Donne e ‘scritte’, tutti i misteri dell’inchiesta Marcone

da Stato Quotidiano

Il manifesto. In alto a sinistra, in rosso, la scritta (St)

Foggia – ALLE VOLTE basta un segnale per poter mutare il corso degli eventi. Chissà se si tornerà a metter mano a un romanzo che le cronache giudiziarie non hanno scritto ancora del tutto.

Francesco Marcone, per la città di cui è figlio semplicemente Franco, morto ammazzato nel portone della propria abitazione di Via Figliolia a Foggia nel marzo del 1995, la parola fine non la conosce ancora. E’ una vittima. Anzi, stanti i riconoscimenti, è la vittima delle vittime del capoluogo dauno. Medaglia d’oro al valor civile, per il Direttore dell’Ufficio Registro. Caduto sul lavoro, matrire. Semplicemente, come lo perpetua sua figlia Daniela, un “testimone”, staffetta di onore, figura di riferimento, cardine assoluto, baluardo morale.

I MISTERI – La storia processuale di Marcone è uno zero angosciato ed angoscioso. Quasi dieci anni d’inchiesta e mai nessun colpevole. Tutti partecipi, tutti coinvolti, tutti immischiati, ma nessun mandante, nessun esecutore. Soltanto l’armatore. Raffaele Rinaldi, ex impiegato dell’Ufficio del Registro. Per i giudici, verosimilmente dalle sue mani è partita la pistola che ha ammazzato Marcone. E che nel 1993, misteriosamente, ha sparato contro la porta di uno dei suoi superiori, Stefano Caruso, ombrosa figura, sfumata apparizione della vicenda. Ma Rinaldi muore in un mai chiarito incidente stradale, sbalzato dalla sua moto mentre, ai domiciliari, scorrazzava libero per il Gargano.

La chiusura dell’inchiesta è giunta per stanchezza. Troppe secche, troppo fango, difficile avanzare oltre. Il Giudice per le Indagini Preliminari, Lucia Navazio, dovette arrendersi al decesso di Rinaldi, ultima ruota del carro di coda, colui che, su di sé, fu designato per attirare l’attenzione della magistratura. Ma l’archiviazione disse molto di più. Anzi, le motivazioni auspicarono una veloce riapertura del caso, alla ricerca della verità.

IL MANIFESTO FUNEBRE – E che il caso Marcone non sia solo uno scarabocchio nella storia recente di Foggia, lo dimostra la scritta, misteriosa, apparsa su un manifesto funebre negli ultimi giorni di agosto di quest’anno. Un manifesto con stampato nome e cognome di una donna ucraina, mai apparsa, neppure di riflesso, all’interno del caso. In rosso, marcato con un pennarello, quasi come un fuoco: “per l’omicidio di Marcone Francesco”. Uno scherzo di cattivo gusto? Un macabro gioco? Una combinazione di fatti? Resta un mistero. Quel che, al contrario, non è nascondibile è il luogo in cui ciò è accaduto. Ovvero, ad uno degli ingressi del palazzo degli Uffici Statali del capoluogo. Una costruzione risalente al periodo fascista, ubicata in pieno centro cittadino, da un lato affacciata sulla villa Comunale, dall’altro su Piazza Umberto Giordano e con i fianchi appoggiani l’uno su Via Lanza, l’altro, su Via La Rocca. Nel 1995, qui aveva sede l’Ufficio del Registro, oggi spostato in periferia, con ingresso dalla strada che di Marcone porta il nome. Qui, dunque, ci lavorava Franco. E qui, dunque, l’averne richiamato la memoria potrebbe anche non essere un caso.

Chi ha scritto sul manifesto, non ha badato alla discrezione. Tutt’altro, la sensazione porta alla conlusione inversa. La frase è infatti apparsa sul lato più esposto, quello che dà su Piazza Giordano. Nulla, al contrario, è stato ritrovato dall’ingresso opposto. Nel giro di poche ore, il manifesto è stato coperto. A quanto pare, a chiedere l’occultamento è stata la famiglia della donna, sposata con un foggiano dal cognome campano e mamma di due figli, un maschio e una femmina. A sorprendere, invece, è il fatto che non ci sia stato alcun rilevamento sullo stesso, come si trattasse di una qualsiasi incisione da stadio.

