Quelle ingiurie che noi foggiani non possiamo ingoiare. Lettera (semi) aperta a Lello Di Gioia. Ovvero: onorevole, lo conosce Nicola Stame? (e la sua risposta)

“Non farò denunce. Dalle mie parti non funziona così”. Edizione nazionale de La Repubblica. Parla così, in un’intervista, il presidente della Commissione parlamentare di controllo sugli enti di previdenza e assistenza sociale. Il suo nome, Lello Di Gioia, è –ahinoi – indissolubilmente legato alla politica della città di Foggia.

Socialista vecchia scuola, Lello Di Gioia. Vecchia, ma non abbastanza vecchia da richiamare binomi con i nomi sacri: a Sandro Pertini, Giacomo Matteotti, Lelio Basso,Lelluccio ha sempre preferito – non è un mistero – l’esule di Hamamet. Lello Di Gioia, siore e siori, va più di moda come modernariato. Un eterno modernariato. Sopravvissuto alle stagioni politiche, ai monocolore e alle rimestanze. Battitore libero perché, come ogni battitore libero, può scegliere di volta in volta il tetto sotto il quale accasarsi. Ora di qui, ora di lì.

In Parlamento c’è finito in quota Partito Democratico. Poi, eletto, si è defilato ed è andato a popolare le fila del gruppone misto. Manovre da politica stracciona, imberbe e cinica, che però rende. Ed ha reso fino all’incarico (di cui all’inizio). Portafogli pieno e potere in saccoccia per uno che, notoriamente, pare si trovi molto a suo agio nella dilazione di un favore qui e uno lì.

Lui nega. Lui ha sempre negato. Anima candida e illibata, lui. Nega e non parla. Forse che “dalle sue parti” sia così che si fa? Lui scarica la sua pochezza di uomo e di politico adducendo psuedo motivazioni antropologiche, lui. Lui alza le mani, fa spallucce e dà la colpa alla foggianità brutta e cattiva che è ignavia. E che ci può fare, lui, se è venuto al mondo così? I fondo, se finanche la psicologia evolutiva ha impiegato decenni a venire fuori dal complesso e diconomico intrico natura/ambiente, lui, che tutti chiamano l’Onorevole, che cosa diamine può farci.

Arrendersi, no?

E allora ricominciamo dall’inizio. Che è anche la fine dell’intervista su Repubblica.

Ricominciamo da quella frase: “Non farò denunce. Dalle mie parti non funziona così”. 

No, caro onorevole, dalle sue parti NON funziona così. Forse quelle sue parti, o una parte di quelle sue parti, lei le percepisce così perché vorrebbe che così fosse.

Dalle sue parti NON funziona così. Altrimenti non avrebbero un senso le lotte per la dignità di Peppino Di Vittorio (dovrebbe ricordarlo, Di Vittorio; prima di passare al Partito Comunista, ebbe una lunga riflessione circa l’opportunità di lasciare il Partito Socialista), il sangue sull’asfalto dei braccianti a Torremaggiore e San Severo; non avrebbero avuto senso i circoli anarchici di San Ferdinando e il martirio per la libertà di Nicola Sacco. Se le cose, dalle sue parti, funzionassero così (laddove così è quell’impasto di silenzio e connivenza che lei immagina e pratica), non sarebbe stata, la Capitanata, una delle prime terre, se non la prima, ad alzare, negli anni Venti, la testa contro il fascismo nascente denunciandone (ha letto bene e glielo evidenzio: denunciandone) la violenza. Se le sue parti funzionassero nel suo così, non avremmo avuto i Marcone e i Panunzio, i morti ammazzati e trucidati perché portatori sani prorio di quella cultura degnissima, figlia della povertà, del bracciantato, dell’abbandono, della ribellione. terra che ai Federico ha sempre preferito i Masaniello.

Quelle sue parti, sono le nostre parti, caro onorevole. E dalle nostre parti si denuncia, si vive, ci si ribella, si soffre, si alza la testa. E se non le sta bene, si trovi un’altra parte dove vergognarsi. Che non sia Foggia. E che non sia il Parlamento (come lei stesso dice).

Chiudo con una domanda.

Lei lo conosce Nicola Stame?

Forse no.

Nicola Stame era un tenore, un grandissimo tenore. Un uomo bellissimo, affascinante. Il suo volto, la sua voce e il suo sorriso erano puro romanzo meridionale, erano atti di forza contro la barbarie fascista. Lui e non lei, è uno delle nostre parti, con la forza delle nostre parti, con il cuore delle nostre parti. Uno morto in altre parti d’Italia perché non non aveva scelto il silenzio. Precisamente fucilato. Alle Fosse Ardeatine.

Guardi questo link (alla Camera avrà la wi-fi, non le tocca neppure sostenere costi) che le allego. E’ tratto da Rappresaglia, un film del regista greco George P. Cosmatos. Nel video, la colonna sonora originale è stata opportunamente sostituita con un passo dell’opera lirica Il Trovatore di Giuseppe Verdi interpretato dallo stesso Stame nel personaggio di Manrico.

Eccolo: https://www.youtube.com/watch?v=-JyVlfe6Ujk

Non aggiungo altro. Impari solo il senso delle parole. E della Storia

Piero Ferrante – uno qualunque delle sue parti

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LA RISPOSTA DI LELLO DI GIOIA (a noi pare che no, non lo conosca Nicola Stame, ndr)

Egregio Signor Ferrante,

vorrei semplicemente soffermarmi su una questione che lei sistematicamente riporta, e che riguarda  l’ultima parte di una “non intervista”.

Sicuramente sono stato molto ingenuo perché nel momento in cui il suo collega de La Repubblica mi ha chiamato e avendo stabilito di parlare in modo tranquillo, senza rilasciare intervista, mi sono permesso di fare alcune dichiarazioni con l’articolista e che riguardavano la mia persona e il mio modo di vivere.

Le posso semplicemente dire che il “non denunciare che dalle mie parti non si usa cosi” non era certamente riferito  -come potrà confermare chiunque-  ad essere omissivo, nel conoscere fatti e non dirli e non denunciare alle autorità competenti, bensì che noi non siamo abituati a fare così: ossia di non denunciare i giornalisti che scrivono l’articolo. Perché, io più di altri, credo nella libertà di stampa e credo anche sia giusto pubblicare notizie, sempre che siano verificate di fatti, pur essendo stato attaccato più volte, non mi sono mai permesso di denunciare un giornalista. E credo che questi siano i fatti.

Inoltre, e chiudo ringraziandola per le sue considerazioni, fermo restante che è opportuno conoscere a fondo le persone prima di esprimere giudizi: il sottoscritto ha subìto ben tre furti, la macchina rubata e due in casa, ho esposto, come qualunque cittadino, denuncia alle autorità competenti. Ho ricevuto minacce, sia presso la mia sede con bossoli di fucile; nonché furti per due volte nella stessa sede, pallottole di pistola contro la mia abitazione e qualche mese fa un lettera minatoria con foto. Anche in questo caso ho sporto regolare denuncia.

Certo che il tempo, anche se amareggiato, farà emergere tutta la verità. Le chiedo semplicemente, con l’umiltà che mi contraddistingue, di avere pazienza.

