla mafia, aveva 38 anni. Nando dalla Chiesa, in un libro, l’ha definito “il giudice ragazzino”, riprendendo le identiche parole, usate qualche tempo prima, con sdegno, da Francesco Cossiga. Carol Woytila, un “martire per la giustizia”. Paolo Borsellino lo anteponeva, nel pantheon della legalità, ad ogni magistrato; lo esaltava come l’icona antitetica rispetto al malaffare, in quegli anni rappresentato da una politica imberbe, collusa ed a tratti addirittura confusa con la malavita organizzata. Era, quella, l’epoca melmosa del cambio di sistema, della “normalizzazione” democratica: scosse di assestamento che, dopo il terremoto degli anni di piombo, del 1977, del 1985, erano celate con boati di rumore assordanti. Era il tempo in cui tutti ammettevano gli errori delle rispettive ideologie, finendo per fare il gioco dei vuoti di pensiero, della massificazione iper liberista. Eldorado per la malavita. Un turbine volontario per lasciare che la polvere delle stragi di Stato venisse tacitamente occultata sotto il tappeto lercio della ragion di Stato. Ed amen.

Una figura come quella di Rosario Livatino dovrebbe gloriare l’intera nazione. Più forti, invece, sono in questi giorni gli atti di un sindaco vichingo che schiaffeggia lo Stato brandendo stelle delle Alpi; più forte la scomparsa di una comica malconcia; nettamente più forti gli echi del gossip politico. Per non parlare delle celebrazioni urticanti e delle fanfare fanfaroniche messe su per festeggiare l’anniversario di una nazione che nazione non lo è mai stata, così indaffarata nei suoi particolarismi. Voci, suoni, rumori che già mettono a tacere solo l’ultimo degli “sgarri” perpetuato dallo Stato nello Stato ai danni di chi, con le azioni concrete e non eclatanti, sceglie di non stare al gioco. Già si è spenta la luce su Angelo Vassallo, un cognome che ne tradisce la vocazione, relegato in bieche, periferiche ed insulse commemorazioni funebri, quando, al contrario, ci sarebbe da far festa al solo pronunciarne il nome.

Ecco, i nomi. Ne scriveva Michele Serra su La Repubblica proprio qualche giorno dopo l’uccisione del Sindaco di Pollica: i nomi sono importanti, il concetto. Non cambieranno il mondo, certo. Ma il loro perpetuarsi terrà in vita le idee di chi quel nome lo aveva ricevuto come un dono naturale. Ed allora, vent’anni dopo, forse converrebbe tornare a scandirlo il nome di Rosario Livatino. Ricordandolo come l’iniziatore di Tangentopoli in Sicilia, il “ragazzino” capace di scompaginare un sistema consolidato ed incancrenito, come colui che, primo fra tutti, capì che per colpire le mafie, tutte le mafie, c’è da svuotarne le casse. Tranciarne connessioni politiche e finanziamenti.

Che viva, allora Livatino. Rosario Livatino. Che viva in quella caparbia volontà intrisa di sogni e fede di confiscare i beni a chi usava la terra – bella e maledetta come tutta la terra del mondo, così amica e così pretenziosa di cure specie dove l’acqua scarseggia – per riproduzione di tutti i mali del mondo. Come forma di predominanza dell’uomo sull’uomo. Peggio, del ricco sul non abbiente. Non era un politico, Rosario Livatino. Ma la sua idea era quanto di più politicamente efficace ci fosse.

