La memoria che (non) resta, di Gianni Rinaldi per Stato Quotidiano

Ci sono delle piccole parti di storia che, se li metti insieme, rischi (già, perché la storia a volte è un rischio per chi sa di sconrgervi tratti nettamente scomodi) che mostrino una poesia disarmante. Colori a tinte forti e mai banali. Colori di lotte, sporco di sangue ed odore di polvere da sparo. Brezza profumata di sconfitta e tanfo di vittoria. Non è una metafora, immaginare di immortalare la storia. La Scuola d’arte popolare di Fiano Romano, aveva realizzato un’impresa del genere, donando un murale sulla vita di Peppino Di Vittorio alla città di Cerignola. In cambio, solo oblio. La storia del murale la racconta Gianni Rinaldi
(Piero Ferrante)
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Cerignola – “QUESTO monumento a Di Vittorio, mi pare, per molte ragioni, eccellente e per me pieno di richiami, non soltanto per il suo valore di opera d’arte, ma perché riporta tra noi e nella piazza del suo paese, Cerignola, l’immagine di un grande. Una grande figura, Di Vittorio: per la sua schiettezza, la sua verità, la sua complessità, e per aver assunto in sé tutti i problemi fondamentali del nostro tempo, averli vissuti, aver contribuito in modo decisivo a risolverli, conservando una sua personalità straordinaria e poetica, in una vita spesa per gli altri.” Sono parole di Carlo Levi di fronte al modello della grande opera dedicata a Giuseppe Di Vittorio e la condizione del Mezzogiorno, commissionata dal Comune di Cerignola, che sarà installata in una piazza della città nel 1975.

Il Centro di Arte Pubblica Popolare di Fiano Romano, guidato da De Conciliis, realizzò un’opera innovativa e unica, del tutto diversa dal solito monumento di tipo celebrativo (statue, busti, lapidi). Il ‘murale’ si presentava come una piramide rovesciata sostenuta da una struttura metallica alta oltre dieci metri. Sergio Michilini, pittore friulano e muralista, nel suo blog descrive bene le peculiarità dell’opera: “Era una delle poche in Italia dove erano stati applicati alcuni principi metodologici fondamentali del muralismo moderno, sperimentati e teorizzati in Messico dal maestro David Alfaro Siqueiros. Parliamo di integrazione plastica, cioè del superamento del divorzio tra le tre Arti Plastiche fondamentali (Pittura, Scultura e Architettura) e re-integrazione con l’intorno pubblico e urbano. Parliamo di poliangolarità, cioè del libero movimento dello spettatore e delle conseguenti infinite deformazioni ottiche che attivano un meccanismo dinamico espressivo dell’opera d’Arte…”

“Siqueiros lo definiva muralismo cinematografico. Parliamo di arte pubblica, cioè di un metodo creativo democratico che coinvolge la partecipazione del pubblico fin dalle prime fasi progettuali dell’opera. Parliamo infine di materiali e tecniche dell’industria moderna… Oggi sappiamo che i prodotti dell’industria moderna sono spesso inadeguati per le Arti Plastiche, perché concepiti secondo l’ottica del massimo lucro possibile, invece che per una durata massima nel tempo. Il caso del Monumento di Cerignola, per esempio, presenta problemi di contaminazione nella struttura dei supporti pittorici (amianto), proprio per il carattere sperimentale con cui erano stati concepiti negli anni ’70. Ma sono problemi che, una volta individuati, si possono sicuramente risolvere.”

