No, non mi avete convinto (con tante scuse a Pietro Ingrao)

No, non mi avete convinto. 

Non mi avete convinto che diventare cattivo in un mondo di cattivi sia la soluzione. Non mi avete convinto che per giocare al ramino della vita i sogni non siano importanti e sia necessaria l’offesa. 

Non mi avete convinto, pubblicitari, teoreti del capitale, asceti del liberismo. Non mi avete convinto a trangugiare con l’imbuto della vostra morale un’immagine plastificata del mondo in cui un diamante è per sempre e l’amore, la speranza, lo sguardo al mare, solo futili vanità.

Non mi avete convinto, materialisti ad oltranza, che la costruzione del presente sia la garanzia di salvaguardia della sanità mentale e le mani allungate al futuro un giochino da Pindaro ammattito. Tenete in mano le vostre squadre, io resto con le mie dita sporche di tempera per colorare il mondo.

Non mi avete convinto nuovi uomini di partito da Seconda Repubblica, che siate meglio dei vecchi. 

Non mi avete convinto, schiavisti e sfruttatori, che la vostra onnipotenza è ciò che muove il mondo, che le vostre teorie siano la ragione dell’oggi. Il suono di una chitarra, il pianto di un figlio, il futuribile, quelli sì, è sono i miei ingranaggi.

Non mi avete convinto, fan delle minoranze, femministe consunte, monoliti dei diritti civili, esperti di settore. Non sono le vostre baracche a muovere il suq della libertà, ma le voci dei tanti senza voce.

Non mi avete convinto rivoluzionari digitali che siate realmente il nostro futuro. Piuttosto, siete il vostro presente, teste basse in treno, digitatori professionisti, amatori del pruriginoso, erotisti di parole in chat, massoni del web.

Non mi avete convinto, politici consumati, democratici incalliti, pedagogisti dell’etica, volpi umane, che si nasce comunisti ma è democristiani che si muore.

Non mi avete convinto, preti, ecclesiasti, avvocati e giudici, che la giustizia alberghi sotto le vostre gonnelle, al riparo dagli occhi indiscreti di chi voglia farla propria. 

Non mi avete convinto bagnanti della costiera emiliana, discotecari riminesi, adolescenti viziati, che siate voi quelli che la vita sappiate berla fino in fondo, che il senso sia nel divertimento, che il superfluo si il necessario.

Non mi avete convinto estremisti dell’egotismo, sostenitori dell’individualismo, che tutto passa per il bene personale e che l’altro sia soltanto una periferia. 

Non mi avete convinto, eroi dell’antimafia, pupazzi dell’editoria, giornalisti strapagati, opinionisti ventenni. Quando si vola si vola in massa. O si sta insieme, a terra, a fare gruppo.

Non mi avete convinto, difensori dell’ordine, uomini in mimetica, filosofi dei galloni, pedagogisti dell’onore e del rispetto della patria, che stiate difendendomi dal male. In tasca porto sempre e ancora le monete di Genova e sulle spalle lo stesso zaino pieno di futuro. 

Non mi avete convinto masturbanti delle bandiere, disegnatori di tricolori, che le patrie abbiano confini, le voci frontiere, i progetti caselli autostradali, i sogni check in aeroportuali.   

Non mi avete convinto medium e cartomanti, venditori di illusioni, starlette della superstizione a caccia di notorietà, potenti in miniatura, che la vita sia il vostro dettato.

Il sorriso della mia donna al mattino, le coppole dei braccianti, la foto di Peppino Di Vittorio, i canti popolari ripetuti in coro, una copia del “Cyrano”, i film di Elio Petri, l’autografo di Sepulveda, una bicicletta con i freni a bacchetta, la voce di Eddie Vedder e quella di Joan Baez. Questo si, mi ha convinto che i miei spazi non siano i vostri spazi, che non siamo uguali perché viviamo sotto lo stesso cielo, che non meritate la mia stessa dignità, che il mio cuscino è più leggero del vostro, il mio sorriso più libero e il mio futuro possibile, vero. E migliore. 

