Enciclopedia di un massacro

Se ci sono dei libri che posseggono occhi in cui guardare, allora “Palestina” è uno di quelli. Edito dalla casa italo-tedesca Zambon e racchiuso in una preziosa edizione che non metterla in mostra è un peccato, il testo non si limita soltanto a raccontare tutta la storia (attraverso un quadro completo e puntuale ed una narrazione articolata e corale) triste e rabbiosa di una terra rabbuiata dal grigiore delle bombe. Una striscia di mondo che appartiene più alla storia che alla geografia. Con tutto il suo carico di dolore, il suo portato di sofferenza, il suo fardello di pietre e di morti bambini. Ma fa di più: evoca.
“Palestina” è più di un libro, è l’enciclopedia di un massacro; è una rivelazione. Per quella sua capacità di tenere dentro, nelle sue pagine patinate, la cronologia lancinante di depurazione etnica, la crudeltà bestiale del sionismo nascente e la forza evocativa delle immagini. Quelle foto che, da sole, sarebbero bastevoli prove di un’ingiustizia in bilico fra crudeltà, sterminio programmato e principio politico. Emblemi di una violenza indiscriminata, macelleria etnica senza scrupoli, che rifiuta la sottomissione alla tenerezza verde dell’età. Bambini schiacciati e madri frantumate.
Soffia un vento funesto fra le dita di chi legge. Soffia comprensibilmente, parlando di guerre antiche e rivendicazioni divenute diritto. Soffia blaterazioni di vendetta e superiorità, nazismi mediorientali in note minori. Le epigrafi dei padri del sionismo, accostate agli scatti del popolo dei sottomessi, intonano un canto di morte. Il requiem del diritto alla terra è inno alla distruzione delle maggioranze. Ben Gurion e Ariel Sharon uniti in un unico progetto di sopraffazione, mentre mogli e madri vedono partire e morire i loro uomini: i “vermi” condannati svanire in una nuvola di sabbia e polvere da sparo si portano dietro il loro presente insieme con il loro futuro. Un progetto che, si smonta e si riassembra di volta in volta, di epoca in epoca, di governo in governo. Per finire, poi, ad avere sempre la stessa connotazione funerea di un ceppo cinerario. Sabra e Chatila, la prima e la seconda Intifada, Piombo Fuso.
Sono stelle di un’astrologia che non prospetta nulla di diverso dalla sventura. A farne le spese, anche Vittorio Arrigoni, di cui il testo riporta testimonianze di “Restiamo Umani”. Umani come gli adolescenti intubati colpiti dai proiettili di gomma dell’esercito più equipaggiato del pianeta; umani come i cuccioli di uomo sfigurati dal “napalm like”; umane come le schiere delle genti massacrate a botte di calci, pugni e pestaggi, tratte in arresto e scomparse nelle gole profonde delle carceri israeliane (dopo aver subito altri maltrattamenti al limite del bestiale).
Quel che rende “Palestina” degno di esser letto è la sua libertà di non scendere a compromessi con la storia recente, di non farsi abbagliare dal fulgido apparire dei meetings, degli incontri internazionali, dei finti trattati, delle dichiarazioni mediatiche. “Palestina” esce dagli schemi dicotomici delle culture contro. Cessa di parteggiare per la causa occidentale e di propagandare il modello euro-statunitense come l’unico possibile per la redenzione del dolore arabo. Semplicemente, “Palestina” narra la verità, spogliata dei gingilli ipocriti e falsificatori. Porta alla luce i veri sentimenti in circolo nella striscia di Gaza, ai posti di blocco, sulle torrette di controllo. Schegge di stupro territoriale e politico in cui i soldati masticano il gusto acidulo dell’odio commisto all’acre sapore del sangue.
Racconta una soldatessa di aver sputato su un palestinese: “Non mi aveva fatto niente, stava solo passando. Ma era approvato che io lo facessi, ed era la sola cosa che potevo fare: sai, mica potevo vantarmi di aver catturato un terrorista, però potevo sputare addosso a loro, degradarli, deriderli”.

