L’ultimo partigiano di Foggia è andato. Te lo ricordi, foggiano?

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Foggiano,

Te lo ricordi il suono di quel bastone lento che andava via per le strade di Foggia, e quell’uomo sottile come un fuscello ma forte come un tronco che vi si appoggiava?

Te la ricordi, la sua voce sempre chiara, che amava perdersi nei rivoli del tempo, tra opinioni, una canzone partigiana, qualche memoria sbiadita e l’ansia di un futuro da non lasciarsi rubare?

Te li ricordi quei comizi del primo maggio, le celebrazioni ufficiali del 25 aprile a piazza Italia, la lapide di Nicola Stame che lui ha voluto e che esorcizza l’influsso di quegli enormi fasci messi lì dal camerata Agostinacchio?

Te lo ricordi quel cappello che non toglieva via nemmeno nella canicola dell’estate foggiana, 40 gradi e lui sempre lì lo teneva, in testa, schiacciato e fiero come un pensiero? E i suoi occhiali da sole, te li ricordi? E ricordi la sua giacca che, a vederla, ricordava “il cappotto cammello” di De André?

Te lo ricordi quel fazzoletto tricolore che con gli anni andava sbiadendosi e che lui diceva essere sempre lo stesso, anno dopo anno, lustro dopo lustro, decennio dopo decennio?

Te li ricordi i suoi ricordi? La guerra in Africa, il Partito Comunista, le rivolte finite male, Bella Ciao cantata a mezza voce e con qualche refuso, come l’inno dei lavoratori.

Te la ricordi la sua dignità, e te lo ricordi l’ardore che ci metteva nella lunga strada per far intitolare a Nicola Stame il teatro del fuoco? E la sua ostinazione nel presentarsi fuori dal Palazzo della Provincia tutte le mattine, mattina su mattina, barcamenandosi silenzioso in un’anticamera tenace, te la ricordi?

Te li ricordi quei fogli che portava sempre con se e di cui non si stancava mai? Erano il capitolo finale della sua biografia non scritta, il riassunto della sua ultima battaglia, una voce lasciata sulla carta, per scuotere via dalla veste di Foggia quella patina storica di “città fascista” a cui lui, Mario, non si era mai arreso.

No,

forse non te lo ricordi, Mario Napolitano. Forse neppure sapevi esistesse. Eppure lui è sempre stato lì. Pronto ad invaderti le ore con il suo carico di convinzioni inscalfibili, vecchi racconti e sentimenti puri. E non voleva soltanto renderti parte del suo mondo. No, lui voleva proprio convincerti. Farti cambiare idea. E adesso, porca miseria, se n’è partito senza nemmeno avvertire, senza dare un cenno. In silenzio. Lui, per cui la riscossa era un modo di vivere e non l’occasione per trovare una morte da annali, se n’è andato nel momento più buio per la città, scossa tra bombe (non quelle che Mario ricordava con dolore, quelle degli americani), povertà, indifferenza, odio di parte e resa sociale.

E’ tutto così assurdamente triste, oltre ad essere un contrappasso immeritato per chi ha sempre avuto fiducia (a prescindere) nei suoi concittadini.

Per quel che vale, proviamo a ricordarlo adesso, come lui avrebbe voluto. Apriamo le porte al vento della dignità, facciamolo entrare nelle case e scorrere nelle strade, lasciamo scorrere la libertà e l’orgoglio, portiamo nelle scuole quegli esempi incontrovertibili di pulizia etica e storica: rispolveriamo e tiriamo fuori la storia di Nicola Stame, i massacri delle Fosse Ardeatine, le lotte antifasciste e quelle per il diritto al pane e al lavoro.

Facciamolo nel suo nome, ma per dare un senso alla cittadinanza di tutti noi. E sentiremo un bastone che batte. Come un applauso, come un tuono di felicità.

Quelle ingiurie che noi foggiani non possiamo ingoiare. Lettera (semi) aperta a Lello Di Gioia. Ovvero: onorevole, lo conosce Nicola Stame? (e la sua risposta)

“Non farò denunce. Dalle mie parti non funziona così”. Edizione nazionale de La Repubblica. Parla così, in un’intervista, il presidente della Commissione parlamentare di controllo sugli enti di previdenza e assistenza sociale. Il suo nome, Lello Di Gioia, è –ahinoi – indissolubilmente legato alla politica della città di Foggia.

Socialista vecchia scuola, Lello Di Gioia. Vecchia, ma non abbastanza vecchia da richiamare binomi con i nomi sacri: a Sandro Pertini, Giacomo Matteotti, Lelio Basso,Lelluccio ha sempre preferito – non è un mistero – l’esule di Hamamet. Lello Di Gioia, siore e siori, va più di moda come modernariato. Un eterno modernariato. Sopravvissuto alle stagioni politiche, ai monocolore e alle rimestanze. Battitore libero perché, come ogni battitore libero, può scegliere di volta in volta il tetto sotto il quale accasarsi. Ora di qui, ora di lì.

In Parlamento c’è finito in quota Partito Democratico. Poi, eletto, si è defilato ed è andato a popolare le fila del gruppone misto. Manovre da politica stracciona, imberbe e cinica, che però rende. Ed ha reso fino all’incarico (di cui all’inizio). Portafogli pieno e potere in saccoccia per uno che, notoriamente, pare si trovi molto a suo agio nella dilazione di un favore qui e uno lì.

Lui nega. Lui ha sempre negato. Anima candida e illibata, lui. Nega e non parla. Forse che “dalle sue parti” sia così che si fa? Lui scarica la sua pochezza di uomo e di politico adducendo psuedo motivazioni antropologiche, lui. Lui alza le mani, fa spallucce e dà la colpa alla foggianità brutta e cattiva che è ignavia. E che ci può fare, lui, se è venuto al mondo così? I fondo, se finanche la psicologia evolutiva ha impiegato decenni a venire fuori dal complesso e diconomico intrico natura/ambiente, lui, che tutti chiamano l’Onorevole, che cosa diamine può farci.

Arrendersi, no?

E allora ricominciamo dall’inizio. Che è anche la fine dell’intervista su Repubblica.

Ricominciamo da quella frase: “Non farò denunce. Dalle mie parti non funziona così”. 

No, caro onorevole, dalle sue parti NON funziona così. Forse quelle sue parti, o una parte di quelle sue parti, lei le percepisce così perché vorrebbe che così fosse.

Dalle sue parti NON funziona così. Altrimenti non avrebbero un senso le lotte per la dignità di Peppino Di Vittorio (dovrebbe ricordarlo, Di Vittorio; prima di passare al Partito Comunista, ebbe una lunga riflessione circa l’opportunità di lasciare il Partito Socialista), il sangue sull’asfalto dei braccianti a Torremaggiore e San Severo; non avrebbero avuto senso i circoli anarchici di San Ferdinando e il martirio per la libertà di Nicola Sacco. Se le cose, dalle sue parti, funzionassero così (laddove così è quell’impasto di silenzio e connivenza che lei immagina e pratica), non sarebbe stata, la Capitanata, una delle prime terre, se non la prima, ad alzare, negli anni Venti, la testa contro il fascismo nascente denunciandone (ha letto bene e glielo evidenzio: denunciandone) la violenza. Se le sue parti funzionassero nel suo così, non avremmo avuto i Marcone e i Panunzio, i morti ammazzati e trucidati perché portatori sani prorio di quella cultura degnissima, figlia della povertà, del bracciantato, dell’abbandono, della ribellione. terra che ai Federico ha sempre preferito i Masaniello.

Quelle sue parti, sono le nostre parti, caro onorevole. E dalle nostre parti si denuncia, si vive, ci si ribella, si soffre, si alza la testa. E se non le sta bene, si trovi un’altra parte dove vergognarsi. Che non sia Foggia. E che non sia il Parlamento (come lei stesso dice).

Chiudo con una domanda.

Lei lo conosce Nicola Stame?

Forse no.

Nicola Stame era un tenore, un grandissimo tenore. Un uomo bellissimo, affascinante. Il suo volto, la sua voce e il suo sorriso erano puro romanzo meridionale, erano atti di forza contro la barbarie fascista. Lui e non lei, è uno delle nostre parti, con la forza delle nostre parti, con il cuore delle nostre parti. Uno morto in altre parti d’Italia perché non non aveva scelto il silenzio. Precisamente fucilato. Alle Fosse Ardeatine.

Guardi questo link (alla Camera avrà la wi-fi, non le tocca neppure sostenere costi) che le allego. E’ tratto da Rappresaglia, un film del regista greco George P. Cosmatos. Nel video, la colonna sonora originale è stata opportunamente sostituita con un passo dell’opera lirica Il Trovatore di Giuseppe Verdi interpretato dallo stesso Stame nel personaggio di Manrico.