 

Published in: on 5 settembre 2013 at 22.29  Lascia un commento  

Ammucchiata da carcere

66.929 detenuti (64.081 uomini e 2.848 donne) a fronte di una disponibilità reale di posti detentivi pari a 43.879. Tradotto in cifre differenziali, 23.050 carcerati in più rispetto a quanti il sistema italiano ne può contenere in condizioni dignitose. Questo è quanto fotografato, oggi, dall’indagine della Uilpa Penitenziaria. E la Polaroid è tutt’altro che rassicurante. Perché nel primo semestre 2011 (in realtà alcuni dati si riferiscono al 13 luglio, altri al 30 giugno), son stati quantificati dal sindacato 34 suicidi, 532 tentati suicidi (dei quali un paio di centanaia sventati proprio all’ultimo momento dagli organi di polizia carceraria), 2583 autolesioni e 3392 proteste (fra individuali: scioperi della fame, rifiuto del vitto, rifiuto della terapia e collettive: battiture sui muri e contro le sbarre, sciopero del carrello).

PUGLIA – E se il Trentino Alto Adige brilla per efficienza, ancora una volta la Puglia è la capofila del sovraffollamento. Le Case circondariali pugliesi, infatti, fanno registrare una percentuale di affollamento superiore al 79%, con maglia nera per Lecce. Nelle celle del capoluogo salentino sono rinchiuse 1369 persone, a fronte di una capienza stimata a 659 unità. Il che significa che l’indice di sovraffollamento è pari al 107.4%. In positivo, invece, le prigioni di Maglie. nel centro del leccese, sono 13 i detenuti e 21 i posti a disposizioni all’interno delle celle.

FOGGIA E CAPITANATA – Due tentati suicidi, 30 atti di autolesione, 3 aggressioni a danni di agenti della penitenziaria, una manifestazione collettiva e 29 individuali di protesta. Questi i numeri della Casa circondariale del capoluogo dauno. Numeri che non inducono a pensare in bene circa la condizione delle carceri. Foggia, dopo Lecce e Taranto, è non a caso la sede carceraria regionale con il maggior indice di sovraffollamento. 716 sono i detenuti per 371 posti, 345 esuberi ed un sovraffollamento che arriva a toccare il 93%.

Va meglio, ma nemmeno più di tanto, a Lucera. Nelle prigioni del centro preappenninico, le cui porte in passato si aprirono per accogliere dissidenti antifascisti, fra cui Giuseppe Di Vittorio, il tasso di sovraffollamento è al 73.3%. Nella fattispecie, i detenuti sono 234 (i posti detentivi soli 135, per un esubero di 99 unità). Come nel caso del capoluogo, nessun morto in detenzione, ma in un caso c’è stato un carcerato che ha tentato di togliersi la vita. Dietro le sbarre lucerine, inoltre, sono avvenuti due atti di autolesione, un’aggressione ai danni di personale PolPen e tre dimostrazioni individuali di protesta.

Un tentativo di suicidio (non andato a buon fine) e un caso di sollevazione individuale anche a San Severo, dove i numeri dell’assembramento da pigiama a righe sono nettamente minori. La città dei campanili “ospita” 86 carcerati contro i 64 possibili per un’indice di ressa pari al 34.4%.

EUGENIO SARNO – Un grido di aiuto proviene dalla voce del segretario generale della Uil PA penitenziari, Eugenio Sarno. Sarno, in una lunga nota diffusa in tutte le regioni, sottolinea la criticità del sistema carcerario. E, soprattutto, evidenzia come vi siamo lacune in quanto a personale. “L’organico complessivo regionale – scrive – è fissato in 2530 ma ne risultano assegnate 2648 unità (di cui 63 in strutture non penitenziarie, come il Provveditorato e gli Uffici per l’Esecuzione penale esterna (Uepe). Non va certo meglio – continua Sarno – per il personale amministrativo tra cui è opportuno segnalare la carenza di 18 educatori e 4 assistenti sociali'”.