Distinti Saluti, Lello Di Gioia

17/03/2014

Published in: on 18 marzo 2015 at 22.29  Lascia un commento  
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Scappiamo tutti da Foggia, lasciamoli soli

Sarebbe tutto estremamente più semplice se la politica fosse come la tastiera di un computer. CTRL+ALT+DEL e passa la paura. Una digitazione contemporanea di tasti e puff! fuori dalle pal… dalle stanze i caporali della malapolitica, i mammasantissima dell’affare, gli schiavetti zelanti dell’Occidente, i donabbondio del liberismo internazionale, gli esecutori della volontà delle banche.

Sarebbe tutto più semplice tanto più leggero è il programma da chiudere, senza possibilità di salvataggio dello status. Un secondo e via, nel cestino, in fretta a svuotare anche quello e ricordi di sciagurate esperienze che si perdono tra immagini digitali, icone dei solitari e quelli dei documenti word.

Sarebbe tutto più semplice, ma non è così. E allora serve elaborare nuove strategie, nuove forme di comunicazione, nuovi ingressi per dire sempre e comunque la stessa cosa: che non è la politica ad essere marcia. Ma che lo sono (quest)i politici. Che non è il sistema dei partiti ad essere corrotto e infradiciato di melma, ma lo sono (quest)i specifici partiti (tristi eredi di quelli peggiori della prima Repubblica che hanno, a loro volta, nomi e cognomi: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Movimento Sociale sopra tutti).

Dopo tanto tempo, gli argomenti si sono commutati in tiritere. In fondo, anche il più grande dei cantautori, alla lunga, finisce le idee. Identicamente, le corde delle opposizioni rischiano di suonare sempre la stessa nota. Intonata, bella, sognante, ma cacofonica, evidentemente, per un mondo che è stanco di sentirla. O, forse, troppo perso dietro pornografie quotidiane a base di fast food e tecnologia, di tacchi a spillo e shorts, di Pulcinipio e di Padripio.

A Foggia, la pornografia del potere si chiama cemento. E in realtà propone film tromberecci a base di accoppiamenti tra imprenditoria e tecnostrutture, politica e denaro, mafia e denaro, imprenditoria e politica, malaffare e mafia. Un’orgiona collettiva e godereccia che sfonda sempre lo stesso pertugio: quello di una città di anno in anno palesemente rinsecchita e sformata, non più attraente, e che alle curve della popolarità agricola ha sostituito la spigolosità diffidente e grigia dei palazzi.

Foggia. Abbiamo provato a difenderla. Generazione dopo generazione. Abbiamo provato ad andarle vicino al viso e a sollevarglielo mettendole dolcemente due dita sotto il mento. Sussurrandole che sì, volendo poteva farcela a scrollarsi di dosso la polvere e anche la sporcizia. Che non era polvere ma amianto e che la stava e la sta uccidendo di una malattia lunga e dolorosa. Foggia. Abbiamo provato a sferzarla. Chissà, forse qualcuno avrebbe ascoltato le preghiere laiche dei giovani e dei meno giovani che, un filo d’amore, forse ancora ce l’hanno. Ma le orecchie di chi avrebbe dovuto ascoltare sono rimaste sorde. Sorde alle critiche, sorde alle richieste d’aiuto. Sorde ai rumori delle manette che si chiudevano sempre attorno agli stessi polsi. Sorde ai rumori delle pistole che sparano in mezzo alla gente. Sorde alle domande inevase.

Sorde, ora abbiamo capito, tutti, perché. Perchè al banchetto orgiastico, quello in cui ci si spartiva gli interessi, c’erano anche loro. I “potenti”. Che potenti, a ben vedere, proprio non lo sono. Facevano affari con quelli che sono sempre stati loro amici e che lo sono rimasti anche una volta svestiti i panni di privato e indossata la fascia tricolore. Hanno creduto che di fronte alle rivendicazioni della parte pulita di Foggia bastasse difendersi, addirittura minacciare. Ma, solitamente, funziona che chi si difende dal bene è perché in testa ha il male.

E allora la soluzione è una. Ed è un appello a tutti. Non solo ai ragazzi. A “quelli che hanno studiato e che sono sprecati”. No. Ma anche alle donne, ai bambini, ai vecchi e ai vecchissimi. A tutta la gente pulita. Agli onesti. A chi crede nell’amore sapendo che, a volte, il bene dell’amore è doversene staccare. Andiamocene. Scappiamo. Compiamo una fuga d’amore. E’ la nostra sola arma politica, piena di coraggio. Non abbiamo altre armi che quelle della solitudine. Lasciamoli soli. Soli di non fare affari sulla pelle di nessuno. Soli a marcire sotto le tonnellate di monnezza che hanno creato. Lasciamoli soli con i loro palazzi vuoti, con i cassonetti bruciati, con le discariche che hanno contrattato. Lasciamoli soli di bearsi del nulla. Sparpagliamoci per il mondo, vicino o lontano, non importa. Cresciamoci. Diamoci nuove possibilità di conoscere. E lasciamo i soliti fare affari con i soliti, quando non servirà più a nulla. Creino pure altre Foggia. Foggia due, tre, quattro. Le facciano come sanno. E le lascino vuote.

Lasciamo i governanti senza un popolo. Lasciamo gli amministratori senza amministrati. Decidano sulle loro teste e – se resteranno – su quelle dei loro familiari e dei loro accoliti.

Lo strano (ed inquietante) caso del bene confiscato ai Lanza


CLAUDIA Cignarella è scorata. Nella sua voce il gusto acre della delusione. “Quanto tempo perduto”, dice a Stato. Il 6 luglio sarà trascorso esattamente un anno da quando il Comune di Foggia ha proceduto a liberare il bene foggiano di Via delle Orchidee, zona Salice, dalle grinfie dei Lanza. Un caseggiato che non è un semplice agglomerato di stanze ma una villa imponente con più appartamenti. Ed una miriade di destinazioni possibili. In teoria, uegli spazi un tempo appartenenti ad una delle famiglie più in vista della criminalità organizzata foggiana dovrebbero essere adibiti oggi ad una “Casa dell’accoglienza”. Nome del progetto che il Noos di Cignarella ha presentato al Comune di Foggia nell’ambito del bando (finanziato e promosso dalla Regione Puglia) Libera il Bene. Iniziativa unica in Italia, finalizzata alla riconversione e al riutilizzo dei beni confiscati. Nel progetto, realizzato in concorso con altri corpi associativi (Abc, Crescere, Genoveffa de Troia, Girasole, Layland, Salute onlus, Sport MasterOne) ed in collaborazione con il Cna, l’obiettivo, utopico, di creare uno spazio contro il disagio. “Allestire, attraverso una collaborazione ad ampio respiro, una struttura pullulante di vita per soggetti svantaggiati”.

LA VICENDA – La storia comincia nel marzo 2010. C’è la campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale. A fari spenti, l’anonimo Mongelli si muove e recepisce il bando. Il 24, Claudia Cignarella e le altre associazioni depositano la loro idea, a cui viene dato il benestare un paio di mesi più tardi. Tutto pronto ma manca un particolare: la fruibilità del bene. Secondo le disposizioni regionali, per poter accedere ai fondi (750.000 euro il tetto massimo finanziabile per ogni progetto, cui il Comune avrebbe dovuto contribuire partecipando con il 10% delle spese), l’obbligo è la disposizione dello spazio al successivo 30 giugno. Sindaco, giunta e dirigenti cincischiano. Le associazioni spingono per sbloccare l’impasse e mettono a disposizione dell’Ente di Corso Garibaldi tutto quanto possibile per evitare dilazioni.