C’è chi la chiama esportazione democratica. AA.VV, “Palestina. Pulizia etnica e resistenza”, Zambon 2011

Giudizio: 4 / 5 – Resistente

LINK: http://www.statoquotidiano.it/11/06/2011/macondo-la-citta-dei-libri-38/50609/

Barnard, a Foggia l’ultimo intervento: “Dubbi sulla morte di Bin Laden”

Paolo Barnard (St)

Foggia – CASO mai non dovesse rientrare il proposito di ritirarsi a vita privata dopo anni d’impegno politico e giornalistico, quello tenuto oggi a Foggia sarà ricordato come l’ultimo intervento pubblico di Paolo Barnard. Il più libero fra i giornalisti italiani, uno zingaro nel nome della verità, lascia il suo testamento nell’Aula magna del Liceo Classico “Vincenzo Lanza”. Chiude come a lui piace, discutendo con gli studenti, dando loro la stessa dignità che tocca dare a qualsiasi persona; si tratti un notabile o di uno straccione. Loro lo hanno accolto, lo hanno abbracciato. Gli hanno tributato, prima e dopo, un lunghissimo applauso. Mani come colori fluorescenti, evidenziatori del gradimento morale verso la persona Barnard. Verso Paolo che non chiede gloria, ma stimola alla riflessione.

Ed a presentarlo sono soltanto loro. Melissa Mastelloni, tassello del Collettivo Koiné, che parla di “orgoglio”. Giulia Solazzo che rivendica per conto dei ragazzi una “libera formazione nella coscienza individuale”. Alessia Villani che legge una storia tratta da “Restiamo Umani”, reportage di Vittorio Arrigoni nel cuore dell’Operazione Piombo Fuso a Gaza.

In loro, nelle loro parole, nei loro occhi, si legge il desiderio di maturazione. Un processo di crescita da cospargere nel nome della verità. Senza forzature esterne, senza ulteriori falsificazioni. La presentazione di “Perché ci odiano”, con tutta la normale trattazione delle tematiche complesse ed intricate della storia del conflitto arabo – israeliano altro non è che la concretizzazione di questa scelta. Il campo è minato, rischioso. Si tratta di passare per razzisti, per antisemiti. Eppure non ci sono timori nei gesti che guidano le decisioni e le parole di queste ragazze. Diciottenni con l’amaro in bocca. Ma, soprattutto, con la voglia proibita ed estrema di convertire quel saporaccio in un dolce sapore di giustizia, di novità.

E la pietanza servita sul piatto della città è Barnard. Verace ed emozionale, il giornalista deve fare i conti con l’inizio più difficile. Superare la morte di Vik, con il quale, per sua stessa ammissione, stava organizzando un tour di conferenze in giro per il Bel Paese, per il solo gusto di render alla Palestina ciò che spetta alla Palestina (e ai palestinesi). Roba da groppo in gola. Col microfono sorride ed arranca. Inghiotte un rospo grosso come un pachiderma, poi, intristito: “Arrigoni è un uomo ed un ragazzo che è stato sopraffatto dal dolore e dall’orrore”. Che fra orrore e dolore è rimasto compresso come in una tenaglia di disperazione. “Succede a Gaza”. Meglio glissare, forse. C’è da argomentare un discorso che parte da molto più lontano. E chissà quanto lontano è destinato a giungere ancora.

BIN LADEN. Primo punto da chiarire, la vicenda della morte del pericolo mondiale numero uno. Quello che, nell’arco di pochi decenni, è passato da utile alleato, a pericolosa nemesi antropologica. Barnard prova a sfondare il muro dell’ovvia diffidenza originatosi di fronte ad un tanto delicato argomento. E mette in discussione l’intera tempistica. Innanzitutto, sull’evento della morte, azzarda una retrodatazione al 2004: “Sono sette anni che lo sceicco saudita non si faceva più vedere né sentire”. E, questo, pur essendo “un baluardo indiscutibile per Al Quaeda”, un riferimento ineluttabile. Fondamentale alla cellula islamica come il succhiotto ad un lattante in procinto di metter giù la dentatura. Stonature di una “notizia strana”. Strana tanto quanto la rapidità di liquidazione della pratica. Dieci anni di guerra infruttuosa, opinione pubblica e media ingolositi da una fine hollywoodiana, spettacolare, da conflitto a fuoco senza fine, inseguimento e cattura, ed un epilogo frettoloso. Assalto, sparatorie, morte, disfacimento del corpo tutto nel giro di qualche ora.