LONIGRO – E le cose non vaglio meglio a livello igienico sanitario. Il consigliere regionale di Sinistra ecologia e Libertà, Pino Lonigro, lunedì ha visitato le carceri foggiane. Il suo responso è la descrizione paesaggistica di un terzo mondo dei diritti umani. “Ho trovato una situazione decisamente peggiorata”, denuncia Lonigro. Nelle prigioni del Capoluogo, infatti, c’è “una situazione igienico-sanitaria al limite della umana sopportazione per la carenza di personale medico e paramedico e per l’assenza di strumentazione sanitaria idonea”. Colpa di un budget ormai ridotto all’osso, che si estingue quando l’anno solare è soltanto a metà, obbligando i direttori a far venir meno servizi e quel poco di confort possibile. “Mi risulta – annuncia Lonigro – che tale budget già all’inizio del mese di luglio è esaurito”.

Il corpo, la politica, la cultura

di Anna Maria Di Miscio
(grazie)

Foggia – I LUOGHI della politica, dei partiti e delle istituzioni, del quotidiano tra le mura domestiche hanno sempre riprodotto la divisione dei ruoli f/m, data per scontata, un dato della natura. È così che il corpo della donna si fa supporto delle iscrizioni della cultura: limitati sono gli spazi del piacere e della sessualità, delle emozioni, delle ambizioni, della gratificazione e realizzazione di un progetto di vita, se non all’interno di ruoli ascritti a vita. I diktat imposti dalla cultura occidentale, patriarcale e sessista, e dunque dal controllo sulla sessualità femminile, hanno rimosso del tutto le emozioni del corpo per le generazioni di donne che ci hanno preceduto.

Le rappresentazioni storiche, culturali e mediatiche del corpo delle donne, di controllo sulla sessualità e delle emozioni, organizzano e strutturano nei mondi della vita quotidiana le modalità del sentire e dell’abitare il corpo: sono una produzione discorsiva, ma sono anche e soprattutto saperi incorporati, perchè di fatto hanno orientato, e orientano ancora, il sentire del corpo, le sue emozioni. Impariamo ad essere corpo, a sentire il nostro stesso corpo, nei processi di socializzazione primaria e secondaria, in famiglia, a scuola, nel gruppo dei pari, e in ogni contemporaneo e successivo processo di apprendimento. Marcel Mauss descrive bene questo processo del tutto artificiale di costruzione del corpo, spiega cos’è il corpo: uno strumento forgiato da tecnologie corporali, da montaggi fisio-psico-sociologici. Abbiamo ovunque nel mondo tecniche del parto, ma in tutte le culture esse sono differenti, così come differenti sono le tecniche del taglio del cordone ombelicale e le cure del neonato.

Tra le tecniche del movimento e del camminare delle donne in Nuova Zelanda da menzionare è il dondolamento delle anche chiamato onioi, che i Maori apprezzano molto. L’andatura delle ragazze francesi è oggetto di una singolare riflessione di Mauss:”Mentre ero degente in un ospedale di New York mi chiedevo dove avessi già visto delle signorine che camminavano come le mie infermiere, mi ricordai che le avevo viste al cinema. Tornato in Francia notai soprattutto a Parigi la frequenza di questa andatura: le ragazze francesi camminavano nello stesso modo, in effetti grazie al cinema il modo di camminare americano cominciava ad arrivare anche da noi”.


Una osservazione rilevante nelle nostre riflessioni critiche su come i media siano canali che amplificano la direzione e la dimensione delle scritture della cultura patriarcale sul corpo delle donne. Tra le molte tecniche del sesso, continua Mauss, possiamo osservare che la sospensione delle gambe all’altezza delle ginocchia, diffusa in tutto il Pacifico, è rara altrove. Più in generale durante l’atto sessuale sono molte e differenti le tecniche per il respiro, per il bacio e così via.

Conclude Mauss: “Da esse risulta che ci troviamo di fronte a montaggi fisio-psico-sociologi di una serie di atti che in ogni società ciascuno deve sapere e imparare“ [407]. L’insieme delle tecnologie corporali rivela dunque la natura non naturale delle tecniche del corpo.