LE OPERAZIONI DI SGOMBERO SETTE GIORNI DOPO LA SCADENZA DEL BANDO – Ma non basta. Il bene viene fatto sgombrare soltanto il 6 luglio. Una beffa. Sono passati sette giorni appena dalla scadenza fissata dal bando. La domanda più ovvia ed opportuna: per quale motivo? L’interrogativo fa il giro delle associazioni. Di bocca in bocca fino a Libera, vero e proprio “sponsor morale del bando” e da anni impegnata nel tentativo di recupero e riconversione dei beni confiscati. Mimmo Di Gioia teme “che, sotto, possano esserci altri interessi”. Daniela Marcone chiede solo che “dopo un anno qualcuno si degni di dare una risposta a Claudia Cignarella”.

LA DELIBERA DI GIUNTA – Il 9 novembre 2010, con delibera di Giunta n.143 (nell’era della trasparenza, non presente in rete), Palazzo di Città prova a darne una. Dopo insistenze della Cignarella (e la garanzia di autonome ristrutturazioni), il bene del Salice viene dato in gestione al Noos. Il governicchio Mongelli approva la proposta e stila anche un modello di convenzione. Non resta che firmare. Ma la sigla delle parti non arriverà mai. Il bene intanto è rimasto a marcire. Giorno dopo giorno, chiaramente, il pericolo che venga occupato abusivamente aumenta. In più, la legge 109/1996 prevede che, scaduti i 365 giorni, se il Comune non ha provveduto alla destinazione del bene, il prefetto nomina un commissario con poteri sostitutivi.

Accadrà? Non si sa ancora. Ma, mentre le trattative con il Comune sono in corso e mentre le viene assicurata la certezza della convenzione, Cignarella scopre che l’Ufficio Politiche Sociali di Corso Garibaldi, a fine 2010, ha chiesto finanziamenti (Pon sviluppo 2007 – 2013) proprio per progetti da attuare su quel bene. Bypassando con abile dribbling le associazioni ed aprendo chissà quali scenari. E quando prova a chiedere spiegazioni, prima negano, poi la rimpallano da ufficio ad ufficio, infine la rassicurano dicendole che, nel progetto Pon è contemplata la presenza del Noos. Strano, visto che nessuno si è preso mai la briga di avvertirla in merito. Ed anzi, ancora il 31 marzo scorso, in occasione di uno dei presidi simbolo della legalità foggiana (il ricordo dell’omicidio di Franco Marcone), Gianni Mongelli ha provato a tranquillizzare gli animi, imposto un “fermi tutti” e promesso di sbloccare la situazione entro “la fine di giugno”.

AGGIORNAMENTI: Dopo ripetute insistenze da parte mia e da parte di alcune associazioni del territorio, fra cui anche Libera, il sindaco aveva accettato d’incontrare Claudia Cignarella. Il colloquio, cui avrebbe partecipato lo stesso Mongelli e l’Ufficio Politiche Sociali, fissato per il 23 giugno, è stato fatto saltare misteriosamente un’ora prima con una chiamata gelida e formale indirizzata alla presidentessa Noos.

Stato Quotidiano, 2 luglio 2011

Campo degli Ulivi invaso dalle blatte

Campo degli Ulivi (ph: radicaliliberi.wordpress.com)

Foggia – TRE container sono andati via solo pochi giorni fa, presidiati dai residenti. Non ne arriveranno altri. E non arriveranno, soprattutto, altre persone. Per Campo degli Ulivi, dieci anni dopo, sembra giunto il momento della svolta. Pare. Pare che lì, dietro l’angolo, s’intraveda la possibilità di un cambio di vita. A breve ma neanche troppo. In un paio d’anni, ci rivela una fonte confidenziale molto vicina al Comune di Foggia, tutte le famiglie saranno trasferite altrove. Precisamente divise fra diversi alloggi individuati dal Comune di Foggia fra una zona immediatamente contigua (laddove, per conto della “Silvia” si sta allestendo anche la cittadella dello sport) ed una alle spalle del centro commerciale “Mongolfiera”.

NESSUNA MANUTENZIONE. Pare. Ma, intanto, la vita nel Campo è tutt’altro che semplice. Quando piove e fa freddo, si dilata il problema dell’umidità. E, con il caldo alle soglie, il problema è quello dell’afa. Un’aria irrespirabile di polvere e detriti che i condizionatori messi a disposizione da Palazzo di Città, attenuano appena. Anche e soprattutto perché i residenti lamentano un totale disinteresse da parte delle amministrazioni. In verità, si tratta di una storia vecchia ed arcinota. Quel che è grave e che sfugge, e che oggi molti lamentano con noi di Stato, è la mancanza di manutenzione. Una manutenzione promessa e mai effettuata, quella sui condizionatori. “I filtri – ci rivela Carmela, una delle prime a giungere a Campo degli Ulivi, che risiede nel primo dei container che si incontrano – li puliamo da soli. Dobbiamo arrangiarci”. Ma arrangiare una vita che rimane all’oscuro dalla comunità non è facile.

UMIDITA’, FEBBRI REUMATICHE, ASMA. L’altissimo tasso di umidità (ci sono intercapedini del soffitto che, specie in inverno, lasciano che l’acqua entri senza neppure bussare) determina una gran quantità di febbri reumatiche e malattie respiratorie. Molti bambini, e non solo, sono affetti da asma. E le stesse febbri reumatiche causano problemi al cuore, in primis insufficienze mitraliche. Occorrerebbe fare attività fisica, praticare uno sport. Ma i soldi sono quelli che sono e nessuno, crisi alla mano, è disposto a fare sconti. Foss’anche per motivi “umanitari”. In mano, una documentazione corposa fatta di referti medici e certificati, di ricette pediatriche. Nel cuore, invece, lo sconforto. E la certezza desolante che le cose, dovesse continuare così la vita quotidiana, non potranno che peggiorare. “Purtroppo – ci dice una giovane mamma – le pediatre ci prescrivono sempre le stesse identiche medicine le quali, ad un certo punto, non fanno nemmeno più effetto sui nostri piccoli”.

Le blatte (Ph. R.P.)

LE BLATTE. Tanto più perché, a primavera ormai andante, si depositano, su questo lembo estremo di periferia, altri pesi. Gravosi colpi di maglio che appiattiscono e comprimo e pressano una vita ad un ammasso di problematiche teoricamente scavalcabili. Come, ad esempio, l’invasione degli insetti. E’ come se un Dio silenzioso, burocratico ed insensibile avesse voltato la testa da una parte diversa da questa, rivolgendo lo sguardo chissà quanto distante, verso lidi migliori e meno turbanti. Permettendo, in tal modo, che le blatte invadano i container.

SPRECO DI CIBO. Le uova si sono schiuse. E, a decine, convivono con le famiglie dei baraccati. Racconta la giovane mamma di cui sopra che “già l’anno scorso mi hanno invaso la cucina, le ho trovate fra la pasta, nel pane. Ho dovuto gettare tutto”. E con quello che costano le derrate, non deve essere stata una decisione presa a cuor leggero. Ma sarebbe sciocco correre rischi inutili. Tanto più perché le blattodee, o faluche, sono considerate fra i principali responsabili della trasmissione delle più importanti malattie al mondo. Come piccoli aerei dell’insanità, nei loro voli trasportano virus, batteri, cestodi, protozoi, nematodi e depositano nel cargo enorme del corpo umano epatiti, dissenteria, salmonellosi, poliomelite, malattia del legionario, asma.

