Una danza macabra di cinismo

di Fidel Castro – Fonte: http://www.cubadebate.cu/reflexiones-fidel/2011/02/24/danza-macabra-de-cinismo/

La politica di saccheggio imposta dagli Stati Uniti e dai loro alleati della NATO in Medio Oriente è entrata in crisi. Si è scatenata inevitabilmente con l’alto costo dei cereali, i cui effetti si fanno sentire con più forza nei paesi arabi dove, nonostante le enormi risorse petrolifere, la mancanza di acqua, le aree desertiche e la povertà generalizzata del popolo contrastano con le enormi risorse derivate dal petrolio che possiedono i settori privilegiati.
Mentre i prezzi degli alimenti si triplicano, le fortune immobiliari e i tesori della minoranza aristocratica si elevano a milioni di milioni di dollari.

Il mondo arabo, di cultura e credenza musulmana, si è visto umiliato addizionalmente per l’imposizione a sangue e fuoco di uno Stato che non è stato capace di eseguire gli obblighi elementari che gli diedero origine, a partire dall’ordine coloniale esistente sino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in virtù della quale le potenze vittoriose crearono la ONU e imposero il commercio e l’economia mondiali.

Grazie al tradimento di Mubarak a Camp David, lo Stato arabo – palestinese non ha potuto esistere, nonostante gli accordi della ONU del novembre del 1947, e Israele è diventato una forte potenza nucleare alleata agli Stati Uniti e la NATO.

Il Complesso Militare Industriale degli Stati Uniti ha somministrato decine di migliaia di milioni di dollari ogni anno a Israele e agli stessi stati arabi sottomessi e umiliati da questo.

Il genio è uscito dalla bottiglia e la NATO non sa come controllarlo.

Cercano di far rendere al massimo i lamentevoli fatti della Libia. Nessuno può sapere quello che sta accadendo là in questo momento. Tutte le cifre e le versioni, anche le più inverosimili, sono state diffuse dall’impero attraverso i mezzi di stampa di massa, seminando il caos e la disinformazione.

È evidente che dentro la Libia si combatte una guerra civile. Perchè e come si è scatenata? Chi ne pagherà le conseguenze?

L’agenzia Reuters, facendo l’eco al criterio d’una conosciuta banca del Giappone, la Nomura, ha scritto che il prezzo del petrolio potrebbe superare qualsiasi limite:

“Se la Libia e l’Algeria sospendono la produzione petrolifera, i prezzi potrebbero raggiungere un massimo di 220 dollari a barile e la capacità oziosa della OPEP sarebbe ridotta a 2,1 milioni di barili al giorno, con i livelli visti durante la guerra del Golfo, quando i valori toccarono i 147 dollari a barile nel 2008”, ha informato la banca in una nota.

Chi potrebbe pagare oggi questi prezzi? Quali sarebbero le conseguenze in mezzo ad una crisi alimentare?

I leaders principali della NATO sono esaltati.

Il Primo Ministro britannico, David Cameron, informa l’agenzia ANSA, ha ammesso in un discorso in Kuwait che i paesi occidentali si sono sbagliati nell’appoggiare governi non democratici nel mondo arabo.” Va complimentato per la franchezza.

Il suo collega francese Nicolás Sarkozy ha dichiarato: “La prolungata repressione brutale e sanguinaria della popolazione libica è ripugnante”.

Il ministro degli esteri italiano Franco Frattini ha dichiarato “È credibile? La cifra di mille morti in Tripoli […] è una cifra tragica, sarà un bagno di sangue.”

Hillary Clinton ha dichiarato: “Il bagno di sangue? È completamente inaccettabile e si deve interrompere. ”

Ban Ki-moon ha parlato: “È assolutamente inaccettabile l’uso della violenza che c’è nel paese.”

“Il Consiglio di Sicurezza agirà in accordo con quello che deciderà la comunità internazionale.”

“Stiamo considerando una serie di opzioni.”

Quello che Ban Ki-moon aspetta realmente è che Obama dica l’ultima parola.

Il Presidente degli Stati Uniti ha parlato nella tarda mattinata di mercoledì, e ha detto che la Segretaria di Stato andrà in Europa per accordare con gli alleati della NATO le misure da prendere. Nel suo viso si apprezzava l’opportunità di litigare con il senatore dell’ estrema destra dei repubblicani, John McCain; con il senatore pro-israelita del Connecticut, Joseph Lieberman e con i leaders del Tea Party, per garantire la sua candidatura per il partito democratico.

I mezzi di comunicazione di massa dell’impero hanno preparato il terreno per agire. Nessuno considererà strano un intervento militare in Libia, con il quale inoltre si garantiranno all’Europa quasi due milioni di barili al giorno di petrolio leggero, se prima non avverranno fatti che metteranno fine alla guida o alla vita di Gheddafi.