Il carattere molto particolare dell’opera è evidente anche quando passiamo ad osservarne i contenuti. Ognuno dei tre pannelli aveva un proprio tema narrativo. Nel primo, il viaggio degli emigranti verso il Nord. Nel secondo, la caduta del sistema clientelare di corruzione mafioso. Nel terzo, contadini e braccianti si uniscono a operai e intellettuali intorno a Di Vittorio. Sullo sfondo il treno degli emigranti che tornano. Sono quasi cento i ritratti presenti nell’opera, tra quelli di Di Vittorio, dei grandi meridionalisti, di politici, sindacalisti, intellettuali e anche dei martiri delle lotte per le occupazioni delle terre, da Melissa a Portella della Ginestra. Poi tante altre facce di donne e uomini meridionali. Un’opera quindi che può essere considerata una sorta di ‘manuale artistico’ di storia contemporanea, da interpretare, da ammirare, da condividere e discutere. Gli artisti scelsero di dipingere con la gente, nei dibattiti si parlava di pittura, riflettendo anche su tanta storia meridionale. De Conciliis raccontò: “Forse anche il lavoro di preparazione per quest’opera è servito a qualcosa: essa si è formata formandoci”. Sul valore e sulla novità rappresentata dall’opera si sviluppò, inoltre, un vivace dibattito nazionale che coinvolse personalità come Ernesto Treccani, Renato Guttuso e Carlo Levi.

Il monumento durò purtroppo pochi anni, durante i quali fu anche sfregiato da colpi di pistola, e “L’Espresso” titolò “Di Vittorio? Va fucilato alla memoria”. Negli anni ’80 a causa dei lavori di ristrutturazione urbanistica dell’area per il nuovo Municipio, fu smontato e accantonato, si disse, in attesa di nuova ricollocazione. Poi, circa 30 anni di oblio e degrado. De Conciliis, costernato, toglierà l’opera dall’elenco dei suoi lavori.

Ritrovai parte dei pannelli, che si ritenevano dispersi, nel 2008, nell’ambito del progetto Casa Di Vittorio e oggi, insieme a un movimento di centinaia di cittadini, in massima parte giovanissimi, riuniti su Facebook, ha preso slancio l’idea del recupero dell’opera. Si è perso molto tempo, perché in tutti questi anni, come ha scritto nel suo blog Vincenzo Maurantonio, “un bimbo avrebbe potuto chiedere, con la curiosità che contraddistingue tutti gli esseri umani in quella fase di vita, cosa fosse quell’”affare” al centro della piazza. Da quel punto in poi sarebbe partito il racconto appassionato del nonno che avrebbe coinvolto e soddisfatto la curiosità del bambino. Continuando, così, a tessere la trama del ricordo e infondendo passione e conoscenze. Un bambino, nel 2010, non può vivere la stessa cosa. È questo, quindi, uno dei principali motivi per il quale il murale di Di Vittorio è diventato ormai un caso. E non solo.”

Recuperarlo, con cura, mestiere e passione, perché, venendo a visitare Cerignola, chiunque possa trovarvi tracce di memoria del suo uomo migliore.

(Giovanni Rinaldi è antropologo e studioso di storia bracciantile. Per anni ha portato avanti il sogno di Casa Di Vittorio. Link http://www.statoquotidiano.it/06/03/2011/la-memoria-che-non-resta-murale-a-di-vittorio/43590/)

La classe operaia va all’inferno

Alla fine della fiera, chiuse le urne e chiusi i seggi, è andato tutto esattamente come ci si attendeva alla vigilia. O quasi. I favorevoli al diktat per Mirafiori hanno prevalso. Di poco, ma tant’è. 54% contro 46%.

Tutta la gerarchia feudale della Fiat e del Paese, tutti gli assertori del patto di non belligeranza (contro il capitale) non faranno sconti. “Basterà anche soltanto un voto”. Sono arrivati quelli degli impiegati a salvare Marchionne. Già perché, nel cuore della fabbrica, sul vero campo di battaglia, le truppe cammellate dell’eroe dei due mondi erano state molto ingloriosamente sopraffatte dall’onda rossa di Fiom e Cobas.

C’è voluto l’intervento degli uffici; l’uscita dalla fabbrica, dal caldo, dal disagio, dall’unto, dal pericolo di malattie è stata la chiave del successo. Nichi Vendola ha detto: “Per Marchionne la vittoria più amara, per la Fiom la sconfitta più gratificante”. Poca cosa. L’apologia della bella sconfitta non era quella stessa che Nichita, per sé, aborriva? E’ una forma distorta di trainig autogeno made in fabbrica che non  fa bene a nessuno.