Barnard accetta la sfida del dubbio, si inoltra nei meandri ostici di un’attualità sbiadita da contorni poco chiari. Soprattutto, sfonda nel terreno del “terrorismo”. Parola difficile. Da spiegare, innanzitutto. Specie se, dirimpetto, si affaccia l’intera gamma adolescente di una scolaresca ingorda di opinioni. “Il terrorismo – spiega con cautela il giornalista emiliano – altro non è che un’azione coercitoria compiuta verso chi non vuole subirla”. In breve, un obbligo violento e monodirezionale. La violenza che risponde al terrorismo originario, poi, può sfociare in atto criminale e criminoso, ma è ben lungi da considerarsi terrorismo. Una rilettura che rovescia il tavolo imposto dal croupier. occidentale. Sotto la lente dell’ottico Barnard, terrorista diventa l’altra faccia del crimine, quella abitualmente ritenuta civile e democratica. Vittima, al contrario, quella additata come carnefice.

Non un semplice gioco semantico, uno stratching per le sinapsi, ma un filo ragionato, tutto sospeso fra razzismo, storia, politica ed etica. E’ così che Barnard s’impone l’obbligo di camminare a ritroso. Di camminare nel passato per far luce sui coni d’ombra del Medio Oriente. Sprazzi di guerre e strategia militari, scorci inquietanti di accordi di pace, pulizia etnica decisa sui libri di diario. Barnard non dà l’idea di curarsi di confondere le idee ai ragazzi. Anzi, cerca, come un libeccio impetuoso, di fugare le nubi. Dis-eroizzando eroi troppo frettolosi, de-santificando santi altrettanto mediatici ma non esattamente effettivi. La religione diventa un pretesto. Quello tra ebraismo ed Islam si tramuta in una resa dei conti affaristica. Con il cancro “del sionismo”. Precisa “schifezza”, in quanto riproduzione – e completamento – delle peggiori ideologie distruttive della Storia.

A restare schiacciati dal progetto politico sionista “sono due popoli”. Quello palestinese, “fisicamente”, e quello israeliano, “tenuto in uno stato perenne di menzogna e di bugie”. Uno stato di cose in cui la gente è un mero ed involontario strumento biologico di riproduzione della pulizia etnica della Palestina. Terra che, specifica Barnard, “i primi illuminati pensatori ebrei non consideravano affatto come terra promessa, ma come un fastidio”. Troppi coinvolgimenti religiosi. E’ un fiume in piena, il giornalista. Snocciola i morti della “specificità terrorista dell’Occidente”: 200 milioni in America Latina, 11 milioni in Congo, 2 milioni in Indonesia. E poi ancora, le “liberazioni” dei paesi arabi ed africani, l’esportazione democratica in Iraq ed Afghanistan. I massacri dell’apartheid (tra cui figura quello, etico, perpetrato dagli Usa, di aver inserito, nel 1989, l’African National Congress ed il futuro Presidente Nelson Mandela nella lista dei terroristi internazionali).

Le parole di Barnard sono spine. Gli studenti prima lo sommergono di domande, infine lo acclamano come fosse una star. “Speriamo che ci ripensi”, chiosa Melissa riferita al suo impegno pubblico. Un aereo lo separa da quei giovani dopo oltre due ore di colloquio. Forse definitivamente proiettandolo in una vita nuova, diversa. Forse.