http://www.statoquotidiano.it/22/09/2010/il-ragazzino-contro-il-sistema/34742/

Cerignola, uva Libera tutti

Ci sono giorni in cui il sole sembra che baci più forte gli uomini, le piante e gli animali; che inondi di luce la terra e le case e tutto il creato, per dare il placet di quel che gli si svolge sotto i raggi. Benedetti caldi di Capitanata, quando ti concedono il diritto di un posto di lavoro scevro dallo sfruttamento. Maledetti, invece, quando le schiene chine sottendono schiavitù; quando il sudore è la dichiarazione di resa al caporalato. Benedetto caldo di Cerignola. Campagna che fu la campagna della riscossa di un’intera classe di braccianti sotto la bandiera umile di Peppino Di Vittorio. In quelle terre, secche ed aride, oggi è nata una delle esperienze più interessanti della Capitanata. Il marchio è quello della rete di Associazioni contro le mafie, Libera. Cui si sono aggiunti quelli degli Enti Locali (Comune di Cerignola e Regione Puglia), della Cia, dei confederali (Cisl e Uil, oltre ad una Cgil che ritorna, in una terra storicamente “sua”, a riannodare il filo dei diritti). “Un grappolo di diritti” è l’iniziativa che ha preso corpo in località Scarafone sin dallo scorso 10 settembre, e che, in un sabato settembrino di fine estate – sabato che non è come gli altri, perché nell’aria rimbomba, sordo, il dolore per il rinvenimento dei cadaveri dei due africani alla stazione di Foggia – si è aperta all’esterno per farsi conoscere. Si vendemmia da quel giorno. Le viti abbondano di frutti. Fino a strabordare come una verde cascata appesa. I terreni sono stati confiscati alla mafia nel 2008: sei ettari in tutto, quattro e mezzo coltivati a vite. Per il resto un groviglio di stradine, qualche ulivo, sparuti fichi. Un casolare abbandonato, distrutto dagli ultimi inquilini, sentitisi defraudati dalla confisca. L’ex proprietario del piccolo feudo, il boss Giuseppe Mastrangelo, detto “il cecato”, sta scontando in carcere tre ergastoli per omicidio, droga, associazione mafiosa ed estorsione. In prigione, ce l’ha spedito Gianrico Carofiglio, che, ancor prima di donarsi all’editoria, mieteva vittime alla criminalità organizzata come pm antimafia di Bari.

Su queste terre liberate, restituite alla storia dalla giustizia dell’uomo, rese finalmente degne della loro bellezza, si è celebrata, alla presenza di stampa ed istituzioni, oltre che delle forze dell’ordine, la fine di un lungo incubo. Meglio. Si è consumato l’atto finale della restituzione al pubblico di quanto era giusto. Perché, ha esultato Pietro Fragasso, mente pensante della Cooperativa sociale “Pietra di scarto”, “Cerignola non dorme”; no, Cerignola di dormire non può permettersi. È occorsa una barca di tempo ed altrettanta fatica per districarsi della nomea di città dell’illegalità. Per uscire dal “cono d’ombra” paventato dal referente provinciale di Libera, Mimmo Di Gioia. Per scuotersi del torpore in cui i vari Giuseppe Mastrangelo l’avevano costretta. Cerignola, quindi, non più città di paura e pistole.

L’immagine, oggi, è diversa, quasi rassicurante. Sui terreni che furono bunker, chiusi al mondo ed all’occhio del cittadino, ostruiti e vietati dalla legge del più forte, oggi lavorano e riposano Cooperative di braccianti. In sei, questa mattina, riempivano le gerle. Mancava un elemento, due braccia in meno sottratte al lavoro, ma aggiunte alla causa della legalità. Uno di loro era a Castel Volturno, altra zona tristemente nota per gli eventi criminosi, per consegnare al Centro di Accoglienza “Fernandes” i prodotti dei vigneti della Capitanata. Gli stessi che hanno fanno capolino alle feste nazionali della Cgil e del partito Democratico. Gli stessi che, oggi, hanno viaggiato sino a L’Aquila. 19 mila cassette prodotte e smistate. E siamo ancora al dato parziale. Perché manca ancora tanto per concludere il lavoro. Ma non ci sono lacrime di terrore in contrada Scarafone. Si fatica sorridendo, qualche battuta in foggiano, qualche risposta in arabo. Dei sette, uno solo è italiano. Dei restanti, due sono rumeni (marito e moglie), quattro tunisini. “Lavoriamo tanto, ma ci mettono a posto – tirano un sospiro di sollievo”. Già, perché sinora l’Italia era stata una grande promessa mai mantenuta: “Solo trattati male, sfruttati, niente soldi”, dicono in coro. Poi, chi può, si ferma all’ombra a fumare una sigaretta. Oggi è un giorno di festa.

pubblicato su http://www.statoquotidiano.it/19/09/2010/libera/34548/