Eccolo: https://www.youtube.com/watch?v=-JyVlfe6Ujk

Non aggiungo altro. Impari solo il senso delle parole. E della Storia

Piero Ferrante – uno qualunque delle sue parti

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LA RISPOSTA DI LELLO DI GIOIA (a noi pare che no, non lo conosca Nicola Stame, ndr)

Egregio Signor Ferrante,

vorrei semplicemente soffermarmi su una questione che lei sistematicamente riporta, e che riguarda  l’ultima parte di una “non intervista”.

Sicuramente sono stato molto ingenuo perché nel momento in cui il suo collega de La Repubblica mi ha chiamato e avendo stabilito di parlare in modo tranquillo, senza rilasciare intervista, mi sono permesso di fare alcune dichiarazioni con l’articolista e che riguardavano la mia persona e il mio modo di vivere.

Le posso semplicemente dire che il “non denunciare che dalle mie parti non si usa cosi” non era certamente riferito  -come potrà confermare chiunque-  ad essere omissivo, nel conoscere fatti e non dirli e non denunciare alle autorità competenti, bensì che noi non siamo abituati a fare così: ossia di non denunciare i giornalisti che scrivono l’articolo. Perché, io più di altri, credo nella libertà di stampa e credo anche sia giusto pubblicare notizie, sempre che siano verificate di fatti, pur essendo stato attaccato più volte, non mi sono mai permesso di denunciare un giornalista. E credo che questi siano i fatti.

Inoltre, e chiudo ringraziandola per le sue considerazioni, fermo restante che è opportuno conoscere a fondo le persone prima di esprimere giudizi: il sottoscritto ha subìto ben tre furti, la macchina rubata e due in casa, ho esposto, come qualunque cittadino, denuncia alle autorità competenti. Ho ricevuto minacce, sia presso la mia sede con bossoli di fucile; nonché furti per due volte nella stessa sede, pallottole di pistola contro la mia abitazione e qualche mese fa un lettera minatoria con foto. Anche in questo caso ho sporto regolare denuncia.

Certo che il tempo, anche se amareggiato, farà emergere tutta la verità. Le chiedo semplicemente, con l’umiltà che mi contraddistingue, di avere pazienza.

Distinti Saluti, Lello Di Gioia

17/03/2014

Published in: on 18 marzo 2015 at 22.29  Lascia un commento  
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Scappiamo tutti da Foggia, lasciamoli soli

Sarebbe tutto estremamente più semplice se la politica fosse come la tastiera di un computer. CTRL+ALT+DEL e passa la paura. Una digitazione contemporanea di tasti e puff! fuori dalle pal… dalle stanze i caporali della malapolitica, i mammasantissima dell’affare, gli schiavetti zelanti dell’Occidente, i donabbondio del liberismo internazionale, gli esecutori della volontà delle banche.

Sarebbe tutto più semplice tanto più leggero è il programma da chiudere, senza possibilità di salvataggio dello status. Un secondo e via, nel cestino, in fretta a svuotare anche quello e ricordi di sciagurate esperienze che si perdono tra immagini digitali, icone dei solitari e quelli dei documenti word.

Sarebbe tutto più semplice, ma non è così. E allora serve elaborare nuove strategie, nuove forme di comunicazione, nuovi ingressi per dire sempre e comunque la stessa cosa: che non è la politica ad essere marcia. Ma che lo sono (quest)i politici. Che non è il sistema dei partiti ad essere corrotto e infradiciato di melma, ma lo sono (quest)i specifici partiti (tristi eredi di quelli peggiori della prima Repubblica che hanno, a loro volta, nomi e cognomi: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Movimento Sociale sopra tutti).

Dopo tanto tempo, gli argomenti si sono commutati in tiritere. In fondo, anche il più grande dei cantautori, alla lunga, finisce le idee. Identicamente, le corde delle opposizioni rischiano di suonare sempre la stessa nota. Intonata, bella, sognante, ma cacofonica, evidentemente, per un mondo che è stanco di sentirla. O, forse, troppo perso dietro pornografie quotidiane a base di fast food e tecnologia, di tacchi a spillo e shorts, di Pulcinipio e di Padripio.

A Foggia, la pornografia del potere si chiama cemento. E in realtà propone film tromberecci a base di accoppiamenti tra imprenditoria e tecnostrutture, politica e denaro, mafia e denaro, imprenditoria e politica, malaffare e mafia. Un’orgiona collettiva e godereccia che sfonda sempre lo stesso pertugio: quello di una città di anno in anno palesemente rinsecchita e sformata, non più attraente, e che alle curve della popolarità agricola ha sostituito la spigolosità diffidente e grigia dei palazzi.

Foggia. Abbiamo provato a difenderla. Generazione dopo generazione. Abbiamo provato ad andarle vicino al viso e a sollevarglielo mettendole dolcemente due dita sotto il mento. Sussurrandole che sì, volendo poteva farcela a scrollarsi di dosso la polvere e anche la sporcizia. Che non era polvere ma amianto e che la stava e la sta uccidendo di una malattia lunga e dolorosa. Foggia. Abbiamo provato a sferzarla. Chissà, forse qualcuno avrebbe ascoltato le preghiere laiche dei giovani e dei meno giovani che, un filo d’amore, forse ancora ce l’hanno. Ma le orecchie di chi avrebbe dovuto ascoltare sono rimaste sorde. Sorde alle critiche, sorde alle richieste d’aiuto. Sorde ai rumori delle manette che si chiudevano sempre attorno agli stessi polsi. Sorde ai rumori delle pistole che sparano in mezzo alla gente. Sorde alle domande inevase.

Sorde, ora abbiamo capito, tutti, perché. Perchè al banchetto orgiastico, quello in cui ci si spartiva gli interessi, c’erano anche loro. I “potenti”. Che potenti, a ben vedere, proprio non lo sono. Facevano affari con quelli che sono sempre stati loro amici e che lo sono rimasti anche una volta svestiti i panni di privato e indossata la fascia tricolore. Hanno creduto che di fronte alle rivendicazioni della parte pulita di Foggia bastasse difendersi, addirittura minacciare. Ma, solitamente, funziona che chi si difende dal bene è perché in testa ha il male.

E allora la soluzione è una. Ed è un appello a tutti. Non solo ai ragazzi. A “quelli che hanno studiato e che sono sprecati”. No. Ma anche alle donne, ai bambini, ai vecchi e ai vecchissimi. A tutta la gente pulita. Agli onesti. A chi crede nell’amore sapendo che, a volte, il bene dell’amore è doversene staccare. Andiamocene. Scappiamo. Compiamo una fuga d’amore. E’ la nostra sola arma politica, piena di coraggio. Non abbiamo altre armi che quelle della solitudine. Lasciamoli soli. Soli di non fare affari sulla pelle di nessuno. Soli a marcire sotto le tonnellate di monnezza che hanno creato. Lasciamoli soli con i loro palazzi vuoti, con i cassonetti bruciati, con le discariche che hanno contrattato. Lasciamoli soli di bearsi del nulla. Sparpagliamoci per il mondo, vicino o lontano, non importa. Cresciamoci. Diamoci nuove possibilità di conoscere. E lasciamo i soliti fare affari con i soliti, quando non servirà più a nulla. Creino pure altre Foggia. Foggia due, tre, quattro. Le facciano come sanno. E le lascino vuote.

Lasciamo i governanti senza un popolo. Lasciamo gli amministratori senza amministrati. Decidano sulle loro teste e – se resteranno – su quelle dei loro familiari e dei loro accoliti.

Foggia, resisti – canto di-sperato di un foggiano fuori sede

Foggia resisti. Sali sulla montagna della giustizia, sui picchi della reazione, dell’orgoglio, esci dal fondo più fondo dove ti hanno gettato, risali la china. Foggia non morire.

Foggia resisti. Caccia fuori le unghie, tra fuori tutto quella forza di cui sei capace, riappropriati della dignità che era dei tuoi braccianti, dei tuoi ferrovieri, dei tuoi bibliotecari coraggiosi. Foggia resisti. Isola i delinquenti, i farabutti, i criminali, torna a fare società, metti al bando chi si vanta di essere ignorante, rigetta chi si bea di amarti ed invece di odia.

Foggia resisti. Scuotiti di dosso la polvere della paura, rispondi alle bombe con un’esplosione di gioia e di voci, con un trionfo di colori e di energia.

Foggia resisti, buttati per strada, occupa gli spazi, sentiti sempre nel posto giusto al momento giusto, viola le zone rosse del terrore, riannetti i quartieri, le periferie, il centro, sbianca tutte le zone grige, illumina i coni d’ombra, inonda della purezza dei bambini e degli anziani la violenza, fino a soffocarli. Foggia reagisci. Protesta contro chi ti mette agli ultimi posti di tutte le classifiche, ma fallo costruendo palazzi senza soffitti, che guardino al cielo. Foggia organizzati, reclama quello che ti spetta, pretendi di partecipare alle decisioni, ribellati alla bruttura del cemento e della spazzatura.