Non fa bene al mondo operaio che ha la necessità di ritrovare se stesso nel novero del conflitto sociale contro il capitale. Vecchiume ideologico? Niente affatto. Piuttosto, riciclo positivo e necessario quando, nel pattume, sono volontariamente stati gettati i diritti, la democrazia. Parcheggiati in quegli enormi spazi per i pullman al di fuori delle fabbriche, ammonticchiati sopra cumuli e cumuli di sangue versato sulle strade, sconfitte e vittorie. L’uomo forte della Fiat vuole riportare l’orologio della Storia indietro nel tempo, a quell’era in cui c’era chi poteva tutto e chi nulla. Vuole tornare al caporalato industriale, ripristinare il divieto di dissetarsi durante la fatica. Stirare le pieghe del tempo per scovarvi il pericoloso virus sindacale ed eliminarne le tracce. Marchionne ha comprato il favore di cinque sindacati su sette. E, comunque, non è stato capace di mettere a sedere l’orgoglio operaio rinascente.

Un orgoglio pesantemente scalfito da questa compravendita. Si è giocato al massacro interno, alla morra cinese delle ragioni, dove incredibilmente il più sciocco e credulone ha fagocitato il lottatore. Perché la responsabilità non è soltanto di Marchionne. Ma anche dei soloni interni. Dei sindacati, innanzitutto. Prendete Uil e Cisl. Ebbene, la loro messa a disposizione del padre padrone, il loro accettare chini le frustate benevole del capo sovverte la natura stessa del proposito sindacale, ribalta la logica della difesa del lavoro per sposare, bavosa, quella della convenienza del momento. E’ una sposa che accetta una cavalcata a vita piuttosto che un matrimonio fondato sull’amore e sul rispetto. Non sapendo che, il corpo scolpito e stentoreo dello stallone che la sottomette, prima o poi, appassirà, flaccido a tal punto che neppure il Viagra potrà farci nulla. A quel punto si troverà sola ed insoddisfatta, con un piede sull’uscio della camera da letto smunta ed uno su quello dell’appartamento. Sempre sotto schiaffo del ripudio.

Ma anche degli stessi interni. I risultati di Mirafiori ci presentano l’alba di un nuovo conflitto (cromatico e non solo) fra colletti bianchi e tute blu. Con i primi a decidere della sorte dei secondi. Forti del loro peso e della loro sostanziale garanzia, poco più di 400 impiegati hanno sovvertito il voto espresso da quasi 5000 operai. Questa è la democrazia, daccordo. Questo il sistema scelto ed accettato da tutti, Fiom compresa. Ma che le veci dell’ago della bilancia vengano impersonate da quanti, in fondo, risentiranno men di tutti delle conseguenze della marchionizzazione, è per lo meno bislacco. Eppure sì che, loro, dovrebbero essere la parte “migliore” dell’azienda. Quella più istruita. Quella, si diceva un tempo nel profondo Sud, “studiata”. sarebbe bastato, forse, che l’avessero letto quella sottospecie di accordo sottoposto al laser del voto. Sarebbe bastato non dar retta agli echi di chi diceva: “O con il sì oppure andiamo via”.

Perché la delocalizzazione, gli “studiati” dovrebbero saperlo, è più che avviata. E non solo verso il freddo polacco o il belvedere rivierasco croato. Marchino Marchionne, tanto forte del paese di Pulcinella quanto prono in quello dello Zio Sam, ha iniziato a portar via, destinazione Detroit, le menti più brillanti dell’azienda italiana. Sta facendo letteralmente a pezzi la progettazione, stracciando come carta da culo la componentistica Fiat, (s)vendendo – per niente sotto banco per chi sotto il banco ci guarda – piani come quello delle macchine elettroniche ed imbarcandosi, di contro, i Suv.

Domanda: in un paese in cui il mercato delle auto è ai minimi storici, in crollo verticale (17% nel 2010 rispetto all’anno precedente e – 19% soltanto nel mese scorso), mancano piani d’investimento ed il prezzo d’acquisto delle famiglie scema mese dopo mese, chi potrà mai permettersi l’acquisto di un Suv? E, conseguentemente, a chi giova il nuovo piano di marchionne? Di certo, non agli stabilimenti italiani. Di certo, non a Mirafiori. Di certo, non agli impiegatucci modesti. Forse a qualche sindacalista corrotto e venduto.

