L’ultimo partigiano di Foggia è andato. Te lo ricordi, foggiano?

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Foggiano,

Te lo ricordi il suono di quel bastone lento che andava via per le strade di Foggia, e quell’uomo sottile come un fuscello ma forte come un tronco che vi si appoggiava?

Te la ricordi, la sua voce sempre chiara, che amava perdersi nei rivoli del tempo, tra opinioni, una canzone partigiana, qualche memoria sbiadita e l’ansia di un futuro da non lasciarsi rubare?

Te li ricordi quei comizi del primo maggio, le celebrazioni ufficiali del 25 aprile a piazza Italia, la lapide di Nicola Stame che lui ha voluto e che esorcizza l’influsso di quegli enormi fasci messi lì dal camerata Agostinacchio?

Te lo ricordi quel cappello che non toglieva via nemmeno nella canicola dell’estate foggiana, 40 gradi e lui sempre lì lo teneva, in testa, schiacciato e fiero come un pensiero? E i suoi occhiali da sole, te li ricordi? E ricordi la sua giacca che, a vederla, ricordava “il cappotto cammello” di De André?

Te lo ricordi quel fazzoletto tricolore che con gli anni andava sbiadendosi e che lui diceva essere sempre lo stesso, anno dopo anno, lustro dopo lustro, decennio dopo decennio?

Te li ricordi i suoi ricordi? La guerra in Africa, il Partito Comunista, le rivolte finite male, Bella Ciao cantata a mezza voce e con qualche refuso, come l’inno dei lavoratori.

Te la ricordi la sua dignità, e te lo ricordi l’ardore che ci metteva nella lunga strada per far intitolare a Nicola Stame il teatro del fuoco? E la sua ostinazione nel presentarsi fuori dal Palazzo della Provincia tutte le mattine, mattina su mattina, barcamenandosi silenzioso in un’anticamera tenace, te la ricordi?

Te li ricordi quei fogli che portava sempre con se e di cui non si stancava mai? Erano il capitolo finale della sua biografia non scritta, il riassunto della sua ultima battaglia, una voce lasciata sulla carta, per scuotere via dalla veste di Foggia quella patina storica di “città fascista” a cui lui, Mario, non si era mai arreso.

No,

forse non te lo ricordi, Mario Napolitano. Forse neppure sapevi esistesse. Eppure lui è sempre stato lì. Pronto ad invaderti le ore con il suo carico di convinzioni inscalfibili, vecchi racconti e sentimenti puri. E non voleva soltanto renderti parte del suo mondo. No, lui voleva proprio convincerti. Farti cambiare idea. E adesso, porca miseria, se n’è partito senza nemmeno avvertire, senza dare un cenno. In silenzio. Lui, per cui la riscossa era un modo di vivere e non l’occasione per trovare una morte da annali, se n’è andato nel momento più buio per la città, scossa tra bombe (non quelle che Mario ricordava con dolore, quelle degli americani), povertà, indifferenza, odio di parte e resa sociale.

E’ tutto così assurdamente triste, oltre ad essere un contrappasso immeritato per chi ha sempre avuto fiducia (a prescindere) nei suoi concittadini.

Per quel che vale, proviamo a ricordarlo adesso, come lui avrebbe voluto. Apriamo le porte al vento della dignità, facciamolo entrare nelle case e scorrere nelle strade, lasciamo scorrere la libertà e l’orgoglio, portiamo nelle scuole quegli esempi incontrovertibili di pulizia etica e storica: rispolveriamo e tiriamo fuori la storia di Nicola Stame, i massacri delle Fosse Ardeatine, le lotte antifasciste e quelle per il diritto al pane e al lavoro.

Facciamolo nel suo nome, ma per dare un senso alla cittadinanza di tutti noi. E sentiremo un bastone che batte. Come un applauso, come un tuono di felicità.

Tu

Caro compagno d’avanguardia, caro creativo e grafico, caro esponente della nuova generazione, caro eterno giovane, caro consultatore compulsivo di socialnetwork, caro frignone a ore, caro lamentone a cottimo,

tu, che trovi un po’ antichi e quasi ridicoli certi gesti di cuore, certe parole emozionali, che non hai una lira ma che tutto misuri sulla scorta dei soldi, che non hai bandiere soltanto perché, a seconda dei tempi e del quadrante da cui spirano i venti, sei pronto a sposarle tutte (e, se necessario, ad accoppiarti con tutte contemporanemente).