Foggia resisti. Non fare finta che attorno a te non ci sia che la tua ristretta cerchia di amici, familiari, colleghi. Foggia sindacalizzati, Foggia risvegliati.

Foggia, per una volta non accontentarti di perdere di misura o di pareggiare facendo catenaccio in attesa dell’acquisto che non giungerà mai. Foggia, vinci.

Il papa di Foggia, la dignità, le istituzioni in silenzio

La scena del delitto (copyright: Stato)

Foggia – UN CIELO plumbleo che non promette nulla di buono. Per la giornata, nata strana. E, metaforicamente, per l’anno 2012. L’anno dei Maya e del decennale dell’Euro. L’anno che potrebbe, per la prima volta nella storia, sancire il default del Comune di Foggia. Ma queste sono altre storie, tutte importanti ma tutte centrifughe. Presagi.

Un cielo plumbeo e pesante. Il cielo sotto cui si è svegliata Foggia. E una sensazione arresa che è diversa dalle precedenti. “Hanno ucciso Giosué Rizzi“. Lo dice la televisione. Lo ripete la radio. Lo dicono i giornali. Lo vomitano i siti. Prende posizione il mondo di facebook. E allora è vero, hanno ucciso Giosué Rizzi. Non lo scrittore (Rizzi aveva scritto un libro, “Giudizio e Pregiudizio”, a quattro mani con Angelo Cavallo), non il pensatore (quello cui i media continuavano a dar voce e le librerie spazio, nell’ira funesta del presidio foggiano dell’associazione Libera), non il pittore (diploma artistico conseguito in carcere, aveva cercato, “il riscatto nella pittura”) e nemmeno il blogger (http://www.giosuerizzi.it era il suo mesto sito, per nulla fantasioso, per nulla frequentato, per nulla commentato, per nulla sottoscritto). Hanno ucciso Giosué Rizzi il pregiudicato. L’attentato è stato ordito contro il ‘Papa’ (così lo chiamò Salvatore Annacondia, un pentito di quelli tosti, mica Cappuccetto Rosso).

Foggia si sveglia, il giorno dopo, con tante domande che ballano nelle strade, e con le paure ammucchiate ad ogni svolta. Chi ha ucciso Rizzi? Perché hanno ucciso Rizzi? Una vendetta dritta dritta dal passato, ricordo di quei tempi in cui il pittore-barra-blogger irrompeva nei locali pubblici per uccidere gente? Oppure la realizzazione concreta del fatto che le teorie dei giustificazionisti ad oltranza, dei comprensivisti, dei teoreti del ‘si ma ora è cambiato’ sono delle cantonate? E dunque, Rizzi non è mai uscito dal gruppo, al contrario di Jack Frusciante?

Lavoro per gli inquirenti, per i tribunali, per i pm. Forse, lavoro per la Dda. Le ipotesi non hanno mai fatto bene alla giustizia, concorrendo soltanto a spargere avanzi di pesce su un corpo attorniato da gatti e di per sé già maciullato. Perché Foggia ora è questo: un corpo in dissoluzione, e i sensi in attesa, sospesi a mezz’aria. I più cinici, in attesa di sapere. I più sognanti, in attesa di un cambiamento. I più speranzosi, in attesa di una reazione, foss’anche soltanto una nota scritta, da parte di un’amministrazione che, fino ad oggi, ha sempre rinunciato a prendere posizione sul tema (onde poi dare colpa alle deficienze di comunicazione). I più pessimisti, in attesa del prossimo morto, come nello stile delle guerre di mafia.

In un’intervista rialsciata qualche tempo fa, il ‘biografo’ del Pontefice criminale foggiano, Cavallo (che, vale la pena dirlo a scanso di equivoci, è estraneo a tutte le vicende), disse: “Credo che Giosuè non abbia nulla di cui pentirsi. Ha scontato i reati commessi e dichiarati, ha scontato il reato non commesso, che afferma nel libro [di cui sopra, ndR], cioè la strage del Bacardi che a suo modo di dire gli ha rubato i migliori anni della sua vita. […] siamo abituati ad una sorta di regola che pretende i pentiti da una parte e gli irriducibili d’altra parte. Forse esiste una terza via di chi non rinnega il suo mondo di riferimento (38 anni di carcere) ma allo stesso tempo trova una passione che fa sognare il futuro. Nel suo caso è l’arte”. Qualcuno, dunque, non deve aver gradito i suoi quadri. Per Foggia, per la gente, speriamo che sia così. Intanto, vorremmo tornare a sognare e vivere senza paura, senza l’angoscia di una nuova scia di sangue. Senza altre mattine plumbee da apocalisse culturale.

Questo, i cittadini lo devono a loro stessi: liberarsi di quel senso di tronfia superiorità reciproca che ingenera violenza. E la politica lo deve ai cittadini, perché non si può soltanto chiedere (soldi, sacrifici, comprensione). A volte giunge il tempo di concedere. E non ci sono giustificazioni, crisi, Corte dei Conti, verifiche o municipalizzate che tengano. E’ tempo di stringersi attorno alla legalità a tutti i costi. Le amministrazioni locali, i loro uomini, devono iniziare il girotondo, condurlo. Devono richiamare alla dignità collettiva. O crearne una, se proprio l’abbiamo dimenticata.

Foggia, ecco come nasce un’emergenza (con Video)

[Stato Quotidiano, 20 ottobre 2011]

Ore 10. Cassonetti in Via De Petra dopo il passaggio di un side loader (St)

Foggia – UN side loader enorme s’avvicina che sono le 9.53 ai quattro cassonetti ubicati alla convergenza tra Via De Petra e Piazza Achille Donato Giannini. Alle loro spalle, uno dei muri di recinzione del campo Coni, una piazzetta in asfalto, un abbozzo di parchetto caduto in digrazia, senz’alberi nè ciuffi verdi. E non è questione di stagione. I quattro contenitori della spazzatura, vecchi, sfasciati e bruciati in più d’una occasione, traboccano. Sono circondati di stracci, valige, borse, scarpe. Tutta roba resa lercia dalla presenza indiscreta di residui di cibo, banchetto buono per cani e ratti.

In città, tutti evitano con discrezione di parlare di nuova emergenza. Dall’amministrazione alla Cgil si fa il giro delle reponsabilità, patata bollente che scoppierà dai troppi colpi subiti. L’ipotesi più accreditata è che la maledizione dipenda dalla saturazione delle discariche e dall’estinguimento dei fondi.

Ed invece, quel che accade a Foggia parla un linguaggio diverso, già ampiamente documentato, ad esempio, dalle inchieste pubblicate dal giornalista de l’Attacco Francesco Bellizzi (poi minacciato proprio per aver addossato buona parte delle responsabilità ai dipendenti della municipalizzata). E che si ripete quotidianamente sotto gli occhi dei cittadini. In Via De Petra succede che, svuotati due cassonetti, il camion vada via, lasciando in terra la maggior parte del lavoro (ma questa è opera che compete alle squadre manuali, invisibili) e altri due recipienti così come sono: pieni. Va via il camion, che sposta anche di qualche metro la collocazione dei cassonetti, onde evitare ulteriori storture della struttura, restano invece due ragazzi, un maschio ed una femmina. Con le mani affondate nella spazzatura hanno fatto compagnia al mezzo dell’Amica per buona parte del tempo. La macchina con le quattro frecce, loro alla ricerca di vestiti. Sono giunti con una macchina bianca, di fabbricazione tedesca e targa bulgara.

C’è da pensare che, più che i mezzi ed il carburante, alla politica servano delle mani che raccolgano quanto resta in giacenza sull’asfalto, a nutrire l’emergenza e a fagocitare gli ultimi scampoli di pulizia di un capoluogo in scacco della sporcizia. Come a conferma, dall’altra parte della strada, circa tre-quattrocento metri più avanti, dove Via De Petra s’interseca con via Luigi Einaudi (è una zona di cui abbiamo parlato spesso e che accoglie lo scheletro di un parco giochi trasformato in ectoplasmatica presenza) in uno spiazzo adibito a parcheggio a pochi passi dalla sede dell’Aci di Foggia, due side loader si incrociano. Gli autisti parcheggiano, scendano dalle rispettive cabine, si parlano in maniera concitata per qualche lunghissimo istante. Sbraitano. Ma è come se nessuno notasse che, a due metri da loro, due cassonetti strabordano di spazzatura. Quando risalgono, uno scappa in un senso ed uno nell’altro, mentre i cassonetti rimangono pieni ed intatti. Neppure dieci secondi dopo, due residenti di Via Luigi Imperati s’accostano, danno una rapida occhiata a quei mezzi i dissolvenza e scagliano con fare nervoso altre buste in terra. Proviamo, occultando la nostra identità, a brontolare, li riprendiamo. Loro rispondono per le rime e lamentano che non ci sono altre soluzioni. E indicano le sagome meccaniche dei mezzi che non ci sono più.