A questo punto, dunque, riannodare la matassa pare impossibile. Il corpo della donna, morta in ospedale, tra l’altro, è stato tumulato in un cimitero del suo paese d’origine. Restano solo le domande. Perché è stato scelto il manifesto della donna? E come mai una frase così secca, che non lascia adito a dubbi? Poi, chi si è preso la briga, probabilmente nottetempo, o comunque al riparo da occhi indicreti, di vergare una frase così diretta non non poter avere dupolici o tiple interpretazioni? Chi era questa donna? Lavorava presso l’Ufficio del Registro ai tempi di Franco Marcone? Oppure è sposata con qualche foggiano che potrebbe essere in possesso di informazioni?

Francesco Marcone (fonte image:ilsottosopra)

LE DONNE STRANIERE – In attesa di risposte convincenti, non resta che andare indietro nel tempo e constatare che non è la prima volta che, nella lunga vicenda inerente l’omicidio di Franco Marcone, sbuchino delle donne. E delle scritte. Addirittura, venne ipotizzata, agli albori e con discreto impiego di tempo e fatiche, una possibile pista passionale. Miseramente crollata sotto i colpi della limpidezza della vita terrena del Direttore del Registro, uomo riconosciuto da tutti come onesto e rigoroso. Ma donne, e misteriose, sono anche “la collezionista” cui si fa allusione in una strana lettera anonima recapitata a casa della famiglia nel 1998 e, soprattutto Viviana Llaci, cittadina albanese, domestica della famiglia Caruso, ferita di striscio nell’attentato denunciato dal suepriore di Marcone (era il 23 dicembre 1993, un anno e tre mesi prima che marcone fosse eliminato) e clamorosamente mai sentita dagli inquirenti, ritornata in Albania in piena ricostruzione post guerra civile e interrogata soltanto a distanza di tempo dall’interpol. Un interrogatorio molto approssimativo, basato su domande evasive e poca contezza dei fatti.

IL REBUS – 29 novembre 1998. Sono passati tre anni e otto mesi dall’omicidio di Marcone. L’inchiesta latita. E’ già stata chiusa la prima volta, archiviata. Colpa di una Procura della Repubblica ballerina, di pm giovani e di qualche episodio che era e rimane poco chiaro. Nella cassetta della posta di casa Marcone, arriva una busta, spedita da ‘Foggia Ferrovia’. Giunge in Via Figliolia a mezzo posta ordinaria. Come una cartolina. Sul fronte, la grafia insicura di un mittente sconosciuto, ha sbagliato il nome della strada. Scrive: “Via Figliolino”. All’interno, un biglietto: “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”. Eccolo il rebus, l’altro grande fantastico mistero tragicomico dell’inchiesta sulla morte dell’Direttore dell’Ufficio del Registro. L’avvocato della famiglia Marcone, Oreste De Finis, consegna il documento in Questura. Sarà assunto e messo agli atti. Ma, come spesso ha dovuto ammettere lui stesso, “tra la mole imponente di materiale d’indagine, non è dato rinvenire alcun approfondimento e/o spunto di riflessione”.

Eppure, spunti interessanti, dalla sola analisi visiva del biglietto, ce ne sarebbero anche. Primo. Biglietto e busta sono scritti con grafie diverse. Simili, ma diverse. A scrivere, non è chiaramente la stessa persona. La grafia della busta è insicura. Potrebbe trattarsi dei tentativi di un anziano di risulatre fermo. O, al contrario, dei tentativi dello scrivente di apparire agitato ed impacciato. Viceversa, il documento dell’interno conduce a rilevamenti opposti. La composizione delle lettere lascia immaginare che, a vergare la missiva, sia stata una mano ferma e sicura di sé, di chi non ha donde di nascondimenti. Potrebbe essere stata redatta da personaggi esterni all’inchiesta. Oppure da indagati. In ogni caso, non sono state eseguite perizie calligrafiche, né rilevamento delle impronte digitali. Per non parlare della prova del Dna sul francobollo o sulla lingua umettata della busta stessa.

Secondo: il corpus del messaggio, il suo senso. Che cosa vuol dire “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi ad una collezionista)”?. Proviamo a capirci di più. Come pensato da De Finis, più addestro alle scartoffie di Tribunale e di amministrazione, 1972 potrebbe si, essere l’indicazione di una data. Ma, più raffinatamente, anche un “numero di ruolo ovvero di repertorio”. Possibilità che schiude le porte alla presenza di un secondo documento, da cercare per ottenere informazioni. Documento che, nel 1998, certo era nelle disponibilità di qualcuno. Di chi? Della fantomatica collezionista (“rivolgetevi ad una collezionista”)? E collezionista di che cosa? Di oggetti? Di atti? Di carte? Tornando indietro, lo scrivente parla anche di “una carta da bollo da 2000 quello con la bilancia”. Ma nel 1972, non era in uso la carta da bollo da 2000 (ovviamente Lire), che sarà adoperata molto più tardi. La bilancia richiama invece alla raffigurazione presente sui fogli degli atti giudiziari. E se la collezionista fosse, ad esempio, un’archivista, magari l’impiegata di un ufficio pubblico incaricata alla razionalizzazione degli atti?