Ancora voglio citare due concetti importanti che mettono bene a fuoco il concetto di corpo come testo, come costrutto culturale. Il primo è il mindful-body, corpo pieno di mente, di Nancy Scheper-Hughes (1987). Il secondo è l’incorporazione, embodiment, dell’antropologo Thomas Csordas (1994).

In un articolo di Nancy Scepher Hughes pubblicato nel 1987, The mindful body, il corpo è definito come costruzione in fieri nell’intreccio tra dinamiche di produzione, riproduzione e reinvenzione culturale; il luogo in cui sono sì sedimentate le pratiche di controllo dei poteri forti sulla sessualità e sulle emozioni, ma anche e soprattutto il corpo è il luogo dell’esperienza, è un corpo-pieno-di-mente, esperienza sensoriale, tattile, visiva, olfattiva.

Il corpo delle donne è dunque – all’interno di una cornice normativa che ha delimita i confini del normale e del deviante, del piacere e della sessualità – una costruzione sociale e politica in cui si intrecciano linguaggi, simboli e assetti sociali, che hanno eradicato, nella storia delle generazioni di donne che ci hanno preceduto, il sentire le emozioni del corpo.

Il secondo concetto-termine che voglio analizzare è embodiment, incorporazione, dell’antropologo Thomas Csordas, che descrive sia un’attitudine del corpo alla incorporazione di tecniche e dispositivi sociali di controllo sul corpo e sulla sessualità, ma anche la resistenza ai dispositivi di controllo dei poteri e dei saperi sul corpo, ai codici comportamentali, ai divieti e alle prescrizioni corporali. Ovvero: il corpo è sia presenza e progetto nel mondo, produzione corporea che oppone resistenza ai divieti della cultura patriarcale e sessista, che sedimentazione dei linguaggi e delle pratiche dei poteri forti sul corpo. Negli interstizi tra acquiescenza e resistenza all’ordine costituito delle biopolitiche sui corpi si fa spazio allora una politica di liberazione possibile del corpo delle donne.

Dunque il corpo è un testo della cultura, un artificio, arte-fatto, che possiamo riscrivere, e così ribaltare i saperi e le culture egemoni del corpo, la divisione dei ruoli di genere nella cultura occidentale, patriarcale e maschilista, la costruzione delle differenze, le modalità dell’abitare un corpo. I codici vestimentali e corporali, dalla body-art al piercing e al tatuaggio, sono esempi di reinvenzione creativa di corpi.

Ma se il corpo è una costruzione politica e culturale allora anche la differenza di genere è un artefatto della cultura. Essere donna non è allora un dato della natura, come viceversa è l’essere femmina. E questo spiega perché l’identità di genere è molto spesso ibrida, transitoria, come nel transgenderismo e nel transessualismo, ma anche nella più normalizzata, borghese e bigotta, identità maschia ed eterosessuale, bianca e occidentale, che tanto più si erige a tutela dei confini rassicuranti del noi, della famiglia patriarcale – l’unico modello di famiglia che abbiamo imparato a riconoscere, dato per scontato – quanto più è minacciata dall’invadente presenza dell’alterità: l’omosessuale, il trans, la lesbica, la donna bianca o di colore.

Così, mi chiedo quale differenza di genere possiamo mai rivendicare? Ci hanno insegnato a “fare le femmine”, come se fosse questo l’unico modello possibile. E come se fosse tra l’altro possibile ridurre a un organo, l’utero, l’identità, di cui mai nessuna donna ha avuto contezza se non al primo dolente mestruo.

E dunque, una politica delle donne, per le donne, che intenda restituire dignità all’altra metà del cielo pari opportunità nei luoghi della politica, dei partiti, del lavoro e nella privatezza della mura domestiche, deve ribaltare secoli di iniquità, disparità, repressione del corpo e della sessualità, con un atto politico di liberazione di tutti i corpi e di tutte le differenze, di sesso e di genere, di status sociale e di ruolo.
Restituendo però alla natura il suo ruolo, perché le differenze di sesso sono un dato della natura, le seconde, quelle di genere, status e ruolo, sono un artificio, un testo della cultura che possiamo riscrivere nelle forma che più aggrada, e con la forza liberante del desiderio.