Tu, caro amico pseudo sfruttato, eternamente leso nella dignità personale e mai disposto a pensare un attimo di più sulla possibilità remota che possa esistere una dimensione collettiva della dignità stessa. Tu, eterno Bruto solo in quanto Cesare mancato. Tu, rivoluzionario 2.0, con più indirizzi mail di Steve Jobs (che ritieni un mito), talmente affannato a rimanere in contatto col mondo a punto tale da avere un profilo fb, una pagina fan su un argomento di cui non frega un cazzo a nessuno, profilo picasa-flikr-twitter-badoo-linkedin, shopperista compulsivo da ebay, acculturato made in Wikiquote, feticista da chat. Tu, variabile dipendente del tuo urticante fischietto di What’s App (o sarebbe meglio Va zapp?!?). Tu, mille foto con occhi rossi da sbronza presa male, ammucchiate di altri animali da circo equestre come te e nessun passato degno di meritare una menzione nel libro dell’umanità. Tu “che ne dite di un happy hour in centro?”, tu le tue mani a forma di bicchiere in plastica, amico di tutti e di nessuno. Tu che “Mah, vedi… credo che il Galaxy sia cento volte meglio dell’Ipad”.

Tu, pensiero critico assunto a Co.Co.Co dal tuo cervello a intermittenza, assertore del meno peggio finché tocca agli altri. Tu, che ritieni di essere unico perché nato nella seconda metà degli anni 80. Tu, modello di cartapesta, che sfili sul mondo con la stessa grazia di un ornitorinco in calore e la stessa utilità di un tasto inceppato. Tu, che non ammetti domande e risposte se non passano per una FAQ.

Tu, stella cadente, meteora buia, universo spento. Tu, manifesto di un futuro già scritto. Tu, il mondo in mano e nessuna possibilità di usarlo. Tu, sintesi di un fallimento, abiura delle speranze, depressione sociale, rivoluzione mancata. Tu, nessuno.

Published in: on 15 gennaio 2014 at 22.29  Lascia un commento  

Provate a spiegare ai vostri figli….

E quindi, di nuovo, come ogni tanto succede, cari adulti, la stampa stuzzica i palati urticati dell’opinione pubblica. Ci racconta di numeri che fanno male, specie dell’Italia bigotta del volemose tutti bbene. Dicono che oltre tre ragazzi su dieci non lavorano o, perlomeno, se lavorano non risultano da nessuna parte. Raccontano d’un’Italia sfilacciata, un Paese che non c’è più e che, in balia di tecnici e tecnicismi, ha visto mortificate le prerogative basilari dell’individuo. Già, perché nella nazione che osanna la vita con ugola cantante e che straparla della difesa e salvaguardia della vita ad ogni declinazione delle parole “aborto” e “contraccettivo”, evidentemente il lavoro è solo un hobby, un allegro passatempo, un riempitivo antistress.

E quindi, di nuovo, come ogni tanto succede, cari adulti, vi trovate a sbottare, a piagnucolare, ad accordare le vostre voci sulla tonalità del capriccio, dell’accusa, del lamento. Maledite Monti e la Fornero, accusate i sindacati e la politica, reclamate perché non esiste più il merito, che i sacrifici sono stati inutili.

Eppure….

Eppure provate a spiegare ai vostri figli perché avete taciuto per decenni. Provate a spiegare ai vostri figli e ai vostri nipoti perché vi siete rincitrulluliti appresso alla televisione. Provate a spiegare perché siete voi quelli indebitati per colpa delle lotterie istantanee. Provate a raccontare di com’era l’Italia prima che vi riempissero il cervello delle menate liberiste e di come l’avete vista crepare senza far niente. Provate a spiegare loro che vi siete prostrati ai piedi di vecchi politici bavosi, vermi di potere, lombrichi illusionisti, pusher di benessere per riempire le seggiole delle amministrazioni pubbliche non pensando che, venti, venticinque anni dopo tutte le sedie da voi riempite sarebbero state le cause della disoccupazione e i pretesti dei tecnici. Provate a dirgli che, invece di alzare la voce, avete fatto la fila dietro la porta di notabili di città e di paese.

Provate a spiegargli perché non potete fare a meno della macchina e di gettare spazzatura più volte al giorno, distruggendogli l’ambiente da sotto il naso. Provate a spiegare la vostra passione sfrenata per tutto quello che luccica. Provate a dirlo. A dirvelo e a dircelo: che siete delle gazze ladre rincoglionite da Drive In. Che siete cresciuti illudendovi di poter diventare come Fonzie. Che avete emulato parrucconi cotonati, bevuto troppa Coca Cola, accettao le verità rivelate e abiurato il diritto ad avere ragione. E torto. Provate a spiegargli che non siete altro che mercenari d’una milizia paramilitare che vede schierate contro masse di poveri. Provate a spiegargli che, mentre li obbligate a studiare, voi non leggete un libro da anni.

Provate a spiegargli che se loro saranno senza lavoro è perché siete stati voi la causa del loro male. Almeno tacete. E, se mai provaste a parlare, buttatevi ai loro piedi e chiedetegli scusa.