I “PRIGIONIERI”. Non c’è da scherzare. E la situazione è tutt’altro che sotto controllo. Appena giungiamo a campo degli Ulivi, Carmela ci mostra due barattolini, di quelli degli omogenizzati. In uno, tre blatte, nell’altro una quarta più grande. Le ha catturate tre giorni fa. E, pure in condizioni di totale mancanza di ossigeno, sopravvivono come nulla fosse. Carmela ci scherza, ci ha fatto l’abitudine. Riunite attorno un gruppo di altre donne, ci dice giocando che “stasera le infilo nel panino e le mangio, magari sono anche saporite”. O così, oppure c’è sinceramente da essere infuriati contro chi, in effetti, ha dimenticato che in questo ammasso di pietre e sabbia ci sono delle persone, vive un’umanità ai limiti del consentito, relegata ai margini del tempo e dello spazio, in bilico fra salute e malattia 365 giorni su 365. Ogni anno. Ed anno dopo anno, moltiplicati per undici.

Referto del P.Soccorso (ph:R.P.)

IL CASO DI ERSILIA. Casi allucinanti, quelli di Campo degli Ulivi. Già, perché, ad esempio, nella notte fra sabato e domenica scorsi (2-3 aprile), una signora, Ersilia, è dovuta ricorrere alle cure emergenziali del Riuniti di Foggia. Nottetempo, coricata in quella proiezione di normalità che è la sua baracca, così identica alle altre, una blatta le è prima atterrata su una guancia, poi le ha penetrato l’orecchio. Dolore, rumore forte, un cammino con quelle zampette fin quasi al timpano, il rischio che potesse penetrare nel cervello causando danni ben peggiori ed irreversibili. Infine, la corsa al nosocomio del Capoluogo dove i medici hanno prima tentato di estrarre il corpo dell’insetto con una pinzetta (fra le urla della signora). Poi, le hanno letteralmente allagato l’orecchio, in estrema ratio prima di intervenire con un taglio fra orecchio e mandibola. Operazione che, per fortuna, non è stata necessaria. Tre giorni di prognosi e la sensazione che, da quella notte, le cose non saranno più eguali. Tanto più perché i bambini sono tanti ed è per loro che le mamme e le nonne sono in apprensione. Salmonellosi e dissenteria, colpissero un infante, ne potrebbero mettere in pericolo anche la vita. “Siamo spaventate” ci dicono. E glielo leggi negli occhi, in quell’anelito di normalità che scuote, stordisce, commuove.

LINK: http://www.statoquotidiano.it/06/04/2011/campo-degli-ulivi-invaso-dalle-blatte-i-residenti-li-mangiamo-con-il-pane/45753/

Quanto sei brutto, Foggia! Il Siracusa non perdona

Ivanov 6. Se non avesse cincischiato in occasione del gol di Bufalino, potremmo finalmente dire che il ragazzo è ritrovato. Resta sempre, però, la sensazione di incertezza quando la palla si avvicina dalle sue parti. Fa il coraggioso nelle uscite, è troppo spavaldo, si lancia avventurosamente che manco Indiana Pipps (parliamo sempre di Ivanov, eh, quindi lungi da noi il paragone con Harrison Ford). Sventa almeno tre palle gol dei padroni di casa. Poi, purtroppo l’errore. E, qui, è la solita storia. Cardiologia.
Kone 6. Va. Ci crede fino in fondo. Quando difende a volte tira parolacce ai fan (con buona pace della bontà zemaniana), ma i suoi raid sono gli unici che mettono in pensiero la retroguardia biancazzurra. Corre – e questa è già una notizia – ed è in forma. Utile.
Regini 6.5 (IL MIGLIORE). Impressionante. Randella senza pietà le gambe degli avanti siracusani e, per non farsi mancare davvero nulla, fa il Regini per tutta la partita. Monitora la fascia sinistra in maniera impeccabile, supplendo anche ad un Laribi che oggi tendeva ad accentrarsi troppo. Ha sette vite. Gatto.
Burrai 5. Pronto?!? Pronto, chi è?!? Oh! Burrai, Burrai, Burrààààà. Ti sei svegliato? Troppo tardi, i tuoi compagni sono già in aereo.
Rigione 5. Pronti via e la fa grossa, regalando palla a Koffi come un Bacio Perugina. Speriamo almeno che dentro ci fosse un bel messaggino d’amore, perché ne ha bisogno. E’ l’unica pecca in una difesa che tiene. Esce zoppicante. Riprenditi. (25′ st. Torta 4. Quanto basta per ricordarci perchè ha i calli al sedere)
Romagnoli 6. Capitano o mio capitano. Non si distrae mai ed è costretto a fare anche il lavoro del vicino di reparto. Adesso Casillo dovrà pagargli lo straordinario. Toppa.
Farias 4.5. Una tragedia. Non c’è ombra del calciatore ammirato nelle primissime partite. Il campo di Siracusa di certo non gli è congeniale, essendo, lui, un tecnico ed un rapido, due caratteristiche che,limitatamente alla terra battuta sicula, proprio non si addicono. Ma non è la prima volta. In attesa di risposta. Stand by. (27′ st. Agodirin 5.5. Non cambia il volto della partita. Lo aspettiamo da titolare)
Agostinone 5.5. Se uno è da 5 anni menzionato fra i panchinari con la nomea di eterna promessa ci sarà anche un motivo, vero Zeman? Svolge un compitino che non aiuta veramente nessuno. Quale, poi, sia, non lo sa nessuno. Un giorno attaccante, un giorno mezz’ala, oggi addirittura nel ruolo di Salamon. Lo aspettiamo in porta. Meglio di Ivanov, magari, sarà. Cangiante.
Sau 6. Mamma mia quanto corre. Sopperisce al campo pietoso mettendoci i muscoli, l’unica cosa plausibile. Ma predica in un deserto di farisei. Volenteroso.
Laribi 5.5. Vivacchia in mezzo al campo, schiacciandosi troppo sul già impacciato Agostinone. Forse, sarebbe valsa la pena provare ad invertirli di ruolo., tanto per cambiare. Senza Salamon è come una mortadella senza panino, insulsa.
Insigne 4. Ci sono giornate che è meglio tapparsi in casa e non uscire alla mattina. Il folletto di Frattamaggiore, oggi, non riesce ad imbroccarne una che sia una. E, come aggravante, non ci mette nemmeno l’impegno. Se perde palla, si ferma. Eppure dicono che la primavera faccia girare l’ormone. Ecco Lorè, fai l’ormone. Biologico. (39′ Varga 5. Per fortuna è in prestito)
Zeman 5. Maestro posso farle una domanda? Ma per mettere Agostinone lì, proprio nel cuore del centrocampo, quanto ha fumato? E cosa? Per fortuna domenica si torna allo Zaccheria ed alle innocue caramelle.

