Per una sera Foggia ha ucciso paranoia

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Una Festa Mesta, come il titolo di uno dei loro più celebri pezzi. Ma solo nel pubblico. Perché i Marlene Kuntz, che hanno chiuso il sipario del calendario estivo foggiano, hanno energizzato, per una sera soltanto, il teatro Mediterraneo. Arrivati da Cuneo per assurgere al ruolo di multivitaminico del Foggia Estate, in definitiva. Calato nel grande corpo della città in maniera coatta. Come una siringa. Somministrato a grandi bustine effervescenti dal sapore acidulo e grezzo. Un appuntamento per esperti del settore, qualcuno commentava, il concerto dei Marlene Kuntz, che però ha raccolto giovani e meno giovani, fino a riunire famiglie intere. La formazione piemontese, capitanata da un Cristiano Godano rinnovato nel look (capelli corti e sbarbato rispetto all’inizio della tournèe), ha coinvolto fino al ballo sfrenato, fino al pogo, le seicento persone accorse nello spazio concerti di Via Galliani. Tasto dolente, quello della scelta della location. Relegato in soffitta lo sconclusionato progetto del Teatro Tenda, immotivatamente snobbato il campo Fiera, lo spazio è risultato certamente inappropriato per l’accoglienza di un evento del genere. Non tanto per la risposta della cittadinanza, innamorata, stando alle cifre, dei classiconi strappalacrime alla Claudio Baglioni. Quanto più perché, la disposizione di sedili e palco ha funto da deterrente rispetto ad un concerto da viversi al top dell’adrenalina. Da Sonica, a Cara è la fine, da Ape Regina a Questo e altro da Ineluttabile a La canzone che scrivo per te, fino ai pezzi del loro ultimo lavoro, “Uno” (anno 2007), i Marlene hanno ripercorso tutto il repertorio che li ha resi celebri a livello nazionale. Sonorità sporche, eruttate dalla chitarre graffianti di Riccardo Tesio, dalle pulsazioni iperventilanti della batteria di Luca Bercia, dall martellare del basso di Luca Saporiti, dal lamento malinconico del violino di Davide Arneodo. Riff che ormai sono pezzi consistenti del panorama musicale nazionale, testi che, nella loro profonda difficoltà, richiamano al cuore la rabbia e l’amore, la disperazione e la speranza. E la voce del leader e trascinatore, Godano, a fissarli nelle orecchie degli ascoltatori ed imprimerle nel cielo della Capitanata. Stretto nella sua camicetta nera su pantaloni a zampa, sbruffone in quella sua aria dark, strafottente negli sguardi con cui si regala al pubblico da distanza più o meno ravvicinata, sull’ultimo lembo del palco, prima del fossato che lo divide dai fan. La scaletta regala anche Impressioni di Settembre, uno dei manifesti delle generazioni progressive degli anni settanta. Un salto indietro nel tempo, mascherato. Con gli Mk, il pezzo targato Premiata Forneria Marconi (è il primo singolo della band e risale al 1971) si traspone, si sporca, si imbastardisce, forse in meglio, acquistando una carica maggiore di potenza. Perdendo parte delle sue atmosfere poetiche ma subendo un tremendo scossone di rock. E la scena ne guadagna. Grazie anche ad una buona direzione del parco luci (peccato per l’acustica, scarsa, del Mediterraneo, che ha ovattato molte note, neutralizzandole fino a sbiadirle) e ad un Cristiano Godano che regge la scena da grandissimo professionista, abbozzando movenze suadenti a fremiti spasmodici. Tre volte sul palco, due uscite successive al concerto. Bis e ter chiesti ed ottenuti. Ed ogni volta, ricalcando il palco di Foggia, ogni volta sempre più energia e sempre più voglia. L’impressione è che tra musicisti e pubblico si sarebbe andati fino a notte fonda, fino a mattino. Fino a nuotare nell’aria.

(pubblicato su l’Attacco sabato 19 settembre 2009. Foto Francesca De Sandoli)

Published in: on 24 settembre 2009 at 22.29  Comments (1)  

Eroi oppure esaltati?

 

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Sei morti in Afghanistan. Si, morti. Perchè la morte non ha bandiera. Non sono morti militari, non sono morti italiani. L’esistenza di una persona in carne ed ossa puoi misurarla servendoti delle scale, dei paramentri, degli standard. Così le dai un mestiere, una nazionalità, una cittadinanza. Con i morti non puoi farlo. Al massimo, puoi dargli sepoltura. Sono morti degli esseri, dei corpi. Sono morti dei piedi, delle mani, degli occhi, dei cervelli. Forse, non so, dei cuori. Sono morti come sono morti tanti altri. Di quella che i professori a scuola, spiegagandoci la Commedia dell’Alighieri, ci hanno obbligato a definire “morte violenta”. Ho sempre cercato di trovare una morte che non sia violenta. Perchè violenza è ciò che porta cambiamenti. La morte è comunque una violenza. Non trapasso. Non decesso. Morte.