Published in: on 8 gennaio 2013 at 22.29  Lascia un commento  
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Lettera di un credente a (don) Pierino, Giuseppino primo di Svevia e affini

Caro don Piero, caro Papa Giuseppino di Svevia, cari preti, 

chi vi scrive (sapendo di non essere letto da tutti, ci mancherebbe) è un credente. Il mio nome non importa. Non importa da dove scrivo. Non importa cosa mangio, se voti e che simbolo voti, quali feste rispetto, di che colore è la mia pelle. Sappiate che, alle vostre orecchie, non sono importante. Non esco in televisione come la Littizzetto né in radio come Fiorello. Non vado sui giornali come Saviano e non ho neppure un profilo twitter come te, Giuseppino. Sono un esemplare strano di Cristiano. Non mi vergogno della mia fede, ma non la sbandiero. Odio l’iconoclastia. Sono ondivago, uno di quelli che un po’ si rompe le palle di venire a Messa la domenica per ascoltarsi additare d’ogni malefatta dell’umanità. Ho una visione evanescente del potere (specie di quello religioso), sono facile all’indisciplina e, pur non perseguendo il peccato ad ogni costo, non mi lascio condizionare dalle giaculatorie colpevoli che inoculate tra gli accoliti, servendovi dell’autorità morale (?) conferitavi dalla vostra gonnella e diffusa Urbi et Orbi a mezzo VVVN (vecchie vedove vestite di nero), BSA (boy scout army) e CPB (chierichetti preadolescenti brufolosi).

Insomma, compagni (non vi infastidisce se vi chiamo così, vero? la conoscete quelle tiritera del cum panis, no? ps. ho detto panis, non penis… dunque non credete di fare del bene inculando tredicenni CPB), avete capito il modello antropologico. Sono uno di quelli che bollate “Cristiano di comodo”. Un Costantino dei giorni nostri, va. Uno che vive la sua vita nel nome dell’impegno quotidiano, credendo in Dio (chiunque Egli o Ella sia) e affascinato dal potere dirompente della parola di Gesù, ma consapevole che, questo credere, non basta a salvare non il mondo, bensì nemmeno il proprio appartamento. 

Devo, per onor del vero, ammettere che non vi seguo molto. Mi annoiano le omelie, mi annoiano le pippe paternaliste, mi annoiano le benedizioni comunitarie, mi annoiano gli Angelus di San Pietro e quelli di Castel Gandolfo (per non parlare di Rosari, Adorazioni e via dicendo). Non leggo i vostri giornali e non seguo i vostri siti web.

Epperò, anche per uno svogliato volontario come me, in questi giorni di Natale ne avete sparate belle grosse. Prima la storia che i gay minano la stabilità delle famiglie; poi quella, simile, che sono un pericolo per la pace nel mondo; infine, don Pierino che se la piglia con le donne picchiate e uccise, accusate amenamente di essere tutte delle mignottone di facili costumi e, a stretto giro, chiama ‘frocio’ un giornalista che gli poneva qualche domandina (se la sarà sentita salire su per la gonnella?). 

Pur nel tentativo di rimozione dei filtri pregiudiziali nei vostri confronti, ho sinceramente fatto fatica a schiarirmi le idee. Colpa forse dei banchettoni festivi, obnubilato sinapticamente dalle Peroni ghiacciate e dei limoncelli, dalla verdura della Vigilia, dai cannelloni del Venticinque e dai torcinelli di Santo Stefano. No, perché sarebbe simpatico poter sapere quale min(chi)a sia deflagrata nelle vostre tempie per portarvi, nel periodo in cui anche Satana in persona prova un briciolo di simpatia per il genere umano, a far sfoggio manifesto di tanto e tanto mirato mirato odio verso una, due categorie di persone. Tra don Corsi e Giuseppino primo, lasciate che ve lo dica, la unam, sanctam, catholica et apostholicam Ecclesiae ha palesato più odio di quanto se ne sia mai visto ad un concerto dei Black Sabbath. 

Tanto che, ad un certo punto, mi era balenata l’idea, subito repressa per assenza di liquidi (a proposito: potete mica lanciare una qualche maledizione contro i padroni, i capitalisti, i politici del precariato del mondo del lavoro se ve ne avanza qualcuna di scorta?) di inviarvi un pipistrello a testa da decapitare, pubblicamente e a scelta, in occasione del Capodanno o dell’Epifania (in tal caso avevo già uno slogan ed un cartello da appendere in sostituzione a quella minchiata di Pierino: l’Epifania che tutte le Teste si porta via…). Così, tanto per mantenersi in allenamento. 

Ora, arrivando al punto, io non sono un teologo come voi, con tutta evidenza, non siete delle volpi. Certo, arrabbato biascicante qualche concetto biblico frutto di riminescenze catechistiche e contaminazioni parentali. Oltre non mi spingo. Può darsi che nelle lacune di diritto canonico risieda la chiave di volta della mia domanda indiretta e la giustificazione dei vostri deliri dicembrini. O, più probabilmente, la conferma del mio (oltremodo, a questo punto) sacrosanto ripudio delle gerarchie ecclesiastiche. Allora, mi pongo terra-terra nel campo dell’opportunità mediatica. A che cosa è servito esternare questa vostra posizione? Dove sareste voluti arrivare? Cosa cercate di condizionare? Sapete benissimo che il pressing sulla politica di questo logoro e stracciato Paese è fatica sprecata. Sono già tutti con voi. Vi venerano come voi venerate l’inquilino del piano di sopra. E se ora, in questo preciso momento, non sono lì, chini, sotto le vostre scrivanie a succhiarvi il calice, è soltanto perché don Pierino se ne avrebbe a male.