In qualsiasi forma, il ruolo di Obama è abbastanza complicato.

Quale sarà la reazione del mondo arabo e musulmano se il sangue in questo paese si spargerà con abbondanza per questa avventura? Fermerà un intervento della NATO in Libia, l’ondata rivoluzionaria scatenata in Egitto?

In Iraq è stato sparso il sangue innocente di più di un milione di cittadini arabi quando il paese è stato invaso con falsi pretesti. “Missione compiuta!”, aveva proclamato George W. Bush.

Nessuno nel mondo sarà mai d’accordo con la morte dei civili indifesi, in Libia o in qualsiasi altra parte. E mi chiedo se gli Stati Uniti e la NATO applicano questo principio ai civili indifesi che gli aerei telecomandati yankee e i soldati di questa organizzazione uccidono tutti i giorni in Afganistan ed in Pakistan.

È una danza macabra di cinismo.

Botte, carabinieri e risse. Libia? No, lo Zaccheria. Pagelle di Foggia – Gela 2-2

PAGELLE – Ivanov 5.5. Una domanda: quando torna Santarelli?
Candrina 6. Come sempre si lancia nelle scorribande nella metà campo avversaria e, per far questo, scopre la difesa. Dà la sensazione di patire qualche acciacco. Sandokan con le bende. (26’st, Agodirin 6.5. Indovina indovinello, chi è il più furbo del campo? Ma sì, è Lola! Il Gela perde tempo per l’intero secondo tempo. Omaccioni grandi e grossi, senza pioggia, né campo pesante, non possono tutti essere afflitti da crampi o da ginocchia molli che cedono tutto d’un tratto provocando cascate di corpi come carneficine. E allora, alla prima occasione lui si prende la vendetta. E ora provate a prenderlo.)
Tomi 6. In settimana, nel ghiaccio di Ordona, si era sottovalutato, dicendosi non ancora maturo ad affrontare una gara per intero dopo tre mesi lontano dai campi. Cosa non vera. Tomi gioca 90 minuti, spinge sulla fascia, difende e si propone in avanti, dialogando con un non ottimo Insigne. Leone.
Salamon 6.5. Si piazza al centro e non lo smuovi nemmeno con la dinamite. Randella e si fa randellare. Si intestardisce, nei primi minuti, per calciare una punizione dal limite che, per due volte, manda a schiantarsi contro la barriera biancoazzurra. Poi cresce, giocando una partita da autentico Pirlo in fa minore. Serve palloni con il contragiri sia a Farias che ad Insigne. Colosso polacco
Rigione 5.5. Vero è che beccare gol come il Foggia li ha beccati oggi non comporta, necessariamente, responsabilità soggettive. Vero è anche, però, che non puoi farti star lì ad ammirare gli avanti che bellamente tirano verso il portiere più scandaloso degli ultimi 150 anni della stria dell’Italia unita. Statua di pietra. (20’st, Torta sv Non ha fatto nemmeno la doccia)
Romagnoli 6. Come sopra, ma con il merito di accalappiare quelche palla in più. Ferma in maniera egregia Docente lanciato a rete con un intervento da magistero.
Farias 7. Corre corre corre. Ha sette vite e chissà quante batterie. Altro che Duracel. Sulla destra spadroneggia che nemmeno Gheddafi a Bab al Azizia. Prova anche a mettere le melanzane nel piatto alla norma in prima persona, senza tuttavia riuscirci. Bep bep.
Kone 6.5. Inizia benino. Zeman lo preferisce a Burrai e lui prova a ripagare la fiducia del boemo. Prova anche ad impostare e non solo ad arrembare. Nel primo tempo, dai suoi piedi passano diversi palloni. Serve un assist al bacio per l’1-0 di Sau che lascia di sasso tutta la retroguardia del Gela. Capita l’antifona, i centrocampisti gelani gli montano attorno la gabbia e non gli consentono più nulla. Prigioniero. (39’st, Agostinone sv)
Sau 7. E sono 15, superato Insigne e di nuovo capocannoniere. Dormicchia per tutta la partita, spara alto in un paio di circostanze. Non brilla per vivacità. Ma due volte viene chiamato in causa e due volte non fallisce. Il 24enne sardo fa godere da Dio tutta la curva Sud. Provoca la rissa finale. Ma, in fondo, meglio così. Cinico.
Laribi 5.5. Non è il miglior Laribi, quello che scende in campo contro il Gela. A mobile è anche mobile, ma a volte è troppo prevedibile ed è un po’ fuori dal gioco. Non riesce a dar sfogo a tutta il suo estro.
Insigne 5.5. Quando vuole fare il Maradona a tutti i costi è urticante.
Zeman 6. Nessuna squadra composta da sani di mente avrebbe preso gol come è successo per la seconda marcatura del Gela. È la sintesi di quello a cui si va incontro se il tuo coach si chiama Zdenek e di cognome fa Zeman. Ma, tutto considerato, il suo Foggia non demerita. Stradomina il primo tempo ed anche il secondo. Se l’arbitro avesse dato recupero, chissà che cos’altro sarebbe successo. Quisquilie e discussioni che odorano di giustificazioni. Resta che, il Foggia non è autorizzato a pareggiare in casa con il Gela.