E allora, davanti a queste categorie; dinanzi a questa esaltazione smasmodica e squillante di una morte normale e cercata, mi fermo, mi domando e dico. Ma i militari italiani facenti parte delle truppe OCCUPANTI in Afghanistan, avessero fatto i pescivendoli, sarebbero morti? E se fossero morti da operai, da braccianti, da stagnini, investiti da un’auto mentre erano al lavoro, sarebbero diventati eroi comunque? I giornali avrebbero dedicato loro 13 pagine? Li avrebbero celebrati? sarebbero andati alla ricerca delle loro vite, delle loro foto? Oppure avrebbero trovato le loro storie così tanto “normali” da non meritare approfondimenti? E, quindi, la loro morte così scialba da diventare addirittura fantasma? Come mai, continuo a chiedermi, quando muore un operaio appena se ne parla. Ed, anzi, turba la quiete pacifica del berlusconismo latente in ogni italiano? Vale a dire quel senso di sicurezza che finisce per essere alterato da questi errori di sistema?

Come tanti che non si fermano alla retorica, ho visto anche io le foto dei militari. E non solo di quelli morti ammazzati mentre, con le loro autoblindo, percorrevano strade afghane, consumavano benzina afghana, respiravano aria afghana. Ma anche dei loro colleghi. Tute mimetiche ed armi da fuoco, spanate in facca ad un bambino, ad una donna, ad un vecchio. Questa è quella che loro chiamano missione di pace. E’, piuttosto, controllo. Obbligare gli altri, quelli che hanno bisogno, a credere che la pace risieda nella forza. Vivere sotto controllo, sotto il radar della bocca di un mitra, come l’occhio owelliano, genera rabbia. E la rabbia genera l’orgoglio. E l’orgoglio la voglia di riscatto. Dai fucili dei taliban, ai fucili degli occidentali.

E ricordo ancora con vivido candore, nella mente, le immagini e la prosopea nazionalista dopo l’altro grande attentato compiuto nei confronti di un contingente tricolore: il primo, quello di Nassirya (19 novembre 2003). Ricordo le celebrazioni, le bandiere bardate a lutto, stringate di nero, le mezz’aste. Ricordo il cordoglio di allora. Che è lo stesso di ora. Stesse facce sofferenti, stesse parole intristite, stesso convincimento di essere baluardi di una democrazia afghana che non è zoppicante. Semplicemente non c’è. E ricordo, soprattutto, la caserma dei soldati. Le bandiere della Repubblica di Salò. Tricolore, aquila e fascio. E, se non lo si fosse ben capito all’impatto visivo generale, la scritta: “camerati italiani”. Cherchez la femme. Forse è ora di tornare a riparlarne. Forsa è ora di aprire gli occhi. Di smetterla, ancora una volta, con la falsa retorice dell’eroe per tornare ad usare un termine: esaltati.

Published in: on 19 settembre 2009 at 22.29  Lascia un commento  
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I nuovi pescecani dell’Alto Tavoliere