Ma sono tutti misteri. Grossi misteri. Appassionanti, quasi giallistici, buoni per inchieste da film. Non fosse che in mezzo c’è un morto ammazzato e la dignità di una città che, dopo quel maledetto giorno, non ha mai più saputo ritrovare sé stessa.

Il memoriale antimafia, la condanna a morte di Giovanni Panunzio. Il ricordo, 18 anni dopo

Giovanni Panunzio, vittima della mafia e del fango democristiano e socialista

Celebrerà don Luigi Ciotti. Per una  giornata, non il Presidente di Libera, ma un sacerdote come tanti. Come tutti. Sarà la sua voce a dir messa per Giovanni Panunzio, la vittima del silenzio, nella chiesa di san Giovanni Battista, sabato pomeriggio, alle sette.
18 anni dopo, Giovanni Panunzio, la sua memoria, il suo sacrificio, il suo nome, tornano a rivivere. 18 anni di rimbombi. Quei colpi di pistola che echeggiano ancora in Via Napoli, dove il costruttore foggiano cadde, freddato da quattro colpi, alle 22.40 del 6 novembre 1992. “O forse più”, dubitavano le cronache del tempo. Era a bordo della sua utilitaria, quando i killer in moto gli si avvicinarono, crivellandolo di colpi. Spari alle spalle, spari ai polsi, spari in gola. Panunzio che si accascia sul volante, la corsa agli Ospedali Riuniti, il decesso, la fragilità di una città che, in quel mentre, si scoprì in preda alla paura. Il sindaco Salvatore Chirolli che, al consiglio riunito nella discussione del piano regolatore urbano, annunciò che “hanno sparato ad un costruttore”. Era lo stesso consiglio comunale che Panunzio stava seguendo, prima di andar via, verso casa. Una falla del sistema di sicurezza. Già, perché il muratore diventato costruttore, era sorvegliato, sì, ma “saltuariamente”. Granulosità di un sistema volutamente ignaro. Scortato, è vero, ma soltanto via radio. Ovvero, Panunzio era semplicemente tenuto a comunicare i suoi spostamenti alle forze dell’ordine, man mano che li effettuava. Ma nessuno, quella sera, si mise sulle sue tracce. Una crepa, un passaggio di informazioni che non ci sarebbe dovuto essere. Forse una connessione tra poteri teoricamente contrapposti, l’omicidio.

LA RABBIA E IL SILENZIO – Seguì la rabbia dei costruttori (“Avete fatto uccidere un costruttore” gridò un collega di Panunzio in seduta a Palazzo di Città), le accuse alla politica (Mons. Giuseppe Casale: “uomini che stanno diventando servi di questa piovra economica”), poi il silenzio della città, i dubbi degli inquirenti su chi avesse avvisato chi sull’abbandono del consiglio da parte di Panunzio, l’oblio di una comunità spaventata che si ammutina alla verità per servire la pusillanime inclinazione alla preservazione individuale. Nessun testimone oculare. Né prima, né dopo. Nessuno ha visto, nessuno ha colto, nessuno ha sentito. Furono i tempi che Foggia capì quanto fosse conveniente smarrire la vista e l’udito.

PANUNZIO E L’EDILIZIA FOGGIANA – Scorsero rapidi quegli ultimi giorni del 1992. Due mesi che dettero avvio ad un’onda lunga, lunghissima, che imposero un nuovo orizzonte sociale sulla città. Un cielo lattiginoso ed appesantito, la cappa del racket. Giovanni Panunzio, tutti sapevano, era stato l’autore di un memoriale che aveva portato all’arresto di 14 mafiosi. Giovanni Panunzio, mentre moriva, portava con sé tutti i suoi no, argentini, pronunciati verso gli estorsori. Due miliardi, gli avevano chiesto. Giovanni Panunzio, e questa fu la distorsione, se l’era andata a cercare.
Tanto più perché, da qualche anno, il clima attorno al mondo dell’edilizia foggiana si era fatto rovente. Eliseo Zanasi, ferito nell’aprile del 1989, si era salvato per il rotto della cuffia; Salvatore Spezzati, colpito al volto dalle pistolettate, esattamente un anno dopo, aveva combattuto fra la vita e la morte, riuscendo a vincere la sua sfida personale. Un ripetersi secondo una ritualità quasi macabra. Un anno dopo l’altro. Fino all’evento che cadde sulla città con il fragore di un boato. Un masso che divenne una frana rapidamente. 14 settembre 1990, Foggia centro, un cantiere. Nicola Ciuffreda, altro costruttore che non aveva accettato di pagare il pizzo, era stato freddato in pieno giorno.