Caro Pierino, caro Giuseppino, cari pretuncoli,

c’è un’immagine, in questi giorni di Natale, che a me, invece, è ballata in testa come una danzatrice suadente e insieme tarantolata. Un’immagine antica, piena di odori, di sapori, di storie. Un’immagine che le vostre stronzate non hanno oscurato. Un’immagine che voi non conoscete e che, pure, potrebbe farvi bene conoscere.  

L’istantanea ritrae la parete di una dimora contadina. Una di quelle primo novecentesche, misera rispetto alle vostre, una di quelle costruite mattone su mattone, mattone accanto a mattone, dal progredire delle generazioni, una di quelle con i soffitti altissimi che parevano arrivare fino al cielo, insomma, avete capito, una casetta meridionale. Su questa parete di questa casetta di una cittadina di nome Cerignola, qualche mano – chissà quale, mi chiederete? La risposta è un umile: non so – aveva inchiodato due immagini. L’una accanto all’altra due foto in due cornici. Nelle due foto c’erano Gesù Cristo e Peppino Di Vittorio. Uomini e simboli. Esempi. Nei loro occhi, quelli dei ritratti, si legge la stessa limpida dignità che balenava in quelli di chi quelle immagini ce le ha appese. Occhi che hanno visto nascere e morire bambini nelle camere di lavoro. Occhi che hanno visto processioni di contadini e di operai. Occhi che hanno percorso i deserti di Samaria e di Giudea come le campagne del Tavoliere delle Puglie. Occhi che hanno visto da vicino gli storpi e li hanno curati. Occhi che hanno visto da vicino gli sfruttati, gli ultimi, i reietti, i poveri, e li hanno guidati. Occhi che hanno visto presepi sangue e di dolore e altri di riscatto e fratellanza.

Questo è il presepe, insieme laico e religioso, che mi piace. Da quei presepi, voi, siete distanti anni luce.  

 

Scappiamo tutti da Foggia, lasciamoli soli

Sarebbe tutto estremamente più semplice se la politica fosse come la tastiera di un computer. CTRL+ALT+DEL e passa la paura. Una digitazione contemporanea di tasti e puff! fuori dalle pal… dalle stanze i caporali della malapolitica, i mammasantissima dell’affare, gli schiavetti zelanti dell’Occidente, i donabbondio del liberismo internazionale, gli esecutori della volontà delle banche.

Sarebbe tutto più semplice tanto più leggero è il programma da chiudere, senza possibilità di salvataggio dello status. Un secondo e via, nel cestino, in fretta a svuotare anche quello e ricordi di sciagurate esperienze che si perdono tra immagini digitali, icone dei solitari e quelli dei documenti word.

Sarebbe tutto più semplice, ma non è così. E allora serve elaborare nuove strategie, nuove forme di comunicazione, nuovi ingressi per dire sempre e comunque la stessa cosa: che non è la politica ad essere marcia. Ma che lo sono (quest)i politici. Che non è il sistema dei partiti ad essere corrotto e infradiciato di melma, ma lo sono (quest)i specifici partiti (tristi eredi di quelli peggiori della prima Repubblica che hanno, a loro volta, nomi e cognomi: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Movimento Sociale sopra tutti).

Dopo tanto tempo, gli argomenti si sono commutati in tiritere. In fondo, anche il più grande dei cantautori, alla lunga, finisce le idee. Identicamente, le corde delle opposizioni rischiano di suonare sempre la stessa nota. Intonata, bella, sognante, ma cacofonica, evidentemente, per un mondo che è stanco di sentirla. O, forse, troppo perso dietro pornografie quotidiane a base di fast food e tecnologia, di tacchi a spillo e shorts, di Pulcinipio e di Padripio.

A Foggia, la pornografia del potere si chiama cemento. E in realtà propone film tromberecci a base di accoppiamenti tra imprenditoria e tecnostrutture, politica e denaro, mafia e denaro, imprenditoria e politica, malaffare e mafia. Un’orgiona collettiva e godereccia che sfonda sempre lo stesso pertugio: quello di una città di anno in anno palesemente rinsecchita e sformata, non più attraente, e che alle curve della popolarità agricola ha sostituito la spigolosità diffidente e grigia dei palazzi.

Foggia. Abbiamo provato a difenderla. Generazione dopo generazione. Abbiamo provato ad andarle vicino al viso e a sollevarglielo mettendole dolcemente due dita sotto il mento. Sussurrandole che sì, volendo poteva farcela a scrollarsi di dosso la polvere e anche la sporcizia. Che non era polvere ma amianto e che la stava e la sta uccidendo di una malattia lunga e dolorosa. Foggia. Abbiamo provato a sferzarla. Chissà, forse qualcuno avrebbe ascoltato le preghiere laiche dei giovani e dei meno giovani che, un filo d’amore, forse ancora ce l’hanno. Ma le orecchie di chi avrebbe dovuto ascoltare sono rimaste sorde. Sorde alle critiche, sorde alle richieste d’aiuto. Sorde ai rumori delle manette che si chiudevano sempre attorno agli stessi polsi. Sorde ai rumori delle pistole che sparano in mezzo alla gente. Sorde alle domande inevase.