La costruzione delle differenze di genere, di razza, colore, di status sociale, ha consentito infatti dentro rapporti di potere, di dominio e subordinazione alla struttura sociale di stratificarsi in un certo modo, così se sei femmina, di colore, povera, lesbica e, ciliegina sulla torta, la cicogna ti molla in determinata collocazione geografica, hai accumulato in sol colpo una serie infinita di sventure. Massimo Canevacci così commenta una poesia di Pessoa: “Assumere diverse identità e disvelare attraverso questa opera di auto-nominazione moduli narrativi diversificabili, mai raggruppabili nella sintesi unificata del soggetto”.


In questo e altri testi l’antropologo suggerisce la molteplicità dell’io, non una identità fissa, immutabile, piuttosto l’identità è un processo non riconducibile all’identico, all’identità anagrafica, l’identità plurale è un farsi altro. Una bella sfida alle identità di genere dicotomiche, alle opposizioni binarie delle identità di genere m/f, pensate come luoghi separati, ma attraversate dal soggetto, come di fatto è nelle evidenze dei mondi della vita quotidiana.

A questo punto della storia che vi sto narrando, quella delle identità come attraversamento piuttosto che come dato della natura, chiedo: è mai possibile pensare una politica di genere come portatrice di una differenza politica?

Se la costruzione dell’identità di genere è nulla più che un artificio della cultura occidentale che riproduce la separazione dei ruoli e assegna etichette, categorie – che tuttavia hanno una rilevanza, orientano la nostra percezione, il riconoscimento delle cose del mondo – allora una politica delle donne del tutto aderente alle categorie dicotomiche e ai ruoli cristallizzati di genere della cultura patriarcale, sessista, razzista e omofoba, non può che riprodurre le stesse strutture non equitative in termini di diritti da cui viceversa quella politica intende liberarsi.
Il 9 e il 10 Luglio, a Siena: qualcuna ha sottolineato in primo luogo che la selezione, e dunque la visibilità mediatica, delle primedonne di partito di destra e di sinistra è una scelta di parte della regia del comitato promotore, dunque discutibile, in secondo luogo che il riferimento ad un generica “differenza di genere” è fumoso, che ognuna di noi è portatrice di una peculiare differenza, di peculiari competenze e qualità da valorizzare. E se il movimento delle donne non è questo è ancora una volta il nulla della politica, di quella politica che intendiamo cambiare nella visione e nelle pratiche.

Le mie riflessioni vanno nella stessa direzione: ci accomuna una sofferenza individuale e collettiva ogni volta che la libertà delle donne, perché donne, è circoscritta dentro i confini di un ruolo che ci sta stretto: trastullo per il piacere e le ambizioni del maschio, in famiglia, sul lavoro, nel pubblico e nel privato.

Corpo mutilato, come di fatto è nei paesi dell’africa subsahariana con le mutilazioni dei genitali femminili – o nel dogma della verginità che nella nostra cultura gli fa da eco – affinchè il controllo sulla sessualità, la riproduzione e la discendenza siano espressione del potere e proprietà assoluta del maschio, padrone e signore.

Ma anche abbiamo contezza di donne che della politica hanno incorporato i codici del padre- padrone. Perché il potere, o meglio la potenza, non è né maschio nè femmina, né donna né uomo, è di chi lo possiede e la usa. E molte sono le donne che non si sottraggono al gioco, o meglio al giogo.