1. I DUE SIDE LOADER DI AMICA SI INCROCIANO IN UNO SPIAZZO DI VIA DE PETRA

CONFESERCENTI:”AUTOGESTIONE DEI RIFIUTI” – La loro è un’accusa silenziosa ma inappellabile, che fa seguito, senza clamore, a quelle lanciate, in questi giorni, da svariate associazioni cittadine. Tutte indignate e tutte identicamente convinte che l’errore sia a monte, nel sistema di gestione, nell’incapacità di chi raccoglie e di chi smaltisce, nella pochezza di un piano incosistente, piuttosto che nella mancanza di disciplina dei singoli. Proprio oggi, Carlo Simone, presidente provinciale di Confesercenti, ha lanciato un nuovo disperato appello a fare presto per scongiurare il deterioramento di una situazione ormai

2. I CASSONETTI DOPO IL PASSAGGIO DEI SIDE LOADER. NON LI HA SVUOTATI NESSUNO

al limite. La proposta dell’associazione dei negozianti è a metà strada tra proposizione e provocazione. Simone lancia infatti l’idea d’una “autogestione dei rifiuti”. Che fa il paio con l’ammissione d’inettitudine della municipalizzata di Corso del Mezzogiorno.

UN UNICO AMMASSO DI MONDEZZA – Dar torto a commercianti e popolazione è praticamente impossibile. Foggia è un unico ammasso di mondezza. E la sassaiola di martedì contro un camion dei pompieri chiamato a domare le fiamme che ardevano uno dei cassonetti della città è la prova provata di come il vandalismo abbia ceduto il passo all’organizzazione di una protesta urlata e scomposta. E mentre la politica si lancia in attestati di stima, è sufficiente un giro per le periferie per capire quanto, invece, il fenomeno sia ampio. Via Trinitapoli è un continuum di rifiuti bruciati ed un odore che colpisce dritto nei sensi. Ci vuole uno stomaco di ferro ed una grande resistenza per avvicinarsi ai cassonetti più distanti dal centro abitato. Una signora sulla sessantina, superata la lingua d’asfalto che divide il cancello del suo locale dal contenitore della spazzatura, lotta con i mucchi di piatti e di scarpe risparmiati dai roghi. In mano, un cassettino di plastica ricolmo di scarti alimentari. Ci guarda intimorita mentre scattiamo un paio di foto. Biascica qualche protesta, poi ritorna dentro.

RIONE MARTUCCI – Il panorama non cambia, anzi finisce col peggiorare, spostandoci in direzione Rione Martucci. Nel quartiere al di qua del passaggio a livello, c’è gente che sostiene di non vedere miglioramenti da almeno una settimana. “Siamo abbandonati a noi stessi”, grida in dialetto un uomo minaccioso solo all’apparenza. “Prima erano tutti qua a fare comizi, ma oggi sono tutti chiusi nelle loro stanze. E chi li ha visti più?” sbotta sua moglie che è un’insegnante in pensione. Abitano nel Rione da una vita, “da quando esiste, da quando era solo una campagna disordinata ma pulita”. La pulizia, ora, manca, ma sul disordine è cambiato poco. A confine con un campo con affaccio Poligrafico, due cassonetti restituiscono alla città mobilia varia ed eventuale, dai comodini ai tavoli. Tutto il resto del quartiere, dalle zone storiche, a quelle di nuova costruzione, è il sunto dell’abbandono. Mucchi di spazzatura giacciono miseramente dietro cancelli in ferro che richiamano alla mente promesse infinite di cantieri mai realizzati.

Villaggio artigiani (con tanto di sigle sui cartoni)

VILLAGGIO ARTIGIANI: “OBBLIGATI ALL’INDISCIPLINA” – A circa un chilometro, Villaggio Artigiani. Per un tratto della cronologia di quest’emergenza rifiuti, la zona produttiva del capoluogo ha rappresentato il punto più basso e pericoloso. Nemmeno un paio di mesi fa fu rinvenuta farina di sangue dell’Asl di Barletta. Da quel momento, sarebbe dovuto scattare il controllo serrato di istituzioni e magistratura. Invece, si è fatto a gara a chi la sparava più grossa, se le minoranze politiche o le maggiornaze governative. Con il risultato che le urla hanno a loro volta seppellito il problema, occultandolo. O, addirittura, retrocedendolo nella scala delle priorità programmatiche. Tutto, mentre Istat, Legambiente, Ispra, Svimez continuano a narrare racconti di sofferenza. Un città senza lavoro, esposta all’infiltrazione della mala, atterrita dai vandalismi che sono pane quotidiano, con un tasso di differenziata ridotto al lumicino e cervelli in fuga come non mai. “Una città dove, da 30 anni, a guadagnare sono i soli costruttori”, sentenzia Mimmo Di Gioia, Libera Foggia. Dall’imbocco della zona artigiana, fino alle casermette, dalle carceri sino alle traverse che sboccano su Via Manfredonia, è un inno alla crisi-spazzatura. Da quasi un anno, le piccole imprese invocano un piano raccolta speciale. D’altra parte, anche se in aumento, gli appartamenti sono minoranza. Ecco perché le buste non sono molte. Quel che abbonda nei cassonetti sono materiali speciali, a volte, specialissimi. Si trova traccia di bidoni in latta con fondi sporchi di oli e solventi, una marea di cartellette contenenti fatturazioni (c’è anche sovrimpresso il nome del destinatario, caso mai si volesse intervenire con certezza sanzionatoria), pezzi in plastica, alluminio ed in metallo, spesso molto ingombranti. “Prima l’Amica, poi il sindaco ci avevano assicurato che avrebbero provveduto – si lamenta un meccanico – E invece, guardati intorno”. Confessa la sua propria indisciplina, ma solo perché “da queste parti non abiamo alternative all’indisciplina”. A detta sua, “non vogliono risolvere il problema”.

CEP E MACCHIA GIALLA – Spostandosi verso la periferia Sud, lo scenario non muta. Cep e Macchia Gialla sono allo stremo, con la peggiorazione dello sverso dei cantieri che, in barba alle leggi, si adeguano a gettare il materiale di risulta all’interno del tratturo Foggia-Incoronata. Diversi cassonetti sono vuoti, ma tutt’intorno è una geremiade di sacchi e scarpe e carte e stendibancheria e vecchi zaini e ante e mobili. I vestiti sono gettati alla rinfusa. “Sono le nuove bancarelle del mercato”, si rattrista Tonino Soldo, Legambiente Foggia. Infatti, tra un bidone e l’altro, vanno aumentando le auto con targhe bulgare e

Benvenuti a Foggia, Viale degli Aviatori (St)

rumene che percorrono a velocità limitata le lingue d’asfalto ed i ragazzi africani che, da primo mattino, spingono, goffi, carrozzine caricate con bustoni gialli pieni di ogni cosa. “Quelle della mia misura le uso. Alcune le regalo ai miei amici. Altre ancora provo a venderle o a scambiarle per fare qualche soldo e poter mangiare”, ci racconta in francese un ragazzo congolese non dopo un piccola resistenza e la garanzia che non l’avremmo fotografato. Frigoriferi a frotte invece, stazionano in tutte le strade d’uscita della città. A poca distanza dall’Ipercoop, ad esempio, ce ne sono ben tre, accantonati nei pressi di un solo cassonetto. Un ragazzo, all’apparenza bulgaro o rumeno, lo sta martellando per staccarne un’anta. Chiediamo a cosa serva, ci guarda strano e fa per alzarsi. Gli s’avvicina un cane, scaccia anche lui e, placido, il quadrupede va a banchettare fra la spazzatura. Per chi arriva, Foggia comincia da qui. Per chi vi esce, vi finisce.

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VIDEO, LA CITTA’ RICOPERTA DI RIFIUTI@RR

Michela, da fotografa a ‘cake painter’. “Una sfida culturale”

Foggia – FINO a pochi mesi fa, prima di chiudere lo storico studio di Corso Roma, leggere alla voce ‘Michela Di Bari‘ significava rinvenirvi, di fianco, la mansione di fotografa. Una vita trascorsa dietro l’obiettivo, quella di Michela, a tirare avanti la ‘baracca’ raffinata a conduzione familiare di “Studio America”. Un mestiere che, con l’incedere degli anni e della tecnologia, va mano mano scivolando vero la denominazione non proprio protetta dell’ “altri tempi”. Con le digitali tendenti alla perfezione e l’approssimazione artistica tra professionista e dilettante (colmata dalla diffuzione di software gratuiti), meglio pensare ad altro. Specie se quell’altro è la passione di una vita, neppure troppo segreta. Anzi, per nulla tenuta nascosta.