A Peppino lo volevano bene tutti, anche le Pietre. Ma non Cerignola…

La piazza cerignolana come appariva con il murale. Guardiamola, osserviamola. Con il suo sapore di antico ed il totem comunitario al centro. Un simbolo? No, piuttosto un sintomo. Un sintomo positivo, un virus finalmente attivo che non uccide. Ma, che pur contaminando, salva. Rimanda ai tempi degli spaccamattoni e delle carte in mezzo alla strada; delle bigiate a scuola e dei mondi che si incontravano…

“LO volevan bene anche le pietre”. Pasquale Di Gregorio non era uno scrittore, un poeta, un regista. Era un bracciante. Uno di quelli che, schiaffeggiato nella dignità dal sistema piramidale di stampo feudale, ebbe la fortuna di conoscere Peppino Di Vittorio. Era lui, il Peppino bambino analfabeta che leggeva il dizionario, il Peppino lavoratore tra i lavoratori, quello cui volevano bene tutti. Pasquale Di Gregorio lo disse con la semplicità degli ultimi, senza forzare le parole. Lo disse facendo appello al minuscolo campionario che aveva a disposizione. Bello, bellissimo perché puro. Tanto bello che, il suo dire umile è divenuto un vero e proprio epitaffio della memoria bracciantile.

LA MEMORIA – Già, la memoria. Un nastro smagnetizzato, un copione sgualcito, una fotografia in malora. Una medicina che non fa più effetto, un libro datato, un documento scaduto. Abbandonata in un cantuccio solitario, abusata in un’alcova di novità roboante e catodica, sostituita dallo scintillante mondo dello show business. Indebolita per il cargo che porta addosso: un fardello di esperienze di libertà e bagliore rivoluzionario, di lotte e di stridere di cingoli colpevoli. E tutti i suoi insegnamenti. La memoria è ciò che dovrebbe restare, ma che non resta più. È una pistola senza silenziatore. Cui il potere fa di tutto purchè non detoni. Gli scempi sulla memoria sono i più facili da attuarsi. Basta prescrivere un po’ di nulla: l’indifferenza, l’incuria, l’oblio, la dimenticanza. È l’unico caso fenomenologico in cui, nulla facendo, si può vincere. Pompei, che pure frutta denaro, è un esempio eclatante. Per lo meno, ma solo in quanto si tratta di Pompei, fa rumore. Per il nome che è più nome di un altro. Pompei è più nome di Cerignola. Cerignola. Un tempo “la rossa” di Puglia, per quel suo quasi naturale affidarsi al Partito Comunista, per quel suo credo che era diventato una tradizione sedimentata. Un’arteria simil-emiliana nel cuore del Tavoliere. La terra di Giuseppe Di Vittorio. Di Peppino. E, qui, si torna all’inizio.

LA RIMOZIONE CERIGNOLANA – Lo volevan bene anche le pietre. Ad odiarlo, oggi, sono gli uomini. E, per giunta, i suoi stessi concittadini. Da tempo e con foga bipartisan, le amministrazioni del centro del Basso Tavoliere, hanno proceduto alla declassificazione, quando non alla rimozione totale, della Festa del Primo Maggio. In concreto, privando Cerignola di un consistente pezzo del suo mosaico bracciantile. Di mezzo, anche la Cgil nazionale che, ingurgitando progetti ed idee, ha messo al bando le intelligenze locali. Come Gianni Rinaldi.

IL PROGETTO DI RECUPERO – È lui la mente, il cuore e le braccia del progetto di recupero del murale “Giuseppe Di Vittorio e la condizione del Mezzogiorno”, una sterminata opera pittorica realizzata nel 1975 dal Centro di Arte Pubblica Popolare di Fiano Romano, guidato da Ettore De Conciliis. In realtà, più che un monumento al valore, più che un memoriale dell’uomo, il murale è un vero e proprio manuale di storia contemporanea. Nessuna agiografia del sindacalista cerignolano, ma la mappatura popolare della Capitanata e dell’Italia del dopoguerra, raccontate attraverso vicende tristi e violente e attraverso un campionario di volti e di espressioni.