squalo-sharkSoltanto una scheda elettronica. Il mezzo più semplice per manomettere i contatori della sua azienda dedita alla lavorazione del marmo e risparmiare sulla bolletta dell’Enel circa 300 mila euro. Settimio Passalacqua, imprenditore di Apricena, uno dei più affermati e stimati dell’alto Tavoliere, amministratore unico, storico ed indiscusso della “Passalacqua Marmi” è stato arrestato per furto dai Carabinieri per aver indebitamente utilizzato questo metodo per incidere, a risparmio, sulle spese di corrente. Il fatto è accaduto nell’agro di Poggio Imperiale. Storia vecchia, a quanto pare. Già da qualche tempo, infatti, gli ispettori romani dell’agenzia elettrica avevano individuato strane anomalie nei consumi dell’azienda dell’imprenditore apricenese. Con l’utilizzo della scheda, semplicemente apposta all’interno delle cabine elettriche, Passalacqua riusciva a stornare quando non ad annullare del tutto, una parte dei consumi giornalieri della sua azienda. Con il ritorno di cui, appunto, si diceva. Cosa non da poco, insomma, che focalizza il baricentro della questione soprattutto sulla qualità dell’imprenditoria della Capitanata. Un’imprenditoria notoriamente arrembante, spesse volte concentrata spasmodicamente nel mattone. Che ha in casi come quello della famiglia Passalacqua delle eccellenze non solo teoriche. Sperimentazione, allargamento dei mercati (con immissioni delle merci su piattaforme non solo territoriali e nazionali, ma con esportazioni anche in Europa), differenziazione della produzione. Dai prodotti della terra al marmo, strutture produttive che vanno in contro ai tempi. Macchinari e tecnologie d’avanguardia. Soprattutto guadagni. E tanti. Fatturati a molti zeri. Milioni di euro annuali. Ragione per cui inciampare sul furto dell’energia elettrica è molto più che un fallo. È un imbarazzo. Imbarazzo. Come quello che, fonti dell’Enel, assicurano di aver provato nel dover continuare a perseguire il ricco produttore che, scherzo del destino, in accordo con parte della produzione di famiglia, cascava sul proverbiale cetriolo dando ragione all’analisi generale dell’imprenditoria che traccia, rapidamente, l’architetto Domenico Potenza a l’Attacco: “Senza generalizzare, la nostra è un ceto di uomini d’affari che non ha un’alta cultura imprenditoriale. Una classe che tenta di maturare, che cresce, cresce, cresce per poi arrestarsi di colpo senza un apparente motivo”. Già, perché è difficile spiegare i motivi di un uomo, Settimio Passalacqua, rispettato dalla politica. Settore in cui aveva molti agganci. Le sue aziende erano spesso additate come un modello positivo. Sin da quando, prima della divisione delle aziende (con Settimio a continuare a scommettere sul marmo ed il fratello, Nino, che prende la strada del biologico), venivano visitate. Come un paio di anni fa, quando aprì le porte all’allora ministro dell’Agricoltura De Castro. Un uomo che ha creduto e crede nella possibilità di perpetuare il suo lavoro all’interno dei settori di famiglia. Che ha consentito ai figli di specializzarsi. Chi tra affari, chi nel settore della comunicazione. Difficile trovare, ad Apricena, qualcuno che sia pronto a credere alla storia dell’arresto del furto su due piedi, senza consentire che lascino margini al dubbio. Passalacqua, in fondo, rimane sempre l’imprenditore che, prima di Coccimiglio, tentò di acquistare il Foggia Calcio per salvarlo dalle sabbie mobili della C2. Che si lancia, da oltre trent’anni, in imprese imprenditoriali all’avanguardia. Un giocatore incastrato dalla logica del doping, del vincere facile. Vecchio vizio delle nostre classi affaristiche. E si vince facile quando si bluffa laddove nessuno se lo aspetterebbe mai, nel quotidiano. È per questi motivi che i commenti della comunità apricenese, nei pochi casi in cui, anonimamente, sceglie di sbilanciarsi in un commento, sono sorpresi. Perché anche il mondo delle istituzioni si chiude a riccio, in posizione di prudente difesa. L’assessore comunale Tommaso Pasqua è la sintesi dei telefoni che squillano a vuoto: “Non compete a noi commentare. Non siamo imprenditori. Non sappiamo nulla e non abbiamo nulla da dichiarare”. Altri, paragonano il risparmio derivato per un’azienda tanto florida ad un “furto di pollame”. L’ammontare della somma, 300 mila euro, ad “un carico di broccoli”, ad una “partita di materiale”. Già, perché il marmo rende parecchio dalle nostre zone. La sottrazione del bene comunitario, dell’articolarsi frenetico per risparmiare gli spicci è un rito antico e ricorrente, diffuso in quei settori popolari di chi la giornata non la sfanga. Di chi si arrabatta tra lavoro pesante e stenti. Gli allacci abusivi, una pratica che, ad Apricena, ci confermano, “è in voga nelle 167”. Ma è altra storia, sono altri scenari sociali, altri humus, altre classi. Soprattutto, altre esigenze quotidiane.

Published in: on 18 settembre 2009 at 22.29  Lascia un commento  

Scorie radiattive non normalizzate

vauro030909Alla fine ce l’ha fatta. Malgrado l’opposizione (scandalo!) dei mezzi d’informazione, la mobilitazione di intellettuali e popolo di internet, l’insurrezione della stampa, Silvio Berlusconi ha deciso di andare avanti. Annullato “Ballarò”, trasmissione standardizzata, ammorbata da un dibattito sguaiato ma comunuqe libero, la Rai a monopolio papy, manderà in onda Porta a Porta del giannizzero berlusconiano Bruno Vespa. Un’intollerabile violazione del diritto d’informazione, l’ennesimo paradosso di uno Stato che si professa libero solo in quanto ancora coinvolto nell’imbarazzante rito, ormai annuale, del deporre la scheda nell’urna. Uno Stato farsa in cui il Capo del governo democratico è abbondantemente fuoriuscito dal seminato democratico, invadendo gli spazi pubblici e quelli privati. Riempiendo di spazzatura le televisioni private e pubbliche. Invadendo con prodotti e negozi i vissuti quotidiani- Sistematici messaggi che fungono da lavaggi del cervello. Ecco perché il berlusconismo non solo sopravviverà al suo illustre fondatore, ma ne sarà l’eternificazione. L’epitaffio immortale di un leader imbattibile. E, nel contempo, di una generazione arrendevole che nulla ha fatto per ribellarsi al suo latifondista.
Già, perchè se Silvio ed i Silvini permangono in sella ai loro posti di prestigio, è anche perché l’opinione pubblica s’arrende al nulla, proclamandosi sterile dinanzi al potere, inconcia e dimentica dei propri stessi numeri, della forza delle proprie opinioni. L’auspicio è che si tratti solo di un momento di silenzio, di un parziale appannamento delle coscienze civili, delle criticità mentali. L’augurio per l’Italia è che, nel Paese, ci siano ancora scorie radiattive sfuggite alla normalizzazione. Non più, come ha avuto a dire dalle colonne de “La Repubblica” Curzio Maltese, “per convinzione politica, ma per buon senso, decenza e amor di patria”.

Published in: on 16 settembre 2009 at 22.29  Lascia un commento  
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