IL MEMORIALE – Forse conosceva il suo destino, ma Giovanni Panunzio era deciso a non farla passare liscia a chi, da anni, continuava a pressarlo. E con i quali, va detto, tentò anche di scendere a patti. Ecco la scelta del memoriale, la voglia di fare qualcosa. Attaccare per difendersi. Sperando che la giustizia facesse giusto un attimo prima delle pallottole dei sicari. Due anni prima di morire, già c’era stata una spedizione contro di lui. Ma la pistola dei boia si era inceppata. E Panunzio scampato.
Oppure non la rinuncia a pagare, ma fu proprio quel memoriale, con le sue conseguenze, a decidere la sua condanna a morte, in contumacia, nel parallelo tribunale dello stato mafioso di Foggia? Panunzio aveva incrinato le maglie dell’omertà, rotto la barriera di silenzio colpevole, aperto uno squarcio nel muro di gomma.
Dal memoriale si giunse presto al processo. E, dal processo, al blitz antimafia. Con la città battuta a tappeto, arrivarono gli arresti. Finirono dietro le sbarre in 14, con l’accusa di associazione di stampo mafioso finalizzata all’estorsione. Nomi di spicco della Società: Antonio Bernardo, Pasquale e Salvatore Campaniello, Raffaele Carella e suo padre Mario, Salvatore Chierabella, Leonardo Corvino (quello con cui l’imprenditore aveva tentato di mediare), Aniello Palmieri, Leonardo Piserchia, Francesco Selicato, Giuseppe Spiritoso. E poi Michele Delli Carri, Vincenzo Pellegrino e Antonio Vinciguerra, scarcerati pochi giorni dopo l’arresto per insufficienza d’indizi.

GLI UOMINI DELLA PAURA – Tutti “uomini della paura”. Tutti criminali che aveva fatto mettere dentro lui, Giovanni il muratore, Giovanni il costruttore, Giovanni il “ribelle”. Che, per un anno, visse come in un incubo. Fino a quegli spari, fino a quegli echi che hanno squarciato il velo del tempo per arrivare fino a noi.

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La memoria in cammino

RENATO GUTTUSO, Portella della Ginestra

QUINDICI città capoluogo più due paesi simbolo come Portella della GinestraGattatico. Due modelli di Resistenza, due forme di opposizione diversa al potere che rende servi. Due storie fatte di uomini e donne, lontane geograficamente ma parallele idealmente. Braccianti di qui, nella Sicilia del profondo Sud, sette fratelli antifascisti lì, massacrati dalla brutalità di un nazifascismo ferito dall’onta della sconfitta.

Da ieri ad oggi, dalle antiche resistenze alle nuove, per non dimenticare che il volgere della storia ha portato con sé non solo glorie, ma tanto dolore, sangue e polvere prima ancora dello splendore dei troni. Nasce così, e seguendo questo registro si dipanerà per cinque mesi, la Carovana delle Memorie. Artefici principali, attori protagonisti, i giovani, ma anche uomini e donne indomabili di fronte allo sfacelo valoriale. D’altronde, impossibile a credere che la società abbia avuto la sua genesi nei reality, che la discussione abbia preso le mosse dai talk show, che i talenti e le conoscenze siano racchiusi unicamente negli schermi e spacciati impietosamente via tubo catodico.
Alle spalle del progetto, un sodalizio inedito composto dalla rete di associazioni Libera, l’Istituto Cervi, l’Unione degli Studenti e il Coordinamento Universitario Link.