UNA PASSIONE PRECOCE – Michela ha incominciato a lavorare sulle torte dall’età di 15 anni. Inizialmente in maniera del tutto disinteressata. Ad attrarre l’adolescente è il rito antico e sempre identico dell’impasto. Mani che si muovono, rumori di fruste e calore del forno nelle uggiose giornate di pioggia. Soprattuttto, l’attesa di ammirare il prodotto finito e di testarne la riuscita guardando l’immagine del suo lavoro attraverso lo specchio dei visi dei parenti. Sono stati loro i suoi primi avventori. Critici e promotori, ispiratori e delatori.

L’INGEGNERA DELLA DOLCERIA – Con il tempo e la maturazione di una propria consapevolezza, la culinaria s’incontra con la passione per l’arte figurativa. Michela pensa che sia giunto il momento di far ballare i sensi. L’olfatto ed il gusto, sfacciatamente corteggiati dalla vista. L’aiuta, in questo sogno ribelle, la propensione alla figurazione. Michela frequenta prima il ‘Perugini’, poi l’Accademia. A vent’anni capisce che può e deve dare un tocco in più a quelle torte già speciali. Renderle uniche. Regala l’armonia al ballo di cui sopra e partorisce le prime torte decorate. Cambia pelle Michela e la studentessa creativa e cuoca occasionale si trasforma in cake designer. “Ma – aggiunge a Stato – mi piace definirmi ed essere definita una cake painter“. Per dirla in breve, una pittrice delle torte, un’Ingegnera della cucina, chiamata ad abbinare costrutti, disegni, colori, forme, occasioni e sapori.

Torte e cup cake (composizione foto: Michela Di Bari, Foto America Foggia)

LA TORTA, QUESTA VOCAZIONE – Come ogni ‘artista’ alle prime armi, Michela non può che alimentare il suo talento nell’unico modo che il talento conosce per soddisfare la propria bramosia di crescere: coltivandolo. Studia, s’informa, supera la linea sottile che passa tra una normale cake maker ed un’innovatrice. “In questo momento capii che la mia ispirazione era tendente verso la tradizione dolciaria anglo-americana più che verso quella italiana”. Adotta come suo canone estetico la grandezza, mettendo al bando l’essenzialità. “La tradizione americana – spiega – prevede torte alte anche 12-15 centimetri, decorate e per nulla banali, con pan di spagna che non necessita di essere bagnato e che, dunque, lascia molto margine alla fantasia”. Da quel frangente, è un climax ascentente. Torte d’ogni foggia, dimensione, colore. Torte decorate a mano per intero, disegnate a pennello, torte dalla forma a scelta. Soprattutto, cosa fondamentale per lei, “mai la stessa torta”. Non soltanto perché, essendo artigianali, “non verranno mai identiche”. Ma anche perché “non eseguo mai due torte simili per forma e colore, neppure su richiesta pressante”. Le crazioni sono, insomma, uniche. Nascono dal talento e dall’inclinazione del momento.

TORTERIA – Michela ha deciso, adesso di farne un lavoro. Di farne il suo lavoro. Per carità, la fotografia resta, pur senza locazione fisica. Però, dando fondo ai rispermi, ha deciso di aprire una torteria che sarà inaugurata a breve in Via Guido D’Orso (Foggia, zona stadio Pino Zaccheria, nei pressi dell’ingresso curva Sud), verosimilmente fra il 22 ed il 29 di questo mese. Su chiamerà “Dolci, amore e fantasia”. Una decisione tosta, quella di Michela. Lei ha scelto di sfidare le convenzioni culinarie ed abitudinarie di una comunità intera mettendo in campo l’arte, ramazzando le abitudini e portando in auge ciò che, in altre parti d’Italia, già in auge è. Il suo locale, nelle intenzioni del momento, sarà una continua sorpresa, un fiume che scorrerà lento, regalando novità di tanto in tanto. Un pò museo, un pò ristorante. Qualcosa di non troppo diverso da una sala da tè artistica, dove, invece dei quadri, ci saranno montagne di foto.

CAKE POPS E CUP CAKE – “Si – confessa candida e motivata – è una sfida per me stessa e per la città, quella che lancio”. Un cambio di mentalità. Per dimostrare che, se si vuole, a Foggia si può vivere di fantasia al potere. E la fantasia della sua attività si chiamerè tisane, tè e cioccolata calda. Ma, sopratutto, di volta in volta, biscotti decorati, confetti decorati, cake pops, cup cakes. Nomi ‘forestieri’ con cui la tortaia-fotografa conta di far familiarizzare, quanto prima, l’intera cittadinanza. E, intanto, Michele già annuncia che, “ogni tanto”, regalerà “un tocco d’Oriente, con dolci di tradizione araba”. O, ancora, un tocco d’Occidente, “con dolci ereditati da altre esperienza dolciarie europee”.

CAKE SHOW, BOLOGNA – E che Michela sia brava sul serio lo dimostrano i riconoscimenti che le stanno giungendo da ogni parte d’Italia. Non soltanto i molti abbracci virtuali regalatele dal sempre più essenziale facebook, (il social network l’ha messa in contatto con una miriade di persone interessate alle sue creazioni, immortalandola nello starlet del dolce), ma anche gli inviti a manifestazioni di primissimo rilievo. La Di Bari, infatti, domani e dopodomani (15 e 16 ottobre) sarà protagonista a Bologna al “The Cake Show”, la prima fiera mercato italiana dedicata al mondo della Sugar Art e del Cake Design, evento che andrà in onda su Alice Tv, canale 416 di Sky. Michele è nel cast dello show, inserita fra i ranghi di una squadra che realizzerà, dal vivo, di fronte alle camere satellitari, la grande torta del logo dell’evento, in una piazza a pochi passi dai portici di Bologna. Un privilegio per pochissimi (tre).

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Ecco come avvelenano il tratturo Foggia-Incoronata (Video)

Il cartello 'intimidatorio' del Comune di Foggia (St)

Foggia – ORE 17.35 di venerdì 30 settembre, tratturo Foggia-Incoronata. Un furgone rosso, marca ford, si avvicina rapidamente all’imbocco del tratturo. Fa caldo e la zona è periferica. Campi, cantieri e un affaccio sulla statale. Non c’è nessuno. Soltanto qualche sporadico ciclista bazzica la zona. Nell’arco di un’ora ne transitano un paio. Ed un altro paio di volenterosi sfidano il sole per tonificare i polpacci praticando footing.

L’UOMO CON IL CAPPELLO – Dal furgone scende un uomo. Giovane, apparentemente italiano. Con tutta probabilità è un operaio, impiegato nelle tante aree cantierali che puntellano questa zona. Qui al Cep, nell’ultimo lembo di Foggia che guarda verso la Lucania, estrema periferia Sud, i cuori di amministratori e costruttori battono all’unisono. Uno sguardo grandangolare permettere di cogliere, ad occhio, una quindicina di gru. 15 gru significa, dunque, 15 cantieri. 15 cantieri, tonnellate di materiale di risulta da smaltire. L’uomo ha in testa un cappello con visiera, messo a rovescio. Scende dal furgone, si guarda intorno, rapida osservazione. Fa il giro del mezzo, apre il portellone posteriore e ne preleva buste e secchi. Uno per uno, in maniera certosina, ne svuota il contenuto in terra. Movimenti rapidi ma rilassati, come si sentisse protetto da un anonimato inquietante. Quel che getta non fa rumore. E’ cemento, cacetruzzo di risulta. Ci sono anche dei mattoni, per la verità, tozzetti di foratini.

CARTELLO – Neppure 10 metri distante, un cartello del Comune di Foggia, intima minaccioso, evidentemente non abbastanza: “Divieto di scarico”. Di cosa? Di tutto. Ne abbiamo più volte riso, del cartello, dalle colonne di Stato: “E’ vietato l’abbandono di rifiuti di qualsiasi genere”, si legge. Promette sanzioni per “i trasgressori” e “anonimato” per coloro i quali, con una chiamata agli Uffici della Polizia Municipale, segnalassero ai Vigili “informazioni utili alla identificazione”. Eppure, basta inoltrarsi appena nel tratturo, fra l’erba arsa dagli incendi di questa estate, per ritrovare ogni tipologia di rifiuto. Addirittura, protetto da una vera e propria trincea di spazzatura, che limita la demarcazione fra la zona ciclo-pedonale ed i campi di grano limitrofi, c’è un traliccio della luce, verosimilmente alto 6-7 metri, divelto e scaricato come un bustina qualsiasi. Per non parlare delle guaine dei fili di rama asportati dalle campagne del Tavoliere. Sono tutti in zona, a un tiro di schioppo dal cantiere della ridondante “Cittadella dello sport” che, nell’arco di qualche anno, cementerà quel che resta del pantano originariamente facente parte della domus solaciorum di Carminiano dell’imperatore svevo Federico II.