Botte, carabinieri e risse. Libia? No, lo Zaccheria. Pagelle di Foggia – Gela 2-2

PAGELLE – Ivanov 5.5. Una domanda: quando torna Santarelli?
Candrina 6. Come sempre si lancia nelle scorribande nella metà campo avversaria e, per far questo, scopre la difesa. Dà la sensazione di patire qualche acciacco. Sandokan con le bende. (26’st, Agodirin 6.5. Indovina indovinello, chi è il più furbo del campo? Ma sì, è Lola! Il Gela perde tempo per l’intero secondo tempo. Omaccioni grandi e grossi, senza pioggia, né campo pesante, non possono tutti essere afflitti da crampi o da ginocchia molli che cedono tutto d’un tratto provocando cascate di corpi come carneficine. E allora, alla prima occasione lui si prende la vendetta. E ora provate a prenderlo.)
Tomi 6. In settimana, nel ghiaccio di Ordona, si era sottovalutato, dicendosi non ancora maturo ad affrontare una gara per intero dopo tre mesi lontano dai campi. Cosa non vera. Tomi gioca 90 minuti, spinge sulla fascia, difende e si propone in avanti, dialogando con un non ottimo Insigne. Leone.
Salamon 6.5. Si piazza al centro e non lo smuovi nemmeno con la dinamite. Randella e si fa randellare. Si intestardisce, nei primi minuti, per calciare una punizione dal limite che, per due volte, manda a schiantarsi contro la barriera biancoazzurra. Poi cresce, giocando una partita da autentico Pirlo in fa minore. Serve palloni con il contragiri sia a Farias che ad Insigne. Colosso polacco
Rigione 5.5. Vero è che beccare gol come il Foggia li ha beccati oggi non comporta, necessariamente, responsabilità soggettive. Vero è anche, però, che non puoi farti star lì ad ammirare gli avanti che bellamente tirano verso il portiere più scandaloso degli ultimi 150 anni della stria dell’Italia unita. Statua di pietra. (20’st, Torta sv Non ha fatto nemmeno la doccia)
Romagnoli 6. Come sopra, ma con il merito di accalappiare quelche palla in più. Ferma in maniera egregia Docente lanciato a rete con un intervento da magistero.
Farias 7. Corre corre corre. Ha sette vite e chissà quante batterie. Altro che Duracel. Sulla destra spadroneggia che nemmeno Gheddafi a Bab al Azizia. Prova anche a mettere le melanzane nel piatto alla norma in prima persona, senza tuttavia riuscirci. Bep bep.
Kone 6.5. Inizia benino. Zeman lo preferisce a Burrai e lui prova a ripagare la fiducia del boemo. Prova anche ad impostare e non solo ad arrembare. Nel primo tempo, dai suoi piedi passano diversi palloni. Serve un assist al bacio per l’1-0 di Sau che lascia di sasso tutta la retroguardia del Gela. Capita l’antifona, i centrocampisti gelani gli montano attorno la gabbia e non gli consentono più nulla. Prigioniero. (39’st, Agostinone sv)
Sau 7. E sono 15, superato Insigne e di nuovo capocannoniere. Dormicchia per tutta la partita, spara alto in un paio di circostanze. Non brilla per vivacità. Ma due volte viene chiamato in causa e due volte non fallisce. Il 24enne sardo fa godere da Dio tutta la curva Sud. Provoca la rissa finale. Ma, in fondo, meglio così. Cinico.
Laribi 5.5. Non è il miglior Laribi, quello che scende in campo contro il Gela. A mobile è anche mobile, ma a volte è troppo prevedibile ed è un po’ fuori dal gioco. Non riesce a dar sfogo a tutta il suo estro.
Insigne 5.5. Quando vuole fare il Maradona a tutti i costi è urticante.
Zeman 6. Nessuna squadra composta da sani di mente avrebbe preso gol come è successo per la seconda marcatura del Gela. È la sintesi di quello a cui si va incontro se il tuo coach si chiama Zdenek e di cognome fa Zeman. Ma, tutto considerato, il suo Foggia non demerita. Stradomina il primo tempo ed anche il secondo. Se l’arbitro avesse dato recupero, chissà che cos’altro sarebbe successo. Quisquilie e discussioni che odorano di giustificazioni. Resta che, il Foggia non è autorizzato a pareggiare in casa con il Gela.

A Foggia ci torno due volte all’anno. Lettera di un Foggiano a Pisa

A Foggia ci torno due volte all’anno. Nonostante siano otto gli anni di lontananza, so che il conto non è ancora chiuso, e che, prima o poi, in qualche modo, Foggia tornerà in me ed io in lei. Foggia è una donna picchiata ed incattivita dalla vita. Un mostro creato ad arte, come si creano i mostri con la sottile ferocia quotidiana. Le tre fiammelle vanno spegnendosi sotto l’alito mefitico delle persone che la stuprano costantemente.

Foggia occorre tenerla là, al posto suo, quando vai via. Troppo brutale starci dentro, e non è una questione di chilometri. Te ne accorgi quando te ne vai. Tutti dovrebbero andare via da Foggia per un anno, e tornarci, e tornare a vederla, e “tenerla là”. Chi non lo fa ,forse, non è davvero un foggiano, ma solo un pigro.

Perché se per un poco Foggia ti tocca l’anima con la sua parte marcia, ti senti maledettamente perduto tra le sue gambe di violenza. Foggia è la città più violenta d’Italia. Più delle grandi città, perché il provincialismo serve a inasprire. Più delle terre dove la mafia la respiri ad ogni passo, perché almeno lì sai di cosa aver paura. Sai che puoi morire in qualsiasi momento. A Foggia non sai nulla. Non sai se l’occhiataccia abituale del ragazzino pompato possa essere ragione di rissa, o se vale la pena incazzarti con l’amico ventiseienne senza speranze, che sputtana la sua vita credendo di stare ancora al liceo e che prenderesti a schiaffi se non l’avessi già fatto, che ami maledettamente e che ti fa venire il sangue agli occhi.

Perché la amo Foggia, consunta da retoriche stanchevoli di banali malvagi. Banali e ripetitivi, che il disgusto non viene per loro ma per i loro modi, che si vogliono disgustosamente nuovi perché si grida di più.
Amo la Foggia delle cartacce gettate al cicchettaro, che farsi schifo da soli è un invito alla contemplazione del nulla. Del pierino che si sente bello perché vende i biglietti di festini alla Arcore nella patria del pomodoro. Del migrante schiavizzato nelle campagne, con la città che gira le spalle per non vedere. Dio mio, non vedere. L’amore è qualcosa che fa troppo male a volte, e stai male e soffri, e piangi di nascosto al vedere le notizie terribili. Nascosto al mondo, nel deserto di te stesso.
Non era così. Foggia non era così. Non è la disoccupazione, anche se pesa. Non è una maledizione inevitabile: maledetto è chi fa di tutto per esserlo. Non è neanche la violenza, perché deve avere da qualche parte un baratro d’origine.

È il disagio a se stessi dato dai buchi colmati dal niente. È il soffocante peso di una classe politica che riempie di infette cartacce in ogni dove la città che dicono di voler “pulire”. È la perenne delega ad altri, perché tutti si vuole andare in paradiso e dire poco al prete in confessionale, che la coscienza deve essere sbiancata dal “se la vedono loro, non me ne importa niente a me”. Magari detto in dialetto con l’occhio complice ed il sorrisino, così è più facile non sentire il dolore della morte che avanza dentro. Morte comune, mezzo gaudio.

Non ho ancora chiuso i conti con Foggia, e Foggia non ha ancora chiuso i conti con me. Non sono fuggito: mi sto preparando. E prepararsi significa solamente ed in primo luogo dimostrare che un altro modo esiste, che se occorre buttare la vita almeno va buttata in qualcosa che forse decido da me, e non faccio decidere da altri. Fare la propria parte per non arrendersi a qualcosa che altri hanno dato per inevitabile, con la voglia di voler gridare che è tutto un inganno, che si nuota nell’acquario sporco in cui ci hanno limitati, che la violenza è solo il modo più stupido per dar loro ragione, che Cannone non era più scemo di me.