Due si per l’acqua. Due no per Ronchi

∞ L’Italia di Giorgio ∞


Immaginate un armadio. Chiuso, sbarrato, ante contro una parete romana. Immaginate che quell’armadio serri molti dei segreti peggiori delle stragi naziste. Immaginate che le carte ivi contenute contengano la chiave per leggere le fucilazioni, le tribolazioni dei liberatori, i nomi dei loro aguzzini. Immaginate che, lì dentro, si accorpino storie fra di loro opposte e diverse, afflati di giustizia da un lato, di vendette dall’altro. Immaginate che ci vogliano decenni perché, finalmente, quelle carte escano fuori. Immaginate tribunali, processi, torturati e torturatori, mandati internazionali.

L’armadio della vergogna è la base di partenza del lavoro di due studiosi, Carlo Costa e Lorenzo Teodonio. Che, interrogando le carte, hanno tratto fuori una storia. Quella di Giorgio Marincola, l’unico “mulatto” della guerra di liberazione italiana, combattente azionista. Un’esperienza dalle fortissime connotazioni romanzesche, quella di Giorgio, alias tenente Mercurio, alias Renato Marino. Una vita di flash accecanti. Nato a Mahadei Uen, Somalia Italiana, da padre militare e mamma somala. L’Italia, appena bambino. Pizzo Calabro e l’infanzia. Il mare, il pianoforte, le corse con i bambini di pelle diversa. Poi Roma, la maturità, l’insegnamento di Pilo Albertelli (giustiziato alle Fosse Ardeatine), la scelta antifascista, Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione, la resistenza. Viterbo, Roma liberata, ancora addestramento in Puglia, partigiano a Biella. Il rastrellamento della Serra, l’arresto a Zimone nel gennaio 1945, ed una nuova avventura: Biella, Torino, il campo di concentramento di Bolzano. Compagni torturati ed uccisi. La liberazione dal lager, la liberazione dell’Italia dal nazismo, la voglia di non arrendersi, la Brigata Cesare Battisti di Molina di Fiemme, la morte a Strementizzo, in un bosco, nell’ultima strage tedesca in territorio italiano. Colpito alle spalle. “Alla scapola sinistra”, reciteranno i verbali immediatamente successivi a quel 4 maggio. Esecuzione.

Una narrazione di vita tenuta a riparo dagli occhi della gente per decenni di Storia del Novecento. Quasi tutto ciò, questa sede di emozioni, sentimenti e valori di speranza, fosse il potenziale generatore di una caterva di virus capaci di rodere il sistema dall’interno, senza timori, senza paure. Quasi fosse troppo destabilizzante diffondere la voce di una verità storica che parla di italiani venduti allo straniero e somali dediti all’onore di Patria.

Per questo e per altri motivi, non è facile reperire fra gli accordi della sinfonia italica la storia di Giorgio. Nell’Italia imbellettata di trucco e rumori assordanti, nell’Italia che si è rifatta il naso per non sentire il tanfo di rancido che il suo corpo sprigiona da ogni poro, da ogni fiume inquinato, da ogni terra svenduta, da tutto il sangue contadino versato, laddove si preferisce una marocchina che riproduce il solito gioco di assuefazione piuttosto che un somalo che, per questo paese, per la sua libertà, ha dato la vita, non c’è spazio per i sogni (Isabella, sorella di Giorgio, resistente, partigiano, morto per l’Italia, è stata ripudiata dalla famiglia e costretta a dormire nelle stazioni. Suo figlio, nipote di Giorgio, resistente, partigiano, morto per l’Italia, ha dovuto caritare il permesso di soggiorno nella gabbia delle Questure).
In questa Italia puntellata di sepolcri imbiancati, in cui si vende a basso costo, giorno dopo giorno, il rito del consumo e dello squallore politico, si celebra un compleanno un po’ più netto di quelli precedenti a suon di nuovi eroi: divise violente, personaggi subdoli, mercenari caduti per un guadagno netto di qualche decina di migliaia di euro, gentaglia con tacchi e spalline. Che, ineluttabilmente, ripudiano e scacciano dal rovello della storia e dal pantheon nazionale quegli esempi altrimenti totalizzanti per la purezza dei valori.