LA STORIA – Negli anni Ottanta, il murale, originariamente collocato nella piazzetta della stazione (oggi Piazza Municipio), venne smontato e rimosso, per far spazio alla ristrutturazione dell’area. Ma come in una storia senza lieto fine, non tornò mai più nella sua originale dimora. Tristemente, laddove era Peppino con le sue masse, oggi c’è il lucernario di un parcheggio sotterraneo. Insomma, un buco bello e buono. E, ancor più tristemente, laddove brulicava la vita, con alberi e panche, con i giovani che bigiavano ed i vecchi chiacchieroni al pomeriggio, oggi s’impone un blando piattume cementizio, la cui monotonia va ben al di là della sparizione del murale.

CI PROVO’ TATARELLA – Già, sparizione. Perché, per oltre vent’anni, dell’opera immane di De Conciliis non si è saputo più nulla. Puf! Scomparsa nel nulla, persa nel ventre molle (letteralmente) di una cittadina troppo persa a frignare dei suoi problemi per dar peso (e senso) alle ricchezze che le avrebbero permesso di emergere. Gianni Rinaldi (che ha messo su una pagina fb, “Salviamo il murale di G. Di Vittorio”, che conta quasi 500 iscritti) confessa che, stando ad alcune fonti, qualche tempo fa, l’allora sindaco Salvatore Tatarella (per inciso, missino), tentò un recupero. “Onde poi – chiosa mestamente – accorgersi, evidentemente malconsigliato, che era tutto inutile”. A metterlo in salvo, come qualche anno prima, furono alcuni operai, gelosi della storia che il quadro narrava. Dopo un altro silenzio dilatato nel tempo, la scoperta di Rinaldi, due anni fa. Guarda caso – ma realmente caso – nei magazzini comunali di Viale Sant’Antonio. Ovvero, nei locali della prima Camera del Lavoro cerignolana. “Quella di Peppino Di Vittorio”. Un segno del destino che, tuttavia, non basta ancora.

UN’OPERA IMMANE – L’opera è enorme, circa 130 metri quadri di superficie pittorica. Va da sé che, spezzettata e smontata, risulti letteralmente inintellegibile. Anche se, è certo Rinaldi, non irrecuperabile. E dice la sua: “I tasselli raccontano tante storie, ritraggono volti noti e meno noti, scene storiche spesso indipendenti l’una dall’altra. Per un contenitore culturale, una ricchezza di dimensioni spropositate. Se ne possono ricavare, nel peggiore dei casi, tanti diversi quadri, ognuno dei quali racchiude un pezzo di Mezzogiorno o, meglio ancora, un pezzo di Capitanata”.

COMUNE PADRONE – Ma ogni mossa non può che essere concordata con il Comune di Cerignola. Fu il Comune, oltre trent’anni fa, a commissionare la realizzazione del murale. Fu sempre il Comune a sceglierne la collocazione e a deliberarne lo spostamento. Ma sono state anche le amministrazioni (“di qualsiasi colore”, si lamenta Rinaldi) ad abbandonarlo. Malgrado tutte le difficoltà incontrate per superare i veti della Prefettura che nel 1975, aveva forti tendenze anticomuniste ed antipopolari. E, ancora oggi, Palazzo di Città è il proprietario dell’opera. Ma, fino ad ora, a parte il succitato Tatarella e qualche timido approccio di Matteo Valentino (grazie soprattutto all’opera di Franco Palumbo, assessore alla Cultura), l’Ente ha fatto poco o nulla. Antonio Giannatempo, l’attuale sindaco, non ha ancora preso una posizione. Né ufficiale, né ufficiosa.

E così la memoria, timidamente, aspetta. In attesa di poter ritrovare sé stessa, in attesa di essere ancora utilmente responsabile del presente e del futuro. In attesa di egemonizzare la bruttura debosciante alla causa della bellezza. Che, come disse Camus, è libertà.