Maledizione

(L.Ferrante, riproduzione Stato Quotidiano – http://www.statoquotidiano.it/25/02/2011/cannone-non-era-piu-scemo-di-me/43026/)

“Paura del silenzio sulla morte di Francesco”. Intervista con Gianni Mongelli, sindaco di Foggia

Fiori e sciarpa rossonera in ricordo di Cannone in Corso Cairoli a Foggia

DI lavoro da fare ce n’è tanto.Gianni Mongelli, per un’intera mattinata, incontra gente. Assessori, consiglieri, cittadini. Malgrado una fastidiosa influenza che lo attanaglia da giorni, il Sindaco va avanti. La scrivania piena zeppa di faldoni e di fascicoli, di carte. C’è da fare. In una città in balia delle polemiche e, nelle ultime ore, nella morsa di un vento gelido che sferza le vie e non aiuta i cagionevoli, Mongelli prova a tirare avanti. La pistola che ha sparato, quella impugnata dal 24enne Paolo Basto emana ancora odore di polvere da sparo. Per lui e per il suo amico, Giovanni Pio Mele, il gip del Tribunale di Foggia, Carlo Protano, ha rigettato la richiesta di scarcerazione.

Sindaco, Foggia città violenta?
No, il discorso mi sembra troppo forte. Personalmente non sono a favore delle generalizzazioni. Ritengo fallace estendere a tutta la cittadinanza un discorso che va limitato ad una parte di essa. Vero è, però, che stiamo andando incontro ad una fase di profonda depressione urbana. Ci sono degli episodi di violenza sempre più frequenti che devono indurre a preoccupazione sia chi amministra sia, tengo in particolare a questo punto, chi vive la città da privato.

Quindi, Foggia città deresponsabilizzata. Per ora…
Guardi, al di là degli aggettivi, quello che mi preoccupa è una fenomenologia che si biforca, concretamente, sottoforma di due rappresentazioni: da un lato, c’è la futilità delle motivazioni sottese a questi episodi. Personalmente, sono molto spaventato da questa cosa. Temo che la violenza prenda il sopravvento in modo troppo semplice, non ci siano forme di resistenza personali che inducano i soggetti ad un attimo di riflessione in più. In secondo luogo, guardando la città da questo onorevole punto di vista in cui mi trovo, noto una recrudescenza dei fenomeni criminosi, l’aumento di furti e rapine, una criminalità che incalza e talora scalza la società veramente civile.

A cosa crede sia legata questa recrudescenza?
Alla mancanza di valori positivi. Non leggo, in questi atti, la speranza, il sogno, la voglia di una normalità basata su quelli che sono gli elementi moralmente ed effettivamente rilevanti. Non c’è rispetto per il prossimo, messo sotto le scarpe. Non c’è il valore della famiglia, del lavoro. Dell’educazione, della cultura. E, in parte, inutile nasconderlo, è anche responsabilità della politica. È anche responabilità di noi governanti.

Perché non riuscite…
Perché non riusciamo a fare i conti con le esigenze delle persone. O, meglio, capiamo dove bisogna intervenire, decodifichiamo i bisogni dei giovani. Purtroppo, però, patiamo un periodo di forte crisi anche delle istituzioni governative. I tagli perpetuati dal Governo centrale e i ritardi di Bari non ci fanno dormire sonni tranquilli. Anzi, ci portano a dover tagliare risorse piuttosto che investirle.
Senta, in quei “sonni poco tranquilli” che lei dorme, quanto influiscono eventi come l’omicidio di Francesco Cannone?

Io ho vissuto questo nuovo omicidio come un dramma che mi ha provato anche a livello fisico. Come uomo innanzitutto, ma anche come amministratore di tutti. Sento molto il peso di quel che è successo. Perché, qui, non è solo una la vita spezzata, ma tre. Tre giovani che, anche se in modi diversi, sono parte di un copione disperato che stronca l’esistenza. Chi resta, chi si è macchiato dell’omicidio e chi si è reso complice, non avrà più una vita semplice, entrerà in un circuito di disperazione che alimenterà una volta di più lo scoramento collettivo.
Sindaco che cosa serve alla città? Insomma come si fa a venire fuori da quella retorica delle classifiche sulla qualità della vita? Su Foggia città morta ed inospitale per gli stessi foggiani?
Servono azioni forti che riconducano ad una prospettiva di futuro. Ecco, Foggia ha bisogno di smettere di guardarsi indietro, di guardare a tutti i suoi morti ammazzati, alle sue attività chiuse, ai progetti falliti. Foggia deve incominciare a guardare avanti a sé, alzare la testa per scrutare di nuovo dove si annidi la speranza del cambiamento. In questo serve che tutti si attivino. A partire dai cittadini, che devono lavorare indipendentemente dalle istituzioni ma con le istituzioni, in un circuito ampio di collaborazione che riesca a sopperire le mancanze dell’uno e dell’altro. È un piano di aiuto e di sostegno reciproco.

E dov’è la speranza di Foggia?
Nei giovani. A patto che non si lascino irretire da un mondo sempre più volgare e sguaiato, che propaga servilismo a piene mani e che pubblicizza modelli violenti. Foggia è piena di giovani motivati, attivi. Da loro passa il riscatto civile. Penso all’associazionismo giovanile, al Forum dei Giovani che all’interno del Comune ha sempre libero accesso per libera interlocuzione. Penso anche agli Amici della domenica, un’altra associazione intergenerazionale che opera nel concreto e che punta alla riqualificazione di tutta la città. Dagli spazi urbani alla mentalità urbana. Una città più bella è una città più giusta. Penso anche, per esempio, ad eventi fortemente significativi come la manifestazione femminile del 13 febbraio. Tutti insieme, possiamo scuotere Foggia.

Non la spaventa, a proposito di soggetti urbani, il silenzio che è scoppiato in città dopo l’omicidio?
Molto (si arresta e sospira). Fa impressione questo silenzio assordante della società civile foggiana proprio mentre, al contrario, bisogna mettere in campo un’azione collettiva. Dobbiamo, tutti non solo il Sindaco, dire basta. E dire basta significa vivere diversamente, al di fuori di questi schemi violenti. Ma significa anche chiedere a gran voce che ci si muova. Chiesa, Comune, Provincia, scuole, famiglie, stampa, associazioni, politica. Nessuno deve tirarsi fuori.

E ci sono queste condizioni? Lei reputa, cioè, che tutti questi soggetti possano interconnettersi tra loro?
A livello istituzionale non ci sono problemi. Si rema nella stessa direzione. Ed anche i giornali, devo dire, stanno acquisendo un ruolo sempre più centrale nell’indirizzo positivo della società e della socialità. Il giornalismo, la comunicazione, sono una missione che reputo fondamentale per il territorio. E, tranne in rarissimi e sporadici casi, per fortuna c’è occasione di dialogo responsabile.

Lei ha parlato di connessione con scuole, parrocchie, associazioni. Avete pensato ad un tavolo di lavoro?
Non c’è bisogno di tavoli a tutti costi. Certo, siamo a lavoro per organizzare incontri e strutturare interventi che vadano in questo senso. Ma quel che vogliamo soprattutto fare è parlare con i giovani nei circuiti dei giovani. Da quelli formali a quelli informali della socializzazione. Vogliamo dire loro quanto sia deleterio fondare lo stare insieme su alcool e droghe, e abbruttente ed avvilente lo stazionare, fermi, sulle proprie posizioni escludendo gli altri dal confronto. Vogliamo far capire loro quanto sia importante il sogno collettivo e quanto, all’inverso, sia brutto scherzare troppo pericolosamente con la vita. Sa, è tragico, per un Sindaco e per un uomo, sapere che un giovane muoia per una malattia. È tragico sapere che un giovane muoia in un incidente stradale. Ma è inaccettabile sapere che un giovane muoia ucciso da altri due giovani. Dobbiamo fare in modo che non accada più.