E così li si scaccia, li si annienta, si incenerisce anche la loro memoria, si seppelliscono i loro nomi sotto ondate infuocate di proclami e di celebrative parate. Per fortuna che c’è ancora gente come Carlo Costa e Lorenzo Teodonio. Loro, capaci di estrarre dalle macerie di noi stessi, quello che di buono è insito nelle vene del Paese. Con la grande siringa della Storia hanno saputo trarre in provetta quel Dna resistente di nome Giorgio e di cognome Marincola.

Carlo Costa-Lorenzo Teodonio, “Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola”, Iacobelli 2008
Giudizio: 5 / 5 – Auguri Italia

A Foggia ci torno due volte all’anno. Lettera di un Foggiano a Pisa

A Foggia ci torno due volte all’anno. Nonostante siano otto gli anni di lontananza, so che il conto non è ancora chiuso, e che, prima o poi, in qualche modo, Foggia tornerà in me ed io in lei. Foggia è una donna picchiata ed incattivita dalla vita. Un mostro creato ad arte, come si creano i mostri con la sottile ferocia quotidiana. Le tre fiammelle vanno spegnendosi sotto l’alito mefitico delle persone che la stuprano costantemente.

Foggia occorre tenerla là, al posto suo, quando vai via. Troppo brutale starci dentro, e non è una questione di chilometri. Te ne accorgi quando te ne vai. Tutti dovrebbero andare via da Foggia per un anno, e tornarci, e tornare a vederla, e “tenerla là”. Chi non lo fa ,forse, non è davvero un foggiano, ma solo un pigro.

Perché se per un poco Foggia ti tocca l’anima con la sua parte marcia, ti senti maledettamente perduto tra le sue gambe di violenza. Foggia è la città più violenta d’Italia. Più delle grandi città, perché il provincialismo serve a inasprire. Più delle terre dove la mafia la respiri ad ogni passo, perché almeno lì sai di cosa aver paura. Sai che puoi morire in qualsiasi momento. A Foggia non sai nulla. Non sai se l’occhiataccia abituale del ragazzino pompato possa essere ragione di rissa, o se vale la pena incazzarti con l’amico ventiseienne senza speranze, che sputtana la sua vita credendo di stare ancora al liceo e che prenderesti a schiaffi se non l’avessi già fatto, che ami maledettamente e che ti fa venire il sangue agli occhi.

Perché la amo Foggia, consunta da retoriche stanchevoli di banali malvagi. Banali e ripetitivi, che il disgusto non viene per loro ma per i loro modi, che si vogliono disgustosamente nuovi perché si grida di più.
Amo la Foggia delle cartacce gettate al cicchettaro, che farsi schifo da soli è un invito alla contemplazione del nulla. Del pierino che si sente bello perché vende i biglietti di festini alla Arcore nella patria del pomodoro. Del migrante schiavizzato nelle campagne, con la città che gira le spalle per non vedere. Dio mio, non vedere. L’amore è qualcosa che fa troppo male a volte, e stai male e soffri, e piangi di nascosto al vedere le notizie terribili. Nascosto al mondo, nel deserto di te stesso.
Non era così. Foggia non era così. Non è la disoccupazione, anche se pesa. Non è una maledizione inevitabile: maledetto è chi fa di tutto per esserlo. Non è neanche la violenza, perché deve avere da qualche parte un baratro d’origine.

È il disagio a se stessi dato dai buchi colmati dal niente. È il soffocante peso di una classe politica che riempie di infette cartacce in ogni dove la città che dicono di voler “pulire”. È la perenne delega ad altri, perché tutti si vuole andare in paradiso e dire poco al prete in confessionale, che la coscienza deve essere sbiancata dal “se la vedono loro, non me ne importa niente a me”. Magari detto in dialetto con l’occhio complice ed il sorrisino, così è più facile non sentire il dolore della morte che avanza dentro. Morte comune, mezzo gaudio.

Non ho ancora chiuso i conti con Foggia, e Foggia non ha ancora chiuso i conti con me. Non sono fuggito: mi sto preparando. E prepararsi significa solamente ed in primo luogo dimostrare che un altro modo esiste, che se occorre buttare la vita almeno va buttata in qualcosa che forse decido da me, e non faccio decidere da altri. Fare la propria parte per non arrendersi a qualcosa che altri hanno dato per inevitabile, con la voglia di voler gridare che è tutto un inganno, che si nuota nell’acquario sporco in cui ci hanno limitati, che la violenza è solo il modo più stupido per dar loro ragione, che Cannone non era più scemo di me.