LEGGE – La legge è, in teoria, molto rigida con quanti violano le disposizioni in materia di smaltimento di rifiuti da cantiere. L’indirizzo generale, fissato nel lontano 1997 da un provvedimento firmato Ronchi (D.L. 5/02/97 abrogato dall’art. 264, c. 1, lett. i del d.Lgs n. 152 del 3 aprile 2006 che ne ricalca le linee), stabilisce la preponderanza del recupero del materiale di scarto. Ovvero, il loro trattamento e la reimmissione sul mercato. In realtà, da quell’anno sono stati molti i perfezionamenti e gli adattamenti. Tutti volti a dare certezza al cittadino. In realtà, facilmente eludibili in assenza di controllo. I dintorni di Foggia, con la loro ampiezza, si prestano naturalmente allo smaltimento illegale. Amche se le ditte costruttrici, dal Natale dell’anno scorso, sono tenute a possedere un rigoroso registro del carico e scarico, sui cui annotare entro dieci giorni le caratteristiche quantitative e qualitative dei rifiuti e che dovrebbero consentire di indivisuare, in maniera incontrovertibile, la tracciabilità del materiale, dal suo approdo nel recinto, sino allo smaltimento. Questo registro, che deve contenere “le informazioni qualitative e quantitative” dle prodotto divenuto “rifiuto”, è a disposizione degli organi di controllo e annota anche la destinazione di smaltimento dello stesso. Minore, chiaramente, è la quantità di rifiuto smaltito in discarica attraverso le vie “ufficiali”, maggiore il risparmio. E l’unico modo per risparmiare, è smaltire illegalmente, dribblando i controlli e conferendo al destinatario finale soltanto una parte del rifiuto generale. Violare le norme di tracciabilità significa incorrere in sanzioni pecuniare che vanno dai 2600 ai 15.500 auro. Violarle ripetutamente, significa moltiplicare queste cifre per decine di volte.

IL VIDEO – Noi di Stato, siamo venuti in possesso di un video in cui si vede l’uomo gettare il contenuto di un secchio in corrispondenza dell’inizio del tratturo. Avendo ricevuto coordinate temporali e logistiche, proviamo a capire fino a che punto la Polizia Municipale sia disposta ad accettare le “informazioni utili”. Telefoniamo al numero indicato sul cartello. Sono passete al massimo un paio d’ore dalla segnalazione. Un operatore svogliato annuisce mentre raccontiamo la storia. Gli parliamo del cartello, della garanzia d’anonimato (ma forniamo un nome, comunque) che hanno promesso al cittadino. Lui elude la nostra affermazione e ci dice, chiaramente, che senza firma dell’esposto loro non possono far nulla. Ripetiamo ancora di avere le informazioni, gli diamo il numero di targa che non sappiamo se annota. Basterebbe un controllo per risalire al mezzo. Proviamo anche a fare un giro dei cantieri della zona, ma del ‘furgone rosso’ nessuna traccia. E pensare che c’è chi lo chiama ‘sviluppo’.


VIDEO



da Stato Quotidiano, 3 ottobre 2011

Donne e ‘scritte’, tutti i misteri dell’inchiesta Marcone

da Stato Quotidiano

Il manifesto. In alto a sinistra, in rosso, la scritta (St)

Foggia – ALLE VOLTE basta un segnale per poter mutare il corso degli eventi. Chissà se si tornerà a metter mano a un romanzo che le cronache giudiziarie non hanno scritto ancora del tutto.

Francesco Marcone, per la città di cui è figlio semplicemente Franco, morto ammazzato nel portone della propria abitazione di Via Figliolia a Foggia nel marzo del 1995, la parola fine non la conosce ancora. E’ una vittima. Anzi, stanti i riconoscimenti, è la vittima delle vittime del capoluogo dauno. Medaglia d’oro al valor civile, per il Direttore dell’Ufficio Registro. Caduto sul lavoro, matrire. Semplicemente, come lo perpetua sua figlia Daniela, un “testimone”, staffetta di onore, figura di riferimento, cardine assoluto, baluardo morale.

I MISTERI – La storia processuale di Marcone è uno zero angosciato ed angoscioso. Quasi dieci anni d’inchiesta e mai nessun colpevole. Tutti partecipi, tutti coinvolti, tutti immischiati, ma nessun mandante, nessun esecutore. Soltanto l’armatore. Raffaele Rinaldi, ex impiegato dell’Ufficio del Registro. Per i giudici, verosimilmente dalle sue mani è partita la pistola che ha ammazzato Marcone. E che nel 1993, misteriosamente, ha sparato contro la porta di uno dei suoi superiori, Stefano Caruso, ombrosa figura, sfumata apparizione della vicenda. Ma Rinaldi muore in un mai chiarito incidente stradale, sbalzato dalla sua moto mentre, ai domiciliari, scorrazzava libero per il Gargano.

La chiusura dell’inchiesta è giunta per stanchezza. Troppe secche, troppo fango, difficile avanzare oltre. Il Giudice per le Indagini Preliminari, Lucia Navazio, dovette arrendersi al decesso di Rinaldi, ultima ruota del carro di coda, colui che, su di sé, fu designato per attirare l’attenzione della magistratura. Ma l’archiviazione disse molto di più. Anzi, le motivazioni auspicarono una veloce riapertura del caso, alla ricerca della verità.

IL MANIFESTO FUNEBRE – E che il caso Marcone non sia solo uno scarabocchio nella storia recente di Foggia, lo dimostra la scritta, misteriosa, apparsa su un manifesto funebre negli ultimi giorni di agosto di quest’anno. Un manifesto con stampato nome e cognome di una donna ucraina, mai apparsa, neppure di riflesso, all’interno del caso. In rosso, marcato con un pennarello, quasi come un fuoco: “per l’omicidio di Marcone Francesco”. Uno scherzo di cattivo gusto? Un macabro gioco? Una combinazione di fatti? Resta un mistero. Quel che, al contrario, non è nascondibile è il luogo in cui ciò è accaduto. Ovvero, ad uno degli ingressi del palazzo degli Uffici Statali del capoluogo. Una costruzione risalente al periodo fascista, ubicata in pieno centro cittadino, da un lato affacciata sulla villa Comunale, dall’altro su Piazza Umberto Giordano e con i fianchi appoggiani l’uno su Via Lanza, l’altro, su Via La Rocca. Nel 1995, qui aveva sede l’Ufficio del Registro, oggi spostato in periferia, con ingresso dalla strada che di Marcone porta il nome. Qui, dunque, ci lavorava Franco. E qui, dunque, l’averne richiamato la memoria potrebbe anche non essere un caso.

Chi ha scritto sul manifesto, non ha badato alla discrezione. Tutt’altro, la sensazione porta alla conlusione inversa. La frase è infatti apparsa sul lato più esposto, quello che dà su Piazza Giordano. Nulla, al contrario, è stato ritrovato dall’ingresso opposto. Nel giro di poche ore, il manifesto è stato coperto. A quanto pare, a chiedere l’occultamento è stata la famiglia della donna, sposata con un foggiano dal cognome campano e mamma di due figli, un maschio e una femmina. A sorprendere, invece, è il fatto che non ci sia stato alcun rilevamento sullo stesso, come si trattasse di una qualsiasi incisione da stadio.

A questo punto, dunque, riannodare la matassa pare impossibile. Il corpo della donna, morta in ospedale, tra l’altro, è stato tumulato in un cimitero del suo paese d’origine. Restano solo le domande. Perché è stato scelto il manifesto della donna? E come mai una frase così secca, che non lascia adito a dubbi? Poi, chi si è preso la briga, probabilmente nottetempo, o comunque al riparo da occhi indicreti, di vergare una frase così diretta non non poter avere dupolici o tiple interpretazioni? Chi era questa donna? Lavorava presso l’Ufficio del Registro ai tempi di Franco Marcone? Oppure è sposata con qualche foggiano che potrebbe essere in possesso di informazioni?

Francesco Marcone (fonte image:ilsottosopra)

LE DONNE STRANIERE – In attesa di risposte convincenti, non resta che andare indietro nel tempo e constatare che non è la prima volta che, nella lunga vicenda inerente l’omicidio di Franco Marcone, sbuchino delle donne. E delle scritte. Addirittura, venne ipotizzata, agli albori e con discreto impiego di tempo e fatiche, una possibile pista passionale. Miseramente crollata sotto i colpi della limpidezza della vita terrena del Direttore del Registro, uomo riconosciuto da tutti come onesto e rigoroso. Ma donne, e misteriose, sono anche “la collezionista” cui si fa allusione in una strana lettera anonima recapitata a casa della famiglia nel 1998 e, soprattutto Viviana Llaci, cittadina albanese, domestica della famiglia Caruso, ferita di striscio nell’attentato denunciato dal suepriore di Marcone (era il 23 dicembre 1993, un anno e tre mesi prima che marcone fosse eliminato) e clamorosamente mai sentita dagli inquirenti, ritornata in Albania in piena ricostruzione post guerra civile e interrogata soltanto a distanza di tempo dall’interpol. Un interrogatorio molto approssimativo, basato su domande evasive e poca contezza dei fatti.