Il Foggia si traveste da corsaro e cannoneggia la barchetta povera del Viareggio

Ivanov 7. Mezzo voto in più per i progressi. A Viareggio, praticamente, si è fatto un bel picnic in un’altrettanto bella giornata di sole. Non è mai chiamato, tranne in un’occasione nel primo tempo, a parate impegnative. Ma monitora con estrema calma l’area e dimostra anche di avere un buon piede. Questa volta nessun infarto a Foggia durante la partita. Work in progress.
Candrina 6.5. Rodaggio difensivo più che superato. In fase offensiva sostiene Farias che è una bellezza. Non sbaglia mai. Avete presente Caccetta? Ecco, è la sua nemesi. Per fortuna.
Regini 7. Questo qui è la chiave dei satanelli. Impazza dappertutto, corre, ci mette cuore, polmoni, classe. Gioca con scioltezza ma con grandissima concentrazione. Capitano coraggioso.
Salamon 7.5. Geometra polacco con una classe grande così. Quando ha, ai suoi lati, giocatori veloci come Laribi e Burrai, gioca tranquillo disegnando parabole magistrali negli spazi che gli si aprono. Il centrocampo del Foggia è questo. Rischia di rompersi la zucca per metter dentro il cuoio del raddoppio. Anema, core e piedi…
Iozzia 6. Non ha molto tempo per esprimersi, ma non dà segni di debolezza (Rigione 7. Una partita di forma e sostanza. È la frontiera dei palloni che i viareggini cercano di contrabbandare nell’area franca foggiana. Ma stavolta, sarà l’aria del Nord, le barriere sono chiuse inesorabilmente. Severo)
Romagnoli 7. È il Thiago Silva della difesa di Zeman. Vedere giocare un difensore in questo modo, dopo le tante pippe incassate nelle giornate trascorse rinfranca il cuore dei tifosi e rassicura gli animi degli scettici. Come Rigione, veste anche lui la divisa da controllore. Ed è altrettanto spietato nel perseguire i fuorilegge di confine. Oltre quelle linea non si passa. C’è lui.
Farias 8. Entra in tre dei quattro gol del Foggia. Serve due assist per il tre e per il quattro a zero. Apre i botti nel primo e nel secondo tempo. Va più volte vicino alla marcatura e non entra in tabellino più per sfiga che per altro. Che dire? Grazie.
Burrai 7. Rapido e deciso. Un filtro che depura il cerchio centrale dalle scorie del pericolo. Sbaglia un paio di appoggi e in un caso rischia di combinarla grossa. Ma è in perenne crescita. Meglio di Kone in questo schieramento a tre. Dona brio e velocità. (Kone 6.5. Entra e segna. Per una volta ha fretta)
Sau 7.5. è appariscente come i due compagni di reparto che spirano come venti impetuosi nelle costole dei cagionevoli viareggini. Ma fa quel che conta. La mette dentro. Con quello di oggi, i suoi gol sono 14. Raggiunto Insigne. L’altra metà della mela. (Agodirin 7. Fucila il portiere su servizio di Farias, un’esecuzione fatale. Meriterebbe legnate per aver tolto un gol a Insigne)
Laribi 8. È in uno stato di forma a dir poco eccezionale. Duetta con Sau e con Farias, suona con Insigne melodie che sono un piacere per le orecchie di tifosi rossoneri. L’unico modo per non lasciarlo scappare è metterlo giù. Sarà uscito con le caviglie martoriate. Si capisce perché lo cerchino tutti. Gioiello.
Insigne 9. Esagerati? Macché. Il ragazzo ne combina di cotte e di crude. Fa impazzire letteralmente difesa e centrocampo del Viareggio. È inarrestabile. Gioca con ogni parte del corpo, sa usare i piedi come pochi altri. Per questa serie non è semplicemente una ricchezza, ma un lusso diamantato. È uno degli attaccanti più forti che abbiano vestito la maglia rossonera negli ultimi 30 anni. Peccato per il gol annullato. Fenomeno.

Campagna elettorale 2 giugno 1946 in Capitanata. La politica delle botte…

Eccolo lo spartiacque della storia democratica d’Italia, l’avvento della Prima, lugubre, Repubblica, la linea di partenza di una nuova fase, lo sparo in alto verso la corsa frenetica della conquista delle masse, più elementi elettorali che corpo di diritto vero e proprio: il 2 giugno 1946. E, quando si dice 2 giugno 1946, si intende l’intero contesto spazio-temporale che lo racchiude e lo netta. Città, paesi, piazze da un lato, ore, giorni, settimane, mesi dall’altro. Un plasmarsi duale. Dal gennaio al giugno, furono le bandiere e le voci a prendere le piazze, a ritagliare alla politica quelle zone fino a qualche tempo prima interdette. Due le fazioni, due addirittura i tricolori: quello con lo stemma sabaudo che garriva al suono della Marcia Reale e quello con il bianco “puro”. Da un lato Partito Monarchico (quel che ne rimaneva, per lo meno), ampi settori democristiani e cattolici, la totalità dei qualunquisti (che ne vedeva un balzo ai fasti liberali), qualche liberale; dall’altro, convintamente, socialisti e comunisti (per i quali, la Repubblica popolare rappresentava il primo passo verso il glorioso cammino socialista), repubblicani, azionisti, pochi liberali e coraggiosi cattolici (pochissimi). Rispetto al primo questo secondo gruppo era indubbiamente più compatto, meno sfilacciato. Idealmente convinto e trainato, sostanzialmente, dai partiti marxisti, il blocco repubblicano non cedette neppure per un tratto di strada alle sirene dell’incerto. Scevro da condizionamenti esterni, seppe fare della costanza battente la sua forza, puntando, inoltre, sul binomio Monarchia – fascismo.

Di contro, soprattutto in casa Dc, Alcide De Gasperi non seppe trovare una quadra strategica, chiuso a tenaglia com’era tra laicismo e cattolicesimo. Fu così che il Vaticano entrò appieno nella contesa, sponsorizzando la Monarchia (anche con il famoso ritornello “Scegliete per Dio ed il Re”), patrocinando (anche finanziariamente e logisticamente) il blocco anti repubblicano ed obbligando la Democrazia Cristiana ad una semplice opera di comprimaria. La campagna elettorale, di fatto la prima dell’era contemporanea (prima di allora non v’era suffragio universale e, quindi, la partecipazione finiva per essere risicata e meno emozionalmente sentita), sviscerò i sentimenti repressi, dando sfogo a vizi e virtù italiche. In campo, tutti gli elementi sociali. Accanto ai partiti, le associazioni, la Chiesa, gruppi sportivi, scout e Madonne. La votazione, più che in altri frangenti (anche se meno rispetto a quanto avverrà due anni più tardi), mise in luce le contraddizioni di un popolo soltanto all’apparenza unito. le croci sulle schede divennero questioni di vita e di morte. Conquistarle alla propria parte politica una missione più ancora che un impegno. Per questo, non mancarono tensioni e rivalità in misura molto maggiore che rispetto alle amministrative. Scontri ed incidenti erano all’ordine del giorno.