Link: Stato Quotidiano, 5 maggio 2011

Le ragioni del futuro di liberazione

Tutti, in Cisgiordania e Gaza, concordano sull’importanza della riconciliazione Fatah-Hamas. Diversi invece sono i pareri sulle motivazioni che hanno portato le due principali forze politiche palestinesi a porre fine al conflitto interno e a ricercare un’unità nazionale che fino ad un paio di settimane fa sembrava lontana anni luce. Per l’attivista dei diritti civili e storica portavoce palestinese Hanan Ashrawi, il passo di Fatah e Hamas è figlio anche delle trasformazioni in corso nel mondo arabo.

Cosa ha spinto Abu Mazen e Khaled Mashaal a rinunciare alle loro posizioni intransigenti e ad adottare una linea più conciliante?

Anche loro hanno subito gli effetti delle trasformazioni avvenute nel mondo arabo alle quali stiamo assistendo da alcuni mesi. C’è un clima diverso, più produttivo nella regione e in particolare in alcuni paesi molto importanti per il futuro della questione palestinese, come l’Egitto. La riconciliazione palestinese contribuisce a sua volta allo sviluppo della democrazia e dei diritti nella regione mediorientale.

Quanto ha pesato la paralisi totale del negoziato tra Anp e Israele?

Molto, la delusione tra la nostra gente è stata fortissima. La riconciliazione appena firmata perciò rappresenta una iniezione di ottimismo dopo il fallimento delle trattative con Israele che vuole colonizzare i nostri territori e non fare la pace. La riconciliazione rimette in movimento la lotta palestinese per la libertà e l’autodeterminazione. E offre ai palestinesi e alla comunità internazionale l’opportunità dare slancio all’iniziativa di settembre all’Onu (la proclamazione unilaterale di indipendenza palestinese, ndr).

Israele intanto annuncia misure di ritorsione contro il futuro esecutivo palestinese di unità nazionale.

Al governo israeliano piace dettare condizioni e non negoziare la pace. La decisione di congelare i fondi palestinesi (dazi doganali e tasse,ndr) non solo è illegale e viola gli accordi esistenti, ma è mirata ad impedire i nostri sforzi per arrivare alla proclamazione di indipendenza. Per questo speriamo che il mondo arabo e la comunità internazionale facciano ogni sforzo possibile a sostegno della riconciliazione nazionale palestinese che costituisce un serio contributo alla pace, alla stabilità e alla democrazia nella regione.

Accanto all’entusiasmo di Hanan Ashrawi c’è il realismo di Abdul Rahim Mallouh, numero 2 del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Il leader della più importante delle formazioni della sinistra palestinese, mette in risalto le difficoltà per la soluzione di alcuni problemi ancora irrisolti. Mallouh non è potuto andare al Cairo perché Israele non gli ha permesso di lasciare la Cisgiordania.

Quali sono i temi più scottanti dopo la riconciliazione?

Abbiamo posto all’attenzione di tutti questioni come la riorganizzazione della sicurezza nazionale, i diritti e gli spazi concessi ai partiti e alle forze politiche minoritarie, il ruolo dominante dei due movimenti principali (Hamas e Fatah) nella vita palestinese. Prendere in considerazione questi temi è importante se si vuole garantire il successo della ritrovata unità nazionale.

Pensa che sia opportuno affrontarli subito?

Discuterne al più presto farebbe gli interessi di tutti i palestinesi. La riconciliazione nazionale ha aperto spazi di discussione rimasti chiusi per anni e siamo certi che questa nuova fase avrà riflessi positivi sull’intero dibattito politico e anche sulla determinazione dei palestinesi di mettere fine all’occupazione israeliana.