Si parte il 25 novembre, si diceva, da Portella della Ginestra. Ovvero dove si consumò il primo eccidio dell’Italia liberata. Portella della Ginestra è, in effetti, l’esempio calzante dello spirito della manifestazione. È la perfetta sincronia delle anime organizzatrici, il sunto valoriale dell’opposizione alle mafie (incarnata da Libera) ed alle vecchie dittature (rappresentato in primis dall’Istituto Cervi). Fu qui, in terra di Sicilia, che braccianti e sindacalisti furono uccisi, il primo maggio del 1947, dalla concussione lurida e vigliacca fra stato di polizia scelbiano (Scelba era divenuto ministro degli interni appena tre mesi prima, il 2 febbraio) e controllo tentacolare mafioso.
Arrivo, nel giorno della Liberazione, il 25 aprile, data dal forte significato simbolico – e non solo – a Gattatico, cuore dell’Emilia reggiana. Il ricordo è tutto per i sette fratelli Cervi. In mezzo, un itinerario che toccherà Torino, Milano, Napoli, Roma, Bari, Lecce, Campobasso, Avellino, Genova, Trieste, Cosenza, Salerno, Padova e Reggio Calabria. L’idea principale è quella di animare delle assemblee studentesche e portare questo tema nelle scuole e nelle università come antidoto all’oblio. Il tutto, permettendo, per mezzo di una collaborazione diffusa e capillare, la confluenza sui luoghi stabiliti, del maggior numero di persone, provenienti anche da province diverse.
Restano a parte, invece, Foggia e la Capitanata, pure nel sessantesimo anniversario, caduto esattamente nel marzo di quest’anno, dell’insurrezione di San Severo che lasciò sull’asfalto il comunista Michele Di Nunzio, 33 anni.

 

Nella tana del CECATO

Interno locale boss Mastrangelo 
 

Cerignola – “ABBIAMO sottratto la terra al giogo delle mafie; e, alle mafie (proprio mentre lo scorso 26 settembre 2010 i carabinieri del reparto operativo di Foggia, con i Ros di Bari e i militari della Stazione dei Cc di Monte Sant’Angelo catturavano il super latitante Franco Li Bergolis Arresto Li Bergolis), abbiamo sottratto il suo ruolo di deus ex machina, al sua pretesa di comandare, nel bene e nel male, le sorti dei lavoratori e del lavoro. Questo significa lottare tenacemente, credendo che, insieme, con gli sforzi di ciascuno, si possa migliorare questa terra. L’esempio di località Scarafone a Cerignola, quella che un tempo era considerata la peggiore delle cittadine della provincia, deve illuminare e far sperare che un’altra Capitanata è possibile”. Mimmo Di Gioia, referente provinciale della rete di associazioni contro le mafie, Libera, quando s’infiamma, è un fiume in piena. Mimmo ha anni di esperienza politica alle spalle, un curriculum di lotta all’illegalità diffusa grande così. Già ne ha passate più d’una, di tribolazione. Telefono intercettato, minacce. Una lunga militanza prima in Democrazia Proletaria, poi nei Verdi, infine l’approccio a Sinistra ecologia e Libertà. È con lui che ci siamo recati in contrada Scarafone, sabato 18, in occasione della vendemmia in quei terreni (quattro ettari e mezzo di viti) sottratti a Giuseppe Mastrangelo, alias “il cecato” uno dei boss più influenti della criminalità organizzata cerignolana.

PROFILO DI UN BOSS – LE TERRE CONFISCATE ALLA MAFIA – Coinvolto nell’Operazione Cartagine per omicidio, droga, associazione mafiosa ed estorsione, Mastrangelo è stato condannato a tre ergastoli. “Può tornare a nascere altre due volte”, ci scherza su Pietro Fragrasso, cooperativa Pietra di scarto. Una di quella che si occupa della gestione dei terreni. Oltre a quei terreni, una casa. Due piani, apparentemente anonima. Un cancello in ferro a chiuderne l’ingresso. Viti ed ulivi del basso Tavoliere a far da recinzione, da protezione naturale. Ora, reticolati e chiusure servono meno. Il terreno, dal 2008, è della comunità. Precisamente, appartiene al Comune di Cerignola. Prima la giunta guidata Matteo Valentino, ora quella di Antonio Giannatempo, hanno fatto di tutto per recuperare alla città questo pezzo usurpato. Ma nessuno, per lo meno a livello apparente, ci mette cappelli su. Attorno all’ingresso della dimora, da due anni, ci sono i sigilli della Polizia Municipale. Entrarvi è realmente difficile. Oltre che impedito. A terra, mucchi di vetri rotti. Verosimilmente, si tratta di quelli delle finestre. L’interno è una caterva di detriti, sanitari rotti, roba precipitosamente accumulata ed altrettanto precipitosamente abbandonata. Ma distrutta con certosina precisione. E metodica barbarie. Già, perché la sottrazione dei beni materiali, nuoce gravemente allo stato di salute delle mafie. Meno potenti e più fragili, senza cassa. Perciò, nello sfogo del momento, gli ex inquilini si son dati allo sfregio. Rompere per rendere inservibile, lasciando in piedi unicamente l’inutile. All’interno, comunque, ci sono ben visibili ancora i segni di una lontana frequentazione. Non è stato facile il lavoro degli esecutori giudiziari. Non è facile, ancora a distanza di due anni, capire effettivamente come recuperare uno spazio ben diviso ma malmesso.