Ovunque in Italia, con una netta evidenziazione nel Meridione (senza l’eccezione della Capitanata), propagandare si traduceva anche nel boicottaggio dell’avversario. Fu, quella per il Referendum, una vera e propria battaglia. Il miglior bastone fra le ruote propagandistiche era, ovviamente, la chiassata. Vere e proprie manifestazioni di disturbo erano organizzate in ottemperanza al politically scorrect. Bambini e ragazzetti di strada venivano sobillati, in cambio di pochi spiccioli, acchè producessero urla e strepiti in date ore ed in dati posti. Manco a dirlo, quelle e quelli dei comizi. L’aria era particolarmente frizzante. Ringalluzziti dai buoni risultati conseguiti alle amministrative – dove avevano conquistato i maggiori centri – i social comunisti puntarono ad alzare la mira ed a capovolgere un verdetto che, in Capitanata almeno, pareva già scritto. E, con la mira, s’alzò anche il tono. Con conseguenza sull’ordine pubblico.

L’obiettivo era quello di palesare le incertezze soprattutto del maggiore dei partiti monarchici, la Dc. E di farlo in pubblico. Ad esempio, il 6 maggio, a poco meno di un mese dal voto, a Manfredonia scoppiarono incidenti perché, durante un comizio, il candidato Dc Raffaele Pio Petrilli tergiversò a dichiararsi. Scaramucce politiche, vero. Ma, con il passare dei giorni e con l’acuirsi della tensione, schizzò anche il picco di pericolosità. Finchè, il 26 maggio, a San marco in Lamis, un qualunquista venne accoltellato a seguito di una rissa scoppiata con alcuni comunisti. I documenti delle forze dell’ordine segnalarono analoghi incidenti – pur senza vittime – nei comuni di Cagnano, Candela, San Giovanni e Torremaggiore. Ma, al di là delle tensioni, la campagna del 1946 si conformò anche come il primo confronto – scontro fra idee diverse. Con tanto di tentativi incrociati di sottrarre voti alla fazione opposta tramite messaggi di natura trasversale. Fu così che, da sinistra, più di una volta, si sfociò nel teologico e, dal cattolicesimo, nel politico più profondo.  Battaglie cartacee di manifesti, volantini, comizi. E parole, parole, parole. Tante parole per istruire, indottrinare, convincere. Talvolta senza neppure spiegare a fondo le ragioni. A riprova di quanto appena detto, la Biblioteca di Foggia conserva un documento di eccezionale valore, firmato dal blocco dell’Alleanza repubblicana. In risposta alla propaganda ecclesiastica ed al continuo pungolo che questa esercitava sulle donne, l’Ad redisse un volantino intitolato semplicemente “Dedicato alle donne”. E Gesù Cristo entrò in campagna elettorale come una sorta di rivoluzionario socialista ante litteram: “Morto sulla croce predicando l’uguaglianza degli uomini e la libertà degli uomini e disprezzando i privilegi e le ingiustizie sociali”. Come dire: l’opposto di quanto espresso dai partiti erti a baluardo della conservazione monarchica. Non è tutto. Per dar credito alla tesi, il concetto venne sottolineato con tanto di citazione di San Girolamo, secondo cui “pazzo è colui che sopporta di vivere sotto un re”.

È uno degli innumerevoli casi in cui Santi e Figli di Dio vennero “tirati per la giacchetta”. Meglio, per la tonaca. D’altra parte, agli osservatori più acuti non poteva che interessare soprattutto un altro fattore, ben più pesante e determinante per le sorti del voto. Ovvero, la presenza, sul suolo italico, delle truppe angloamericane. Vicini alla Chiesa ed ai democristiani (in verità più per opportunismo politico che per vera convinzione religiosa), i governi militari premevano contro la Repubblica per timore che fosse, come detto, l’inizio del cammino verso il socialismo. O, almeno, verso un sistema politico tale da rendere l’Italia non assuefatta, nei bisogni, al denaro straniero. Quindi, di riflesso, difficilmente controllabile politicamente. Michele Lanzetta, segretario azionista di Capitanata, un mese prima del voto, indirizzò una lettera al Corriere di Foggia proprio con l’intento di mettere in luce il pericolo alleato: “I promessi interventi – scrisse – di potenze straniere desiderose di aiutarci o della Monarchia al di sopra ed al di fuori dei partiti sono fanfaluche”. Il fronte monarchico, al contrario, non era del tutto convinto dell’associazione fra repubblica e marxismo. Il connubio fu un’evidente forzatura strategica per mettere in cattiva luce i sostenitori del nuovo sistema istituzionale e per spaventare le masse. Rimane a tutto diritto nella storia del tempo un volantino redatto dall’Uomo Qualunque e fatto girare praticamente in ogni ganglo della Capitanata. non ne rimangono molte copie. L’unica è conservata nel Fondo Simone della Magna capitana di Foggia. Lo riportiamo per intero:

Io credo in Nenni, dittatore e creatore del caos e del disordine, ed in Togliatti, suo unico figliuolo, nostro tiranno, il quale fu concepito per opera di Satana, nacque da promessa fallace, patì sotto benito Mussolini, perseguitato e seppellito (dice lui!) e dopo vent’anni risuscitò da morte, riscese in Italia, salì al Governo ove siede alla destra di Nenni, dittatore, di là da venire a giudicare i miseri e gli onesti. Credo nel socialcomunismo, nella distruzione dell’Italia, nella miseria dei poveri, nell’annullamento della giustizia, nella morte di tutti e così sarà.

Nenni, Togliatti, Stalin. Il comunismo e l’anticomunismo; la guerra e la fame, la dittatura, la distruzione, la miseria, la morte. La strada della pubblicizzazione ideale dei monarchici era segnata lungo questi binari. Sostanzialmente in stallo, la Dc si aggregò al traino. Un numero sempre maggiore di pubblicazioni hanno dimostrato dell’imbarazzo del segretario De Gasperi di fronte allo strapotere curiale. Tuttavia, nessuna levata di scudi sopravvenne dai settori democristiani. Anche se, va detto, non tutti accettarono di schierarsi con i Savoia. E lo stesso De Gasperi non ha mai fatto totale luce sul suo voto. Ma la corrente monarchica democristiana era realmente forte. Un volantino propagandistico riportò una frase attribuita a da De Gasperi: “Siete sicuri di esser pronti per la Repubblica? Io, comunque, non vi posso garantire che la Repubblica sarà democristiana”. Nulla di dimostrabile, comunque.

Ma l’incertezza fu fortissima soprattutto fra la gente. Emblematico è un trafiletto riportato ne Il Corriere di Foggia, riportante un simpatico siparietto tra un giornalista della testata ed un cittadino del capoluogo, avvenuto pochissime ore prima delle elezioni:

Parla Saragat. Un tale che mi è vicino applaude calorosamente e si mostra compiaciuto della dichiarazione dell’illustre esponente socialista. Gli chiedo: “Mi scusi, ma lei poco fa non applaudiva anche quando parlava De Gasperi e quando suonava la Marcia Regale?” L’altro, piuttosto risentito, mi fa: “Che c’è da stupirsi? Non sono forse libero di applaudire chi mi pare e piace? In regime democratico mi è forse impedito di farlo?” “Ma per carità – gli rispondo io – faccia pure […] ma scusi la mia indiscrezione, può dirmi per chi voterà il 2 giugno?” “Non ho ancora deciso. Ma mi regolerò in questo modo: se domenica il cielo sarà nuvoloso, voterò per la repubblica. Se ci sarà il sole, per la Monarchia. Tanto per me questa o quella…”.

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