Maledizione

(L.Ferrante, riproduzione Stato Quotidiano – http://www.statoquotidiano.it/25/02/2011/cannone-non-era-piu-scemo-di-me/43026/)

“Paura del silenzio sulla morte di Francesco”. Intervista con Gianni Mongelli, sindaco di Foggia

Fiori e sciarpa rossonera in ricordo di Cannone in Corso Cairoli a Foggia

DI lavoro da fare ce n’è tanto.Gianni Mongelli, per un’intera mattinata, incontra gente. Assessori, consiglieri, cittadini. Malgrado una fastidiosa influenza che lo attanaglia da giorni, il Sindaco va avanti. La scrivania piena zeppa di faldoni e di fascicoli, di carte. C’è da fare. In una città in balia delle polemiche e, nelle ultime ore, nella morsa di un vento gelido che sferza le vie e non aiuta i cagionevoli, Mongelli prova a tirare avanti. La pistola che ha sparato, quella impugnata dal 24enne Paolo Basto emana ancora odore di polvere da sparo. Per lui e per il suo amico, Giovanni Pio Mele, il gip del Tribunale di Foggia, Carlo Protano, ha rigettato la richiesta di scarcerazione.

Sindaco, Foggia città violenta?
No, il discorso mi sembra troppo forte. Personalmente non sono a favore delle generalizzazioni. Ritengo fallace estendere a tutta la cittadinanza un discorso che va limitato ad una parte di essa. Vero è, però, che stiamo andando incontro ad una fase di profonda depressione urbana. Ci sono degli episodi di violenza sempre più frequenti che devono indurre a preoccupazione sia chi amministra sia, tengo in particolare a questo punto, chi vive la città da privato.

Quindi, Foggia città deresponsabilizzata. Per ora…
Guardi, al di là degli aggettivi, quello che mi preoccupa è una fenomenologia che si biforca, concretamente, sottoforma di due rappresentazioni: da un lato, c’è la futilità delle motivazioni sottese a questi episodi. Personalmente, sono molto spaventato da questa cosa. Temo che la violenza prenda il sopravvento in modo troppo semplice, non ci siano forme di resistenza personali che inducano i soggetti ad un attimo di riflessione in più. In secondo luogo, guardando la città da questo onorevole punto di vista in cui mi trovo, noto una recrudescenza dei fenomeni criminosi, l’aumento di furti e rapine, una criminalità che incalza e talora scalza la società veramente civile.

A cosa crede sia legata questa recrudescenza?
Alla mancanza di valori positivi. Non leggo, in questi atti, la speranza, il sogno, la voglia di una normalità basata su quelli che sono gli elementi moralmente ed effettivamente rilevanti. Non c’è rispetto per il prossimo, messo sotto le scarpe. Non c’è il valore della famiglia, del lavoro. Dell’educazione, della cultura. E, in parte, inutile nasconderlo, è anche responsabilità della politica. È anche responabilità di noi governanti.

Perché non riuscite…
Perché non riusciamo a fare i conti con le esigenze delle persone. O, meglio, capiamo dove bisogna intervenire, decodifichiamo i bisogni dei giovani. Purtroppo, però, patiamo un periodo di forte crisi anche delle istituzioni governative. I tagli perpetuati dal Governo centrale e i ritardi di Bari non ci fanno dormire sonni tranquilli. Anzi, ci portano a dover tagliare risorse piuttosto che investirle.
Senta, in quei “sonni poco tranquilli” che lei dorme, quanto influiscono eventi come l’omicidio di Francesco Cannone?

Io ho vissuto questo nuovo omicidio come un dramma che mi ha provato anche a livello fisico. Come uomo innanzitutto, ma anche come amministratore di tutti. Sento molto il peso di quel che è successo. Perché, qui, non è solo una la vita spezzata, ma tre. Tre giovani che, anche se in modi diversi, sono parte di un copione disperato che stronca l’esistenza. Chi resta, chi si è macchiato dell’omicidio e chi si è reso complice, non avrà più una vita semplice, entrerà in un circuito di disperazione che alimenterà una volta di più lo scoramento collettivo.
Sindaco che cosa serve alla città? Insomma come si fa a venire fuori da quella retorica delle classifiche sulla qualità della vita? Su Foggia città morta ed inospitale per gli stessi foggiani?
Servono azioni forti che riconducano ad una prospettiva di futuro. Ecco, Foggia ha bisogno di smettere di guardarsi indietro, di guardare a tutti i suoi morti ammazzati, alle sue attività chiuse, ai progetti falliti. Foggia deve incominciare a guardare avanti a sé, alzare la testa per scrutare di nuovo dove si annidi la speranza del cambiamento. In questo serve che tutti si attivino. A partire dai cittadini, che devono lavorare indipendentemente dalle istituzioni ma con le istituzioni, in un circuito ampio di collaborazione che riesca a sopperire le mancanze dell’uno e dell’altro. È un piano di aiuto e di sostegno reciproco.