IL REBUS – 29 novembre 1998. Sono passati tre anni e otto mesi dall’omicidio di Marcone. L’inchiesta latita. E’ già stata chiusa la prima volta, archiviata. Colpa di una Procura della Repubblica ballerina, di pm giovani e di qualche episodio che era e rimane poco chiaro. Nella cassetta della posta di casa Marcone, arriva una busta, spedita da ‘Foggia Ferrovia’. Giunge in Via Figliolia a mezzo posta ordinaria. Come una cartolina. Sul fronte, la grafia insicura di un mittente sconosciuto, ha sbagliato il nome della strada. Scrive: “Via Figliolino”. All’interno, un biglietto: “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”. Eccolo il rebus, l’altro grande fantastico mistero tragicomico dell’inchiesta sulla morte dell’Direttore dell’Ufficio del Registro. L’avvocato della famiglia Marcone, Oreste De Finis, consegna il documento in Questura. Sarà assunto e messo agli atti. Ma, come spesso ha dovuto ammettere lui stesso, “tra la mole imponente di materiale d’indagine, non è dato rinvenire alcun approfondimento e/o spunto di riflessione”.

Eppure, spunti interessanti, dalla sola analisi visiva del biglietto, ce ne sarebbero anche. Primo. Biglietto e busta sono scritti con grafie diverse. Simili, ma diverse. A scrivere, non è chiaramente la stessa persona. La grafia della busta è insicura. Potrebbe trattarsi dei tentativi di un anziano di risulatre fermo. O, al contrario, dei tentativi dello scrivente di apparire agitato ed impacciato. Viceversa, il documento dell’interno conduce a rilevamenti opposti. La composizione delle lettere lascia immaginare che, a vergare la missiva, sia stata una mano ferma e sicura di sé, di chi non ha donde di nascondimenti. Potrebbe essere stata redatta da personaggi esterni all’inchiesta. Oppure da indagati. In ogni caso, non sono state eseguite perizie calligrafiche, né rilevamento delle impronte digitali. Per non parlare della prova del Dna sul francobollo o sulla lingua umettata della busta stessa.

Secondo: il corpus del messaggio, il suo senso. Che cosa vuol dire “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”?. Proviamo a capirci di più. Come pensato da De Finis, più addestro alle scartoffie di Tribunale e di amministrazione, 1972 potrebbe si, essere l’indicazione di una data. Ma, più raffinatamente, anche un “numero di ruolo ovvero di repertorio”. Possibilità che schiude le porte alla presenza di un secondo documento, da cercare per ottenere informazioni. Documento che, nel 1998, certo era nelle disponibilità di qualcuno. Di chi? Della fantomatica collezionista (“rivolgetevi ad una collezionista”)? E collezionista di che cosa? Di oggetti? Di atti? Di carte? Tornando indietro, lo scrivente parla anche di “una carta da bollo da 2000 quello con la bilancia”. Ma nel 1972, non era in uso la carta da bollo da 2000 (ovviamente Lire), che sarà adoperata molto più tardi. La bilancia richiama invece alla raffigurazione presente sui fogli degli atti giudiziari. E se la collezionista fosse, ad esempio, un’archivista, magari l’impiegata di un ufficio pubblico incaricata alla razionalizzazione degli atti?

Ma sono tutti misteri. Grossi misteri. Appassionanti, quasi giallistici, buoni per inchieste da film. Non fosse che in mezzo c’è un morto ammazzato e la dignità di una città che, dopo quel maledetto giorno, non ha mai più saputo ritrovare sé stessa.

Isole ecologiche, queste sconosciute

(In)Terra... nera (Ph: Roberta Paraggio, St)

Foggia – OCCORRE una mattinata in auto per spaccare tutta Foggia. Nel ventre del capoluogo, si annidano, oggi, trenta isole ecologiche. Teoricamente, una delle strade percorribili per la risoluzione del problema della spazzatura emersa. Ma, al momento, soltanto una grana in più per Amica. La controllata del Comune di Foggia, le cui difficoltà vanno acuendosi con l’evolversi delle vicende giudiziarie, non ha né soldi né mezzi per fronteggiare la sperimentazione delle isole ecologiche interrate. Una sperimentazione nata nel 2006, anno in cui il sindaco di Foggia, Orazio Ciliberti, accompagnato in pompa magna da assessori e dirigenti comunali, diede lo start definitivo al progetto che, a ben leggere, doveva essere il fiore all’occhiello della giunta di centrosinistra. La tecnologia Gemini 3, la più sicura ed ecologica in produzione un lustro fa, avrebbe garantito l’assorbimento del materiale di una città che nel 2006 si attestava ad una differenziazione del 7% appena.

DAL 7 AL 9% – Come sappiamo, in cinque anni è cambiato poco o nulla. Nel 2011, il centro più grande del Tavoliere è fermo al palo. La differenziata, l’anno scorso, si è arenata al 9%, uno dei risultati peggiori in Italia e la cittadinanza è in preda ad un furore da rifiuto che non aiuta alla risoluzione del problema. Manca la preparazione, manca l’educazione, manca soprattutto un piano tale da consentire ad una popolazione di 150 mila anime di conferire nei luoghi, nei modi e nei tempi giusti.

2.5 MILIONI – Per la creazione delle trenta isole ecologiche, Corso Garibaldi, grazie al concorso della Regione Puglia ed alla ricezione di fondi dell’Unione Europea, investì 2.5 milioni di euro. Mica spiccioli. La stessa somma promessa dalla giunta vendoliana, oggi, per far funzionare una corretta raccolta porta a porta (ma i soldi, al momento, non si sono ancora visti). Ovvero, quel sistema che l’isola ecologica si prefiggeva di superare.

“IL SISTEMA PIU’ MODERNO DEL MONDO” – Quel finanziamento a pioggia cadde proprio nel cuore del più arido dei deserti. Le tessere, necessarie per il funzionamento delle macchine, si persero. Prima erano troppo poche, poi divennero troppe, infine si configurarono come introvabili. La comunicazione istituzionale fu carente ed estremamente riduttiva. “Il più moderno sistema di raccolta differenziata dei rifiuti presente a livello mondiale”, come lo definì Amica attraverso il suo portale web e gli opuscoli distribuiti – quelli sì – a migliaia, si impantanò in un fango appiccicaticcio.

La differenziata delle isole ecologiche (R.P, St)

LE PRIME DENUNCE – Non passa infatti neppure un anno che, alla fine di luglio del 2007, la prima protesta scuote il ventre ambientalista. Wwf e Legambiente, di fronte al cattivo funzionamento della distribuzione delle card, insorgono. Prendono carta e penna e redigono una lettera al curaro contro Amica e l’amministrazione: “I cittadini – scrissero – non hanno mai compreso a cosa servissero questi cilindri d’ acciaio apparsi all’ improvviso come funghi nelle vie cittadine. Molti li hanno studiati invano per lungo tempo e qualcuno, avendo intuito che in qualche modo fossero inerenti ai rifiuti, ha cominciato a riempirli di cartacce, cicche o altri simili scarti. Un’ altra triste storia dunque di spreco di denaro pubblico”.

SMEMORY CARD – Già, le card. Nei famigerati depliant illustrativi, l’Assessorato all’ambiente del Comune di Foggia, non solo ne alludeva alla presenza, ma specificava, con chiaro riferimento, la loro imprescindibilità rispetto al funzionamento dell’intero sistema. “Queste unità – si leggeva – verranno utilizzate dal cittadino, per il conferimento dei rifiuti da differenziare, mediante l’ impiego di una personale memory card. Scopo della card è quello di seguire il conferimento di carta, cartone, vetro e plastica di ogni singolo utente attraverso una serie di dati di volta in volta immagazzinati dalla card e di riconoscere all’ utente diligente un premio per conferimenti di questo tipo, inteso come riduzione percentuale (da stabilirsi) della quota annuale sul rispettivi tributi ovvero, in alternativa, al quartiere/circoscrizione più meritevole un benefit spendibile, per esempio, sotto forma di acquisto di beni d’ arredo o di quant’ altro utile per la collettività”. Insomma, una strategia bella e conclusa, con tanto di premialità. Forse, il limite stette in questa utopia priva di fondamento. A sei mesi dalla denuncia di Tonino Soldo ed Enzo Cripezi, che a Foggia sbarca Striscia la Notizia. Gli inviati Fabio e Mingo documentarono tutto e lo proiettarono agli occhi di milioni di Italiani. Di fronte alle telecamere di Canale 5, Elio Aimola, padre padrone di Amica, promise interventi nell’immediato tanto che ai primi di gennaio 2008, alle sei circoscrizioni foggiane (oggi ridotte a tre), vennero ripartire 7500 card. Ancora una volta fu molto fumo e niente arrosto. Pochissimi foggiani scelsero di recarsi nelle sedi delle circoscrizioni. Soprattutto, non tutte le famiglie trovarono la card e si videro ripetutamente respinte. Malgrado ciò, la municipalizzata non ce la fece a gestire il servizio. E nel 2010, nel cuore dell’emergenza rifiuti, si ebbe il primo incendio di isola ecologica. Ad essere incenerito fu il cilindro di Via dell’Arcangelo Michele, in zona Macchia Gialla, non distante dalla chiesa di San Pietro e a pochi metri da un parco strapieno di bambini.