Sorde, ora abbiamo capito, tutti, perché. Perchè al banchetto orgiastico, quello in cui ci si spartiva gli interessi, c’erano anche loro. I “potenti”. Che potenti, a ben vedere, proprio non lo sono. Facevano affari con quelli che sono sempre stati loro amici e che lo sono rimasti anche una volta svestiti i panni di privato e indossata la fascia tricolore. Hanno creduto che di fronte alle rivendicazioni della parte pulita di Foggia bastasse difendersi, addirittura minacciare. Ma, solitamente, funziona che chi si difende dal bene è perché in testa ha il male.

E allora la soluzione è una. Ed è un appello a tutti. Non solo ai ragazzi. A “quelli che hanno studiato e che sono sprecati”. No. Ma anche alle donne, ai bambini, ai vecchi e ai vecchissimi. A tutta la gente pulita. Agli onesti. A chi crede nell’amore sapendo che, a volte, il bene dell’amore è doversene staccare. Andiamocene. Scappiamo. Compiamo una fuga d’amore. E’ la nostra sola arma politica, piena di coraggio. Non abbiamo altre armi che quelle della solitudine. Lasciamoli soli. Soli di non fare affari sulla pelle di nessuno. Soli a marcire sotto le tonnellate di monnezza che hanno creato. Lasciamoli soli con i loro palazzi vuoti, con i cassonetti bruciati, con le discariche che hanno contrattato. Lasciamoli soli di bearsi del nulla. Sparpagliamoci per il mondo, vicino o lontano, non importa. Cresciamoci. Diamoci nuove possibilità di conoscere. E lasciamo i soliti fare affari con i soliti, quando non servirà più a nulla. Creino pure altre Foggia. Foggia due, tre, quattro. Le facciano come sanno. E le lascino vuote.

Lasciamo i governanti senza un popolo. Lasciamo gli amministratori senza amministrati. Decidano sulle loro teste e – se resteranno – su quelle dei loro familiari e dei loro accoliti.

Sarai Franco, ma quell’abbraccio….

antiracketfoggia-7-300x158Per contare, si parte sempre da uno. Per parlare, si parte sempre dalla notizia. Che, in breve, è questa: Foggia, 5 dicembre 2012. Tano Grasso fa una capatina a Foggia, visita alcuni esercizi commerciali, passeggia con le istituzioni e con alcuni cittadini. Tra loro, Lino Panunzio, figlio di Giovanni, imprenditore edile assassinato dalla mala foggiana il 6 novembre del 1992, vicino a Libera. Vent’anni fa. Esatti. Nello stesso anno di Giovanni Falcone. Nello stesso anno di Paolo Borsellino. La “passeggiata antiracket” – grossomodo è questo il nome dell’iniziativa sulla cui opportunità e sulle cui modalità non è il caso di discutere – si snoda per le via del centro. Con Grasso, c’è anche il prefetto Maria Latella. D’un tratto (e qui la notizia si fa gustosa) s’avvicina Franco Landella (strano gioco di parole, Latella vs Landella), segretario provinciale del Popolo delle Libertà, Mister preferenza del centrodestra a Palazzo di Città, noto per gli spot elettorali in cui fa sfoggio di cravatte di dubbio gusto. Cosa voglia, Francuccio, non lo si capisce. Il dato, dunque, è che s’avvicina al corteo. La Latella lo affronta e lo allontana. Landella se la prende, s’impunta, si arrabbia, sciorina il suo falsetto, poi decide che non è il caso e torna, mesto, da dove era venuto.

Passa un giorno e la posizione di Landella si fa pubblica. Come le bollicine sullo spumante, che frizzano fino a salire nel naso, il verbo di Franco emerge su tutti i giornali. S’incazza, Landella. E spiega: “Mi sono avvicinato al corteo non per sbandierare vessilli politici ma per salutare il mio amico d’infanzia Lino Panunzio, con cui ho pianto sulla bara del padre Giovanni, costruttore, barbaramente ucciso. Mi sono avvicinato come semplice cittadino che, nella propria città, credo abbia maggior diritto di Tano Grasso di essere vicino alla propria gente. Ne ho diritto perché, a differenza di Tano Grasso che ieri è ripartito per la sua Sicilia, testimonio da anni, anche professionalmente, tutti i giorni il mio impegno per i commercianti di Foggia. Ne ho diritto perché 1.800 cittadini foggiani, il tributo più alto avuto da un candidato, mi hanno eletto a rappresentarli in Consiglio Comunale, e altri 5.600 cittadini di Foggia hanno creduto in me nel votarmi alle scorse elezioni regionali. Ne ho diritto perché io sono tra coloro che la malavita ha preso di mira, facendomi esplodere una bomba carta sull’uscio di casa in una notte di luglio del 2009”. Detto questo, non spirò, ma si autosospese dal consiglio comunale.