E dov’è la speranza di Foggia?
Nei giovani. A patto che non si lascino irretire da un mondo sempre più volgare e sguaiato, che propaga servilismo a piene mani e che pubblicizza modelli violenti. Foggia è piena di giovani motivati, attivi. Da loro passa il riscatto civile. Penso all’associazionismo giovanile, al Forum dei Giovani che all’interno del Comune ha sempre libero accesso per libera interlocuzione. Penso anche agli Amici della domenica, un’altra associazione intergenerazionale che opera nel concreto e che punta alla riqualificazione di tutta la città. Dagli spazi urbani alla mentalità urbana. Una città più bella è una città più giusta. Penso anche, per esempio, ad eventi fortemente significativi come la manifestazione femminile del 13 febbraio. Tutti insieme, possiamo scuotere Foggia.

Non la spaventa, a proposito di soggetti urbani, il silenzio che è scoppiato in città dopo l’omicidio?
Molto (si arresta e sospira). Fa impressione questo silenzio assordante della società civile foggiana proprio mentre, al contrario, bisogna mettere in campo un’azione collettiva. Dobbiamo, tutti non solo il Sindaco, dire basta. E dire basta significa vivere diversamente, al di fuori di questi schemi violenti. Ma significa anche chiedere a gran voce che ci si muova. Chiesa, Comune, Provincia, scuole, famiglie, stampa, associazioni, politica. Nessuno deve tirarsi fuori.

E ci sono queste condizioni? Lei reputa, cioè, che tutti questi soggetti possano interconnettersi tra loro?
A livello istituzionale non ci sono problemi. Si rema nella stessa direzione. Ed anche i giornali, devo dire, stanno acquisendo un ruolo sempre più centrale nell’indirizzo positivo della società e della socialità. Il giornalismo, la comunicazione, sono una missione che reputo fondamentale per il territorio. E, tranne in rarissimi e sporadici casi, per fortuna c’è occasione di dialogo responsabile.

Lei ha parlato di connessione con scuole, parrocchie, associazioni. Avete pensato ad un tavolo di lavoro?
Non c’è bisogno di tavoli a tutti costi. Certo, siamo a lavoro per organizzare incontri e strutturare interventi che vadano in questo senso. Ma quel che vogliamo soprattutto fare è parlare con i giovani nei circuiti dei giovani. Da quelli formali a quelli informali della socializzazione. Vogliamo dire loro quanto sia deleterio fondare lo stare insieme su alcool e droghe, e abbruttente ed avvilente lo stazionare, fermi, sulle proprie posizioni escludendo gli altri dal confronto. Vogliamo far capire loro quanto sia importante il sogno collettivo e quanto, all’inverso, sia brutto scherzare troppo pericolosamente con la vita. Sa, è tragico, per un Sindaco e per un uomo, sapere che un giovane muoia per una malattia. È tragico sapere che un giovane muoia in un incidente stradale. Ma è inaccettabile sapere che un giovane muoia ucciso da altri due giovani. Dobbiamo fare in modo che non accada più.

Il Ca(valiere) e il Co(lonnello)

Ieri Gheddafi ha chiamato “ratti” i suoi oppositori politici. Ratto, rat, topo. C’è anche qui un terreno di semina in comune con l’amico Silvio. Un terreno in comune composto di due orti.

Il primo: la parola rat. Rat, pantegana, zoccola. Per Gheddafi, le zoccole vanno bombardate e gettate nelle fosse comuni. Per Silvio vanno spogliate e gettate sul lettone di Putin. Che belli che sono, signori. Sono il Berlusconi e il Gheddafi. Il Barbaro ed il Berbero. Sono il Sivio e il Muammar. Il Cavaliere e il Colonnello della politica mondiale. Il sodalizio coloniale del presente. Sono il Ca. e il Co. Il CaCo. Sono il prodotto del didietro della storia.