LE ISOLE – E, nel più classico dei giochi al massacro, passata appena l’emergenza urlata della scorsa primavera, Foggia oggi continua a non poter usufruire di questi depositi. Stando alle cifre fornite a Stato Quotidiano dal gabinetto del Sindaco e provenienti da Amica, delle 30 isole, sarebbero non ripristinabili o da ripristinare soltanto sei. Le restanti 24, dunque, in teoria sarebbero usufruibili. Ed invece, niente di più lontano dalla realtà.

L'isola incendiata in Via dell'Arcangelo Michele (R.P, St)

PRIMA CIRCOSCRIZIONE – Annovera sei isole ecologiche interrate, di cui una (in Via Ciano, nei pressi di Via Iconavetere) appartenente all’ex prima e le restanti 5 facenti parte della vecchia sesta circoscrizione urbana del capoluogo due in Via Giuseppe La Torre, una in Viale Giotto, via Petrucci, Piazza Aldo Moro). Ufficialmente, sarebbero funzionanti, non destinate a lavori di manutenzione straordinaria, né manomesse in alcuni modo. E l’impressione, in effetti, è quella. Ovvero, lo stato – per lo meno l’impatto estetico – è tutto sommato discreto. Chiaramente, è ancora troppo poco. Non c’è, per esempio, un criterio preciso che ha permesso l’ubicazione di due distinte isole interrate nella periferica Via Giuseppe La Torre, periferia foggiana di nuova costruzione, costipata fra Via Rovelli e Via Lucera. I due cilindri, abbandonati nel cuore della selvaggia estate foggiana, sono spenti. I led che indicano la capienza non danno segnali di vita. Soltanto, lampeggia sul corpus metallico una luce rossa. Ovvero: rifiuti in smaltimento, attendere. In verità, sono andate in tilt come due flipper sballottati da un giocatore nerboruto. Tanto che, trovandosi a passare, una residente conferma che, alla faccia dei proclami e di due presentazioni ufficiali, non c’è memoria, nel quartiere, del funzionamento di queste “diavolerie”. Cambia panorama, ma non la sostanza. Muovendoci nei limites della circoscrizione numero uno, sono inattive e senza speranza alcuna le isole interrate di Via Ciano, Via Petrucci (estremo lembo di Candelaro) e Viale Giotto. Sono pulite ma senza alcun cenno di attività. Al contrario, c’è sporcizia in Piazza Aldo Moro. Nel più centrale degli spazi di conferimento differenziato, infatti, diverse buste sono ammonticchiate alla base, creando un colpo d’occhio tutt’altro che piacevole. In zona, in una città che torna a ripopolarsi, bambini in bicicletta, tate a spasso con i carrozzini, badanti in accompagnamento e ragazzetti di quartieri alle prime sigarette segrete. Tutti, insomma, ma nessuno che denunci. Al contrario, i pochi cassonetti sono pieni ed emanano cattivo odore.

L'isola ecologica di Piazza Padre Pio (R.P, St)

SECONDA CIRCOSCRIZIONE – Ma se Sparta piange, Atene non ride. La seconda circoscrizione, che assomma i territori che furono, in parte, delle vecchia 2 e della totalità della 3, ha problemi anche peggiori. Otto isole, due (fonte: Amica) da ripristinare, una sommersa dalla spazzatura ed un paio con tanto di cartelli di ammonimento redatti dalle popolazioni imbufalite. Discrete (ma, chiaramente, non funzionanti), quelle di Via Gino Acquaviva, Via Caracciolo (Chiesa di san Giuseppe Artigiano), Via Manerba (zona Macchia Gialla), Via Giustino Fortunato (zona stadio) e Via D’Addedda. Va molto peggio, invece, a quelle più centrali. Concentrate nell’arco di poche centinaia di metri, i tre “atolli della mondezza” di Viale Michelangelo, Piazza de Gasperi e Piazza Padre Pio, sono il risultato di una evidente stratificazione di un’inciviltà del sacchetto selvaggio che ha pochi eguali. Nel primo caso, l’isola ecologica è a pochi passi dalla sede della Biblioteca Provinciale. Da sempre giace in condizioni di abbandono. Ci sono periodi dell’anno, confessano a Stato un paio di residenti, in cui le buste invadono il marciapiede e il perimetro di una fu (ma molto molto fu) aiuola verde attualmente ridotta a zero. Spento il led di segnalazione, nessuna luce lampeggiante, il cattivo odore si avverte senza pietà, in spregio al fatto che dovrebbe trattarsi di materiale inodore. Giusto lì accanto, una fiorera in pietra è divenuta un naturale cestino. Viva la creatività. Selve di lattine di bibite gassate fanno capolino, adagiate su un terriccio multicromatico di buste in plastica e bottiglie in vetro di birra e vino. In Piazza De Gasperi, le buste sono adagiate, in piccola misura, a terra. A scoraggiare gli sporcatori, un tragicomico avvertimento in prima persona. “Chiedo la cortesia a tutti coloro che abitano in zona di non lasciare sacchetti con plastica, vetro e carta a terra nella zona dell’isola ecologica: sporcheremo inutilmente perché non saranno riciclati ma finiranno in ogni caso nella spazzatura indifferenziata. Sforziamoci noi di mantenere pulito questo spazio dal momento che chi lo dovrebbe fare non lo fa”. Scoramento che, invece, non è riuscito ad un secondo foggiano, anch’egli predicante dalle pagine di un A4, in piazza Padre Pio. La spazzatura attanaglia l’isola e sfora nei giardini retrostanti, vola con il soffiare del vento. Bottiglie in vetro, tante, plastica ovunque, anche solido urbano. L’aria è irrespirabile, il tanfo è tanto. “Amica non ha più gli occhi per piangere, la differenziata facciamola noi”, ammonisce il messaggio, strappato in parte senza aver trovato adepti.

TERZA CIRCOSCRIZIONE – La sterminata terza zona urbana (riunisce le ex numero 4 e 5 per intero), periferica, accalorata, abbandonata finanche, è puntellata di isole ecologiche. Sedici in tutto, secondo Amica, solo tre da ripristinare ed una impossibile da recuperare. È quella, già menzionata, di Via dell’Arcangelo Michele. Data alle fiamme un anno fa (era il settembre del 2010), è ancora oggi arsa e fuori servizio. Potrebbe essere considerata il simbolo vivo (morto?) e pulsante del fallimento di una strategia ben pensata ma malissimamente impostata. È un epitaffio alla memoria di tutti i fallimenti della Foggia recente. Da un lato, di una politica incapace di progettare e controllare; dall’altro, di una cittadinanza che, avulsa dal concetto di diritto, non ha trovato appieno il bandolo della matassa del vivere sano e collettivo. Bruciacchiati sono anche il cartello del Comune indicante l’ubicazione dell’isola e tre cassonetti destinati alla raccolta del solido urbano. Spostandosi di poco, la situazione non muta. Come in un gioco matematico di combinazioni di fattori in cui, uno dei due, sarà sempre zero. Ed allora l’area di Via Fares è un deposito di buste e finanche di vestiario e scarpe, sebbene possano essere utili e sebbene, nei pressi, in vista, c’è un cassonetto giallo di quelli della Caritas. Quella di Via Berlinguer (forse la strada più sporca dell’intera città, con la sua mini discarica personalizzata di elettrodomestici e ceramiche da bagno) è ridotta in stato pietoso, con i cilindri che sono stati addirittura forzati. Il led non è funzionante, addirittura dalla centralina sono stati strappati i collegamenti. Spostandosi verso Est, è un continuum di led spenti, lucine impazzite, tilt evidenti. Nessuna isola è stata mai svuotata. In Via Saragat (non distante dallo Zaccheria), accanto all’isola due bottiglie di whiskey ed una siringa. Il cerchio si chiude in Via Martiri di Via Fani, isola numero trenta cui giungiamo. Come un segno del destino, accanto ci sono due uomini. Uno cura il verde, un altro maneggia una scopa. Chiediamo lumi sulle isole. Attorno al bidone vi sono diverse buste che giacciono. Dice che non gli compete, con fare risoluto. Nel frattempo, alle nostre spalle, transita un camion di Amica. Tira dritto. Da queste parti si attende l’emergenza. Poi, eventualmente, si vedrà come fare.

da Stato Quotidiano, 5 settembre 2011