Dalla posizione di Landella, spietatamente, si deduce che il suo gesto – quello dell’avvicinarsi alla Carovana – non era da interpretarsi come un sostegno morale ed ideale a ciò che il drappello rappresentasse. Piuttosto, Landella, andando a zonzo distrattamente per la città si era imbattuto in un amico d’infanzia e, tutto, insieme, era montata la voglia tenera di abbracciarlo, per trasmettere, nel calore del contatto, la sua vicinanza all’uomo Panunzio.

La domanda sorge spontanea. E, anche questa, parte da relativamente lontano, dal 6 novembre. Quel giorno (un mese fa), Libera, l’Università, Rete della Conoscena, la Federazione Italiana Antiracket si riunirono a Foggia – in centro, e poi, a pomeriggio, anche a Lucera, 18 chilometri dal capoluogo, mica diecimila – per commemorare la figura di Giovanni Panunzio a vent’anni dalla sua uccisione. Di Landella, nessuna traccia. Quel 6 novembre, di abbracciare Lino e Giovanna (sua moglie), a Landella proprio è sfuggito di mente? Eppure, in città, su facebook, sui giornali, la voce era circolata. Eccome se era circolata.

Forse che Landella sia stato inibito dalla presenza delle scuole (decisamente troppe?), per un’età media che rimaneva abbondantemente al di sotto la soglia del voto (non rientravano tra i 1800 cittadini foggiani delle comunali e i 5600 delle Regionali)? Forse non ha trovato parcheggio, il buon Landella, per colpa delle strisce blu fatte mettere dall’amministrazione (però ci stava bene una nota stampa con queste parole: “Stavo arrivando in Università quando un crudele parcheggiatore mi ha affrontato con fiero cipiglio per esigere il pagamento dell’ora di sosta, al che ne è scaturita una discussione che s’è arenata in quisquilie e lungaggini tanto da impedirmi la partecipazione”)?

Spieghi, il buon Landella, piuttosto, come mai non ha mai partecipato alle iniziative in ricordo di Francesco Marcone o di Giovanni Panunzio. Sappia, il buon Landella, che la politica esige luoghi e tempi giusti e ogni ‘politico’ incapace di starci dentro non è degno di questo epiteto. Non serve un consulente pubblicitario ben remunerato se, alla base, si manca di prassi e di teoria. E se proprio vuole stringersi attorno al dolore di una famiglia sappia che di occasioni ce ne saranno a fiotti. Ma lo faccia in silenzio e con discrezione, senza clamore e senza tirare in ballo i giornali. Perché il rispetto è cosa sacra e, anche in questa Italietta infima e abituata ai suoi mostri, lustrarsi l’immagine in vista delle prossime elezioni servendosi dei familiari delle vittime di mafia è cosa pietosa.

(l’immagine è tratta dal sito http://www.statoquotidiano.it)

Published in: on 6 dicembre 2012 at 22.29  Lascia un commento  

Gaza, chiamatela colonna di nuvole, ma la realtà è sempre una fusione di piombo

comunicato stampa Arci Puglia sull’inizio dell’Opreazione Pillar of cloud

In questi minuti riceviamo la notizia dei bombardamenti dell’aviazione israeliana su Jabaliya, dove ha sede il nostro partner di Cooperazione Internazionale, il Remedial Education Center.

Da domenica scorsa la Striscia di Gaza è sotto attacco con un’intensificazione dei bombardamenti nelle ultime ore, in quella che quest’oggi il Primo Ministro israeliano Nethanyahu ha annunciato come l’Operazione militare «Colonna di nuvola» (Cloud Pillar). In palese violazione del Diritto Internazionale, nel sistematico tentativo di considerare la Striscia di Gaza come qualcosa a sé stante dalla Palestina, ancora una volta – nel totale disprezzo della dignità umana – i vertici israeliani stanno colpendo la popolazione civile, già stremata dal lungo assedio.
Le ostilità erano iniziate la scorsa settimana, a seguito del lancio di razzi verso il sud di Israele da parte di Hamas, quale gesto di rivendicazione per l’uccisione di Ahmed Younis Khader Abu Daqqa, il ragazzo di 13 anni freddato da un proiettile israeliano mentre giocava a calcio nei pressi della sua abitazione. È da allora che si susseguono bombardamenti, uccisioni e un raggelante silenzio stampa.

L’Arci Puglia, condannando l’uso della violenza da qualsiasi parte in conflitto essa provenga, esprime la propria vicinanza alla popolazione gazawi auspicando il cessate il fuoco.