Per fortuna che il secondo orto è meno triste. Si si. Perchè Silvio sarà anche malato di sesso, ma vivaddio non si pemetterebbe mai di offendere i suoi oppositori politici. Nossignore. Non penserebbe mai che le figlie delle classi medie in crisi dovrebbero sposare i rampanti signorotti dell’entroterra milanese. Non penserebbe mai male di Rosy Bindi, non la giudicherebbe mai solo in base al suo spetto fisico. E’ profondo, lui. Come i pozzi di petrolio della Libia. Già già. Non assocerebbe mai gli elettori democratici del centrosinistra alle parti intime maschili con fare testicolare e machista che no, non è suo uso. Lui. Proprio lui, che da due anni ha una relazione stabile con una donna. Ha una compagna, mica no! Stanno aspettando di convolare a nozze. In attesa della firma dei genitori di lei. Si sa, per i minori occorre ancora il permesso. Maledetti giudici comunisti…

Il Silvio ed il Muammar. Che coppia. Nemmeno Gullit e Van Basten, Gianni e Pinotto, Stallio e Ollio, Cacio e Pere, Carlà e Sarkò, Pecoraro e Scanio. Che classe! Uno, Gheddafi, con le cornici attaccate al vestito, l’altro, Silvio, attaccato alle sottane. Sono Silvio e Muammar, gli amici dello scarascompagno mai. I supereroi per gioco. Due modi identici di leggere il socialismo e di rigirare la frittata.

Che allegri burloni Silvio e Muammar. La combriccola della pillola blu… Ma mi chiedo, chi accetta di fare da schiave a questi due, l’ostetrica di Giolitti? La prima fidanzata di Andreotti? La segretaria di Ottone di Sassonia?

Il Colonnello ed il Cavaliere. Uno fa i barili (di petrolio), l’altro fa gli scaricabarili (con i giudici, con i pm, con il parlamento, con la sua ex moglie, con gli italiani, con l’opinione pubblica). Già sono fatti l’uno per l’altro Gheddi e Berli. Stessa vita, stessi inizi, stessa fine…

Maurizio Crozza – 5 (Ballarò 22 febbraio 2011)

Il Foggia si traveste da corsaro e cannoneggia la barchetta povera del Viareggio

Ivanov 7. Mezzo voto in più per i progressi. A Viareggio, praticamente, si è fatto un bel picnic in un’altrettanto bella giornata di sole. Non è mai chiamato, tranne in un’occasione nel primo tempo, a parate impegnative. Ma monitora con estrema calma l’area e dimostra anche di avere un buon piede. Questa volta nessun infarto a Foggia durante la partita. Work in progress.
Candrina 6.5. Rodaggio difensivo più che superato. In fase offensiva sostiene Farias che è una bellezza. Non sbaglia mai. Avete presente Caccetta? Ecco, è la sua nemesi. Per fortuna.
Regini 7. Questo qui è la chiave dei satanelli. Impazza dappertutto, corre, ci mette cuore, polmoni, classe. Gioca con scioltezza ma con grandissima concentrazione. Capitano coraggioso.
Salamon 7.5. Geometra polacco con una classe grande così. Quando ha, ai suoi lati, giocatori veloci come Laribi e Burrai, gioca tranquillo disegnando parabole magistrali negli spazi che gli si aprono. Il centrocampo del Foggia è questo. Rischia di rompersi la zucca per metter dentro il cuoio del raddoppio. Anema, core e piedi…
Iozzia 6. Non ha molto tempo per esprimersi, ma non dà segni di debolezza (Rigione 7. Una partita di forma e sostanza. È la frontiera dei palloni che i viareggini cercano di contrabbandare nell’area franca foggiana. Ma stavolta, sarà l’aria del Nord, le barriere sono chiuse inesorabilmente. Severo)
Romagnoli 7. È il Thiago Silva della difesa di Zeman. Vedere giocare un difensore in questo modo, dopo le tante pippe incassate nelle giornate trascorse rinfranca il cuore dei tifosi e rassicura gli animi degli scettici. Come Rigione, veste anche lui la divisa da controllore. Ed è altrettanto spietato nel perseguire i fuorilegge di confine. Oltre quelle linea non si passa. C’è lui.
Farias 8. Entra in tre dei quattro gol del Foggia. Serve due assist per il tre e per il quattro a zero. Apre i botti nel primo e nel secondo tempo. Va più volte vicino alla marcatura e non entra in tabellino più per sfiga che per altro. Che dire? Grazie.
Burrai 7. Rapido e deciso. Un filtro che depura il cerchio centrale dalle scorie del pericolo. Sbaglia un paio di appoggi e in un caso rischia di combinarla grossa. Ma è in perenne crescita. Meglio di Kone in questo schieramento a tre. Dona brio e velocità. (Kone 6.5. Entra e segna. Per una volta ha fretta)
Sau 7.5. è appariscente come i due compagni di reparto che spirano come venti impetuosi nelle costole dei cagionevoli viareggini. Ma fa quel che conta. La mette dentro. Con quello di oggi, i suoi gol sono 14. Raggiunto Insigne. L’altra metà della mela. (Agodirin 7. Fucila il portiere su servizio di Farias, un’esecuzione fatale. Meriterebbe legnate per aver tolto un gol a Insigne)
Laribi 8. È in uno stato di forma a dir poco eccezionale. Duetta con Sau e con Farias, suona con Insigne melodie che sono un piacere per le orecchie di tifosi rossoneri. L’unico modo per non lasciarlo scappare è metterlo giù. Sarà uscito con le caviglie martoriate. Si capisce perché lo cerchino tutti. Gioiello.
Insigne 9. Esagerati? Macché. Il ragazzo ne combina di cotte e di crude. Fa impazzire letteralmente difesa e centrocampo del Viareggio. È inarrestabile. Gioca con ogni parte del corpo, sa usare i piedi come pochi altri. Per questa serie non è semplicemente una ricchezza, ma un lusso diamantato. È uno degli attaccanti più forti che abbiano vestito la maglia rossonera negli ultimi 30 anni. Peccato per il gol annullato. Fenomeno.