Figli d’Italia

C’è qualcuno che sostiene una teoria stramboide: prima di giudicare un libro, occorre averne letto almeno 99 pagine. Ebbene, mai come nel caso de “I treni della felicità” (Giovanni RinaldiEdiesse), questa definizione fu tanto sbagliata. Inizia con una telefonata, col trillo vivo di un telefono, e termina con un abbraccio, con il punto esclamativo sentimentale. In mezzo, è un sovrapporsi di respiri, parole, viaggi, vissuti, passati e presenti, foto, pietre e scontri. Manca il superfluo, quel surplus punzecchiante e fastidioso, il rutilare delle parole vane inchiostrate tanto per occupare spazio. Per questo, a Giovanni Rinaldi, di pagine ne occorrono molte, ma molte meno della metà per raggiungere il suo scopo: che è quello di riportare alla memoria collettiva una serie di episodi che, messi insieme, l’uno sull’altro, costituiscono un unicum storico.

“I treni della memoria” raccoglie, nella fattispecie, gli elementi per la ricostruzione del meccanismo solidale messo in piedi dall’Udi. La guerra era alle spalle, il dopoguerra portava a galla vecchie e nuove povertà. Le famiglie stentavano a trovare la quadra. Economica, innanzitutto. Ma anche a riequilibrarsi socialmente. Troppi figli ed un lavoro che, spesso, non rendeva. Furono allora le donne comuniste a dare un aiuto concreto acchè la situazione si sbloccasse. E vennero messi in piedi dei veri e propri viaggi della speranza. Vagoni carichi di bambini spediti a Nord presso famiglie più agiate. Per un pasto caldo, per un cappotto nuovo, per delle scarpe ai piedi. Alcuni tornarono col tempo. Mesi, anche un paio d’anni. Altri decisero diversamente. Giovanni Rinaldi va a riprendere queste storie ammassate per dar loro una nuova dignità storica. Eppure, il suo, non è propriamente un saggio. Piuttosto, ha la forma di un portolano antico narrato con un linguaggio marcatamente militante. È la traccia segnata, di punto in punto, di approdo in approdo, su una mappa che si snoda su più livelli. Moli sono i paesi tra cui l’autore fa da spola incessante per raccogliere le storie che sarebbero dovute confluire nel documentario “Pasta Nera” di Alessandro Piva. Battelli, i treni. Quella sommatoria di banchine e di vagoni, dimore di ricordi, capaci di trascendere il tempo e condurre nel passato.

Un diario che è un moto continuo fra Nord e Sud, fra Puglia ed Emilia Romagna, fra Campania ed Emilia Romagna, fra Lazio ed Emilia Romagna, fra Emilia Romagna ed Emilia Romagna. Pagine per annotare cosa ne è stato di quei bambini. Gianni Rinaldi cerca loro. E li fa parlare. Spesse volte fa in modo che si rincontrino. Eppure sfugge alla sindrome di Moccia. Non ha bisogno di ceselli, di dispensare buonismo a piene mani. Non spaccia panelle di pietismo a buon mercato. E certo che il terreno dell’infanzia è più che minato. Anzi, di fronte al sentire emozionale, si tira indietro, si mette in un cantuccio, intimorito, in disparte. Perché “I treni della felicità” è un libro che non vuole commuovere. Ma far pensare. E ci riesce. Con i suoi aneddoti, le battute, con la riproposizione di datati bigottismi. È un libro che emoziona, muove alla rabbia e muove alla gioia.

Per questo, cortesemente, non definitelo “storico locale”, Gianni Rinaldi. Perché è estremamente di più. È il custode di un passato che odora di pane rancido e stordisce come l’olezzo del sangue orgoglioso affossato dai fucili scelbini sui selciati del Meridione, dietro le povere barricate di carretti. È lo scrigno più prezioso delle gemme umane estraibili dalla Capitanata. Da preservare. E conservare. Con cura.

Giovanni Rinaldi, “I treni della felicità”, Ediesse 2009 Giudizio 4.5 / 5
p.ferrante@statoquotidiano.it

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