(il manifesto, 5.05.2011)

Chomsky, Pappé, l’urlo di Gaza

Non solo le nubi oscure dello strangolamento di Vik Utopia Arrigoni. Nei cieli di Gaza, la nuvola nera della morte scroscia pioggia di dolore da un pezzo. Dire vita, nella Striscia, significa diremorte, nella Striscia. E la vita, nella zona più densamente abitata del mondo, 1.400.000 abitanti costretti da fili spinati, barriere, posti di blocco, aviazioni, carri armati, varie ed eventuali, in appena 360 km2, scorre veloce. Tanto che, vista dal treno dell’arroganza, dell’oscurantismo internazionale, della dis-conoscenza delle responsabilità, appare normale. Ma non lo è. Nella lunga e tortuosa cavalcata lungo il binario mediorientale, curve della Storia, salite e discese, interruzioni di linea, ponti crollati e poco carburante, gli accordi di pace falliti come stazioni di una Via Crucis di sangue, emblema di una crocifissione che ha inchiodato al legno decine di migliaia di vittime civili, di vittime bambine, arrestando il tempo in una Polaroid lancinante. Ebbene, in questo lungo correre, l’ultima fermata è Gaza. Casupola diroccata senza neppure la biglietteria. Farebbe lo stesso: nessun controllore ne accetterebbe la validità. Gaza è la stazione fantasma, spersa nella nebbia del mattino spettrale ed atroce.

Ma dagli altoparlanti, bucano l’aria le parole forti di Noam Chomsky ed Ilan Pappè. Sono loro due, il grande linguista e l’esimio storico, gli autori di “Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi” (ottimo lavoro dell’editrice Ponte alle Grazie, timbrato 2010). E le loro voci, autorevoli, sono ben diverse dalle metalliche e fisse riproduzioni computerizzate delle stazioni moderne. Chomsky e Pappé non recitano copioni già scritti, non ripetono all’infinito ed all’unisono quel che il passeggero vuol sentirsi dire, la previsione di un tragitto rassicurante, stazione dopo stazione, fino alla destinazione prefissata. No, Chomsky e Pappè ripercorrono, in maniera diversa ma complementare, come due rette parallele, identiche ma con l’incontro fissato alla fine dei tempi geometrici ed umani, il viaggio a ritroso. Attraverso una storia cosparsa di giudeizzazioni forzate, vecchie pretese bibliche e teologiche, pulizie etniche, ragioni che non sono ragioni e non lo sono mai state. No. Sono loro, Chomsky e Pappé, contro ogni volontà dei paganti, a decidere il percorso e l’approdo. Prendono in mano il treno e lo frenano nelle stazioni che loro stessi decidono. Nel tempo: 1947 – 1967 – 1982 – 1993 – 2006 – 2007 – 2008 – 2009. Nello spazio: Camp David, Oslo, Gerusalemme, Ramallah.

Ed ecco comparire, chiari, i paesaggi devastati, gli “errori” di valutazione dei missili, le guerre lanciate dal potente contro una massa di civili male armati e destinati al macello, le risoluzioni violate. Si schiude un mondo identico a quello vero, ma letto attraverso le cristalline lenti della giustizia, della verità. Lenti senza ditate e graffi, che rovesciano la sostanza, non la forma. Perché quando Stati Uniti ed Israele, soli, a braccetto, nel 2008, si oppongono alla risoluzione Onu per il “diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese”; e se ancora loro, ed ancora nella stessa seduta, votano contro una risoluzione per “la libertà universale di viaggio e la vitale importanza del ricongiungimento familiare”; e se Usa e Zimbabwe, guarda caso sempre nella stessa identica seduta, sono gli unici stati al mondo a votare contro la moratoria al commercio delle armi; e se, infine, clamorosamente nella stessa assise, gli Stati Uniti, in beata solitudine decidono di opporsi al “diritto all’alimentazione”, e se, facendolo, hanno contro l’intero mondo conosciuto, allora si rovescia la teoria dell’egemonia. Ed anche quella dell’isolazionismo di Hamas. Perché ad essere isolati sono gli aggressori, non gli aggrediti.

Con lucide analisi (Chomsky) e dotazioni fattuali (Pappé), i due autori danno corpo ad un autentico manuale della verità, un lungo ed involontario pamphlet, dalla forza di un fiume in piena che tracima gli argini e dilaga fin nell’anima di chi legge. Un libro che è sfacciatamente politico, spudoratamente di parte. Quella giusta.

Noam Chomsky-Ilan Pappé, “Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi”, Ponte alle Grazie 2010
Giudizio: 4 / 5 – Per restare umani