∞ Centodieci volte Wilde ∞

Centodieci anni dopo, quasi a ribadire il concetto che non è mai tardi per la buona letteratura. Centodieci anni dopo, dunque. Il tempo necessario, in dobloni cronologici, per percorrere le impervie zone della storia per giungere all’oggi dall’anno del Signore 1900. Quello della morte di Oscar Wilde.

Come atto supremo della celebrazione dello scrittore irlandese, la casa editrice Piano B, ha, alla fine dell’anno scorso, dato alle stampe “La disciplina del dandy“. Tre saggi brevi più tre appendici contenenti una rassegna di pillole wildiane.
Una scorsa, ed è come se la patina del tempo non avesse mai intaccato la potenza delle opinioni dello scrittore irlandese. I panorami sono quelli in veloce evoluzione del tardo Ottocento, quando il progresso entrava prepotente sulla scena senza chieder permesso, solo invocando e pretendendo spazio. Scienza, tecnica, fabbrica, lavoro. Socialità dettata dal suono delle sirene. Intimità e relazione ridotte a brandelli, ammassate nell’angolo dell’inutile. Evoluzione della rivoluzione industriale. Involuzione della rivoluzione industriale.
Nel tempo della corsa, Wilde non cessa di ammirare con occhio attento i capitomboli sociali che condizionano l’intero sistema mondo, che alterano l’individuo fino a drenarne il talento, che arrecano danni irreparabili al diritto individuale e collettivo, che picconano l’autonomia. Alla ribalta s’impongono le nuove povertà. Che sono, in fondo, le vecchie povertà inasprite ed incattivite dall’esasperazione del concetto della proprietà privata. È la società degli steccati, dei cancelli dei recinti, quella che “il dandy” racconta.

Dal contesto si astrae. Ed il suo occhio è parte dello sguardo privilegiato di colui il quale ha scelto di non dar conto a quelle barriere indotte. Eccolo criticare amenamente l’american style nascente, esordio di una malattia megalomane poi esplosa a distanza di tre, quattro decenni. Rimbrottare contro “le smisurate dimensioni di ogni cosa” attraverso cui gli Stati Uniti provano “ad intimidirvi, a costringervi a credere nella [loro] forza”. Ammonire quanti cadono nelle reti della fretta, della necessità incombente, nelle fitte maglie della scadenza.

È in questo tempo privo della poesia (“Se Romeo e Giulietta fossero stati continuamente in preda all’ansia […] Shakespeare non avrebbe potuto darci quelle incantevoli scene dal balcone), spogliato miseramente della Fantasia che tutto trasforma al solo evocarla, che l’Arte si svilisce. Si svilisce fino a correre il rischio di smarrirsi compressa sotto il macigno della materialità.

Oscar Wilde esprime imbarazzo, disagio, dolore. Tanto che, quello contenuto in “Impressioni dall’America”, “La decadenza della menzogna” e “L’anima dell’uomo sotto il socialismo”, per chi è in grado di leggerlo al di sotto della posa ironica, è un argentino atto di confessione. Wilde prende di peso pensieri, teorizzazioni, emozioni, parole e le scaglia bellamente nel campo percettivo del lettore. Un gioco ginnico sfrigolante, creato apposta per pungolare e per non soccombere alla stasi della scienza, del definito, dell’immobile. È un urlo alla ribellione, una presa di posizione tanto aperta quanto sincera per mondi all’apparenza contrapposti: per il povero e per l’arte, per lo sfruttato e por l’intellettuale, per l’operaio e per il giovane.
È un Wilde inedito ma non troppo, cha scaglia le convinzioni politiche senza mai nasconderle dietro paraventi di perbenismo. Una lezione dal passato per il presente. E per il futuro.

Oscar Wilde, “La disciplina del dandy”, Piano B 2010

Giudizio: 3.5 / 5 – Dogma