Come già per la Siria, anche la strage in corso nella Striscia di Gaza rischia di passare sotto silenzio. I principali media stanno ignorando le notizie da giorni, e laddove riceviamo Informazione, spesso questa è distorta. Per gli aggiornamenti, sul web Michele Giorgio (inviato de Il Manifesto dal Medio Oriente) e Rosa Schiano (attivista dell’International Solidarity Movement) stanno costantemente aggiornando i propri profili Facebook. Così come stiamo rilanciando le notizie sulla pagine dell’Arci Puglia. Anche sul sito http://nena-news.globalist.it/Detail_News_TopStories?news=0&CategoryID=292&Loid=200 della NEAR EAST NEWS AGENCY si trovano aggiornamenti costanti.

Vi chiediamo di far circolare con la massima urgenza le informazioni sull’attacco nella Striscia di Gaza, via mail, sui social network, ma soprattutto raccontandola.

General strike, credevamo di aver toccato il fondo. E invece…

Diciamocelo: mediaticamente Genova ci ha abituati alla crudeltà della figurazione. Il pulp della manifestazione che sfocia in mazzate, il ‘tarantinismo’ delle botte con annessi termosifoni sudici di sangue e dreadlock macchiati di rosso, il percussionismo dei manganelli che bacchettano sugli scudi.
Diciamocelo: credevamo di avere il pelo sullo stomaco, di esserci trasformati nella generazione dell’immunità al dolore. Una sorta di medici della rianimazione: freddi, crudi, impassibili. Credevamo che i tonfa non avessero più il potere di scandalizzarci. Come indiani al fronte, certi che i proiettili sbattessero contro la corazza eretta attorno a noi da un Manitù comunista.
Diciamocelo: tutto il rancore accumulato non ci ha precluso la possibilità di aprire una linea di credito ad alcuni settori delle forze dell’ordine. Ci sono volute immagini come quelle di oggi, le manganellate in faccia ai ragazzini, i calci e i pugni rifilati agli studenti, l’odiosa boria dei giornali di regime che continuano a farci credere che i buoni garanti della democrazia statale sono quelli che hanno avuto la peggio.
Diciamocelo: se l’immagine del ‘general strike’, lo sciopero generale europeo, diventa questa, il volto di un bambino di 10 anni rigato di sangue, allora possiamo realmente dire che è tramontata l’era dello stato di diritto. Possiamo dire che i corpi scelti per sedare gli spiriti dei cittadini in lotta, sono gli stessi di sessant’anni fa, rimasugli raccolti sul fondo delle pattumiere fasciste, spazzatura da anni sessanta e settanta, figliacci brutti non della fame, ma della sete di onnipotenza.
Diciamocelo, perché se no ce lo diciamo rischiamo di raccontarci soltanto delle belle fiabe: le Costituzioni, le Carte, gli Accordi, le Dichiarazioni sono soltanto carta straccia. In Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Italia siamo nelle mani di strutture di potere che detengono il controllo dei governi servendosi della forza e della violenza. Nel nome della necessità, del senso del dovere, nel nome dell’economia di mercato, stanno gettando al macero decenni di conquiste civili e democratiche. Dunque, tramutando i nostri sistemi in marciume incivile ed antidemocratico.
Diciamocelo: chi dice l’opposto o è in malafede o è un banchiere. O, al massimo, gode a veder picchiare i bambini.

Primarie si, primarie no, primarie via mail, primarie c’hanno rotto i…

Primarie. Dieci mail al giorno di altrettante difformi personcine che ci tengono, con cura e dovizia, informati sulla campagna elettorale di Nichi Vendola, sulle interviste televisive (es. “Questa sera Nichi Vendola a La7!Seguilo anche tu”. Oppure: “sintonizzati su Rai Due! C’è Nichi!”) e sugli articoletti di giornale.

A loro, per dovere di educazione dobbiamo qualche risposta:
A. Non abbiamo la televisione e non ci interessa averla. Risparmiamo sul canone Rai e sulla corrente e leggiamo tanti libri in più
B. Anche se avessimo la televisione, piuttosto che toccarci estasiati e orgasmici sulle fisime di Nikita, Pierlu e Renzino Renzi, ci caveremmo gli occhi
C. Tranne in casi eccezionali, non compriamo i giornali. In particolare, non compriamo i giornali filo-governativi, filo-israeliani, anti-cubani, filo-filati e stracazzi di tal risma. Usiamo internet e, per giunta, interessandoci di notizie politicamente serie e di cultura. Tutto il resto, per quel che ci riguarda, è fuffa buona per essere incenerita negli impianti che Nikita ha regalato alla Marcegaglia
D. Non voteremo alle primarie perché ci fa schifo il processo della democrazia/cabina telefonica (metti il gettone e voti). E perché, noi, con due euro, compriamo 20 chili di legna per quest’inverno

Dunque, ricontattateci quando vorrete lottare con noi. Fino ad allora: esimetevi

In nome della legge ti nomino fratellino d’Italia (ovvero: Poropo poropo poropopopopo)

208 si, 14 no, 2 astenuti. Mentre la Grecia brucia e il Portogallo geme, il Parlamento Italiano, corre l’anno del Signore 2012, vota, praticamente unanime, un ddl che prevede – udite udite – l’insegnamento dell’inno di Mameli nelle scuole. A parte i soliti pagliacci dal naso verde, i leghisti più CeSti (panieri buoni a raccattar €uritalici) che CeLti, ma dioliscampi che possano esser COlti e men che meno CAUti, insomma, tutti d’accordo. Montiani e pidiellini, ex comunisti e populisti, dipietrini scontenti e quelli contenti, la donzelletta che vien dalla campagna, il passero solitario (ovvero: no Viagra? Ahiahiahiahiahai!!!!) e quella che è arrivata al Palazzo Madama pur essendo molto poco Madama e molto più velina.