GLI INTERNI: IMMAGINE DI GESU’ CRISTE E MADONNINE DEVOTE – A piano terra, quello che fu il soggiorno porta le ferite dell’ira. Restano ancora gli arredi. Un camino con qualche disegno fuliginoso, archi in mattoni a vista color del cotto, un divano ormai di sbieco. Mentre il pavimento è un ricettacolo, anche qui, di carte da gioco lacere, vecchi addobbi natalizi, ciarpame ammassato, gettato alla rinfusa in attimi che lasciano presupporre scompiglio. Accanto, superato un arco, un ambiente piccolo, verosimilmente la cucina. Non resta nulla di quello che fu l’arredamento originario. Soltanto, mestamente, un vassoio appoggiato su di un piano. Sopra, una bottiglia ancora aperta di menta e due bicchieri. Per un fotografo, una golosità, questo quadretto. Appena dietro, infatti, si apre una finestra, dalla quale è possibile vedere i grandi alberi dell’esterno. Tanta esplosione di vita all’esterno, tanta mortificazione all’interno.

Alle spalle del divano, nel soggiorno, una scalinata in ferro battuto porta al piano superiore. Siamo in quella che fu la zona notte della casa di campagna di Mastrangelo. Ogni passo sulla rampa è un groppo in gola. I muri, bianchissimi, scarni e senza vita. Non ci sono segni di quadri appesi. Le ragnatele nascondono gli angoli del soffitto. Terminata la rampa, un piccolo ambiente su cui si aprono tre porte. Una prima, esattamente di fronte, con un bagno tutto distrutto. Lapidario il commento di Di Gioia: “Nemmeno questo hanno risparmiato. Un classico”. In effetti la distruzione, a seguito di una confisca può derivare da due fattori. In primis, dalla necessità di riportare alla luce e disseppellire da nascondigli ad hoc, materiale che non si vuole caschi nelle mani degli inquirenti. In secondo luogo, per arrecare un ulteriore danni a tutti quanti suppliranno alla mancanza del vecchio proprietario.

NEL FUTURO: “PER NON ESSERE RICORDATI COME CITTADINI DELLA PEGGIORE DELLE PROVINCE POSSIBILI” – Subito avanti a noi, unici ad essere entrati nella casa, la troupe di Libera.it, televisione on line dell’associazione. C’è silenzio e nessuno si avventura sin lì. Oltre al bagno, water rotto a martellate e bidet rovesciato, due stanze. Una prima, ad ambiente quadrato. Un materasso in terra, due finestre ad inondarla di luce, un misero alberello di Natale che più che dare idea della festa, mette tristezza. E rabbia. Ancora una volta, la scena è la stessa. Le braccia della criminalità calate a frammentare l’ordine in una sommatoria di piccoli caos. Anche qui, carte da gioco, una bottiglia di birra vuota in un angolo, addobbi e suppellettili varie. Anche qui, nessun arredo vacuo. Anche qui, una lontana eco di vita. Ma solo lontana. La seconda stanza, invece, doveva essere la principale. Al centro, in risalto, un lettone matrimoniale che non c’è più ha lasciato il posto al nulla. La porta, ostruita nell’aprirsi da un cassettone. Tutti i tiretti, vuoti, sono aperti. Nel primo, un santino di Gesù Cristo a metà. Un’immagine sbiadita. L’idea, quella che concorre a creare qualche brivido alla schiena, è quella del covo dei grandissimi ricercati della criminalità organizzata, falsi devoti seppelliti di santini ed immagini di santi, Madonne e Figli di Dio immolato. Chissà, qualcuno, si chiede, uscendo dalla casa, se sarà misericordioso anche con i pluriergastolani.

pubblicato su http://www.statoquotidiano.it/03/10/2010/cerano-una-volta-i-boss/35287/