E allora sgrani gli occhi, poi li stropicci e li risgrani. Inizi a chiederti se la Repubblica (quella istituzionale, non l’organo di stampa di Confindustria), quella che dovresti star vivendo dal 1946, sia davvero tale o solo un’invenzione dei maledetti libri di storia bolscevichi. Oppure se sei tu che hai guardato male il calendario e, nell’anno 1946, ci sei ancora e la Costituente sta discutendo di una cosa che, già allora, sarebbe così futile.

Ti affidi alla rete come un appiglio. Diamine, allora se c’è internet, devi scartare l’ipotesi XX secolo. Dev’essere un’indigestione. Poi ricordi che la precarietà del mercato del lavoro, quella voluta dallo Stato Italiano e dal suo apparato, ti ha regalato il privilegio di essere sempre magro, perché mangi una volta al giorno (la sera) e per giunta di corsa per non far troppo tardi al lavoro la mattina dopo. Quindi concerti con te stesso che dev’essere un abbaglio, una svista. Una roba tipo pubblicità. Com’è quella frase che segue quel jingle? “Tutto il giorno fuori, sempre di corsa, e ora… non ci vedo più dalla fame”. Acchiappi un cioccolatino, rimasuglio di un vecchio dono di un amico gentile e provi a rileggere.

Ripeti: “Siamo nell’anno 2012, novembre, quasi 2013. Sono 20 anni che ci dicono di aprire le frontiere e di donarci alla globalizzazione dei mercati e all’Europa e al mondo. Hanno voluto essere così credibili nella storia dell’allargamento delle frontiere che hanno provato a tirare dentro – nell’Europa, ripetitelo – anche Israele, uno stato che con l’Europa c’entrerebbe come una coniglietta di play boy alla festa di comunione del figlio del campanaro di Toritto”. D’un fiato, con la convinzione che ti dà le certezze che non avevi, gasato dall’appartenenza spinelliana e con l’inno alla gioia che ti rimbomba in cuore apri tutti i siti certo che la realtà italiana non può essere vera, leggi Repubblica. Azzo, conferma. Leggi il Corriere: A ricazzo, come sopra. Leggi Pubblico: e ancora un altro yes, man, is as you read…

L’inno di Mameli? Nelle scuole? Nel 2012? Ti gratti in testa e pensi ai bambini, nelle classi grigie e polverose, senza insegnanti di sostegno perché non ci sono soldi, con il maestro unico perché non ci sono soldi, senza termosifoni perché le Province, per ripicca ai tagli, hanno deciso di non dare più soldi, che mandano giù storie di balilla e di elmi di scipio (che tu non hai mai voluto sapere chi fosse sto cazzo di scipio e godi a scriverlo in piccolo, con la minuscola). Appaiono scene che non vorresti. Quello che canta, tronfio, a sei anni, grembiulino blu e capello riga di lato. Quell’altro che l’accompagna con la gracchiante diamonica. Il più creativo che prova a piazzare un ‘dlin!’ di triangolo un po’ dove minchia gli pare, in preda all’erotomania Patria, nipotino delle romane gesta e degli eroi d’aria e di terra.

Immagini – e non riesci a contenere un risolino a trombetta – che, per l’occasione, il Miur darà il via ad un nuovo concorso per cattedra: Storia patria. Ovvero, come ti faccio sentire Italiano anche se l’Italia è davvero una gran fregatura. Requisiti: essere un uomo del Sud, leggermente invasato, amante delle partite della Nazionale, propenso alla mano sul cuore, preferibilmente con simpatie destrorse. Favorite le categorie protette: soggetti con braccio destro più lungo del sinistro.

“Ma sì certo!”, e sbatti alla fine una mano sulla fronte. Sono 10 anni che, ad ogni mondiale di calcio, l’inno di Mameli finisce in coda alla play list dei conterranei, senza un posto sugli I-pod. Ripercorri la storia dal 2006: prima furono i Pooh, poi Checco Zalone, addirittura i White Stripes… Il “Po-popopopopo” del gruppo rock che prese il posto dell’unica parte d’inno che tutti conoscono, da Napolitano a Camoranesi: “Poropo-poropo-poropopopopo”, quella senza parole. Eccolo l’obiettivo: formare classi di calciatori e di tifosi che sappiano cosa cantare ogni quattro anni!

Evviva Monti, l’amico degli ultimi. Adesso si che andare a scuola avrà un senso!

Published in: on 8 novembre 2012 at 22.29  Lascia un commento  
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