La visibilità mediatica a Siena il 9 e 10 Luglio delle primedonne della politica e dei partiti la dice lunga, racconta che i limiti di tempo e di spazio sul palco per alcune sono più uguali che per altre. Come è stato per Rita Saraò per esempio, la più uguale di tutte: neanche il tempo minimo concesso dal regolamento, tre minuti, forse perché, dico forse, è la portavoce del movimento delle donne per la rivoluzione gentile di Nichi Vendola? (Rita Saraò, portavoce del movimento delle donne per la rivoluzione gentile di Nichi Vendola, parte attiva della fabbrica di Nichi di Foggia, ha preso la parola durante la manifestazione di Siena. Le è stata letteralmente strappata dopo neppure i tre minuti canonici, fissati come limite cronologico, ndr)

Allora di quale politica per le donne stiamo parlando? C’è una buona politica che sia femmina e donna ? il partito o la partita? Declinando al femminile diamo una risposta alla domanda di buona politica? La buona politica, le buone pratiche di partito, non hanno, almeno per me, nè sesso né età anagrafica, sono piuttosto costruzione collettiva di uomini e donne, giovani – e diversamente giovani – che hanno un obiettivo comune e condiviso: la progressiva conquista di margini di felicità, il passaggio da un progetto politico e culturale di una società altra, da un processo collettivo di costruzione sociale, alla dimensione concreta del fare le politiche del lavoro e del welfare che restituisca a ciascuno non solo la nuda vita, ma la dimensione dell’esserci nel senso pieno del termine.

L’evento di Siena, e ancor prima il 13 Febbraio, ha rimesso in gioco molte delle istanze del femminismo: la risposta c’è stata, nelle piazze di tutta Italia, nella piazza di Siena. Il “Se non ora quando” ha offerto, ad una riaccesa sensibilità politica delle donne, canali, codici e linguaggi espressivi, rimescolando nuove e meno nuove istanze del Sessantotto e del post Sessantotto. Sulle motivazioni soggettive che hanno animato quelle piazze s’è scritto già molto. Penso che riassumerle tutte sia impresa sovraumana, ma il dato che io voglio rilevare voglio assumerlo nella categoria del risveglio individuale e collettivo. Finalmente!

Ultima riflessione, e concludo, sulla percezione da più parti emerge: ovvero che l’antipolitica serpeggi in qualche modo nel movimento. E qui rammento Rosy Bindi fischiata il10 Luglio a Siena quando sul palco racconta di sé e del suo ruolo di presidente del PD. Non dobbiamo confondere, io ritengo, la differenza tra l’antipolitica, un generico diffuso sentimento di rifiuto alle politica tout court, e la critica più costruttiva alla degenerazione e alla insufficienza delle pratiche politiche nei luoghi e nelle stanze dei palazzi e dei partiti. La prima raccoglie il dissenso ma non lo rielabora, né in una visione alternativa né in una pratica possibile. La seconda dovrebbe sollecitare una critica politica all’insufficienza dei partiti, indurre a riaggiornare la nostra lettura del presente.

La frammentazione del tessuto sociale e la frammentazione dei luoghi di aggregazione sociale e politica è il dato che oggi è più evidente a chi voglia cimentarsi in un’analisi, non dico sociologica, almeno attendibile della realtà sociale. A questa frammentazione mai potrà corrispondere un unico e grande contenitore che accolga in sé ogni possibile differenza, ogni possibile istanza. Comitati, movimenti, associazioni, aggregazioni momentanee, formali e informali, femminili e non, piccoli e grandi partiti – sottolineo non più di massa – che si attivano all’unisono e/o su temi specifici, sono quel popolo che alle amministrative e al referendum ha dato la prima vigorosa spallata al governo centrale.
In questo quadro inevitabilmente non conta il partito di massa, ma la capacità di interpretare le istanze dei corpi e la loro differenza, e incarnare il pathos, la sofferenza sociale, la domanda di un futuro plausibile e compatibile con la dimensione glocalizzata delle politiche, anche e soprattutto la delusione – diciamo pure disperazione – per quel che sono diventati oggi i partiti, spazi di competizione in cui emergono non tanto un’idea plausibile di amministrazione della cosa pubblica, quanto piuttosto – e spesso purtroppo come unica evidenza – particolari ambizioni di questo o quel notabile di partito, trame più o meno manifeste di relazioni particolaristiche a sostegno di progetti individuali di vita e di carriera.

Una politica inclusiva deve passare dalla manifestazione d’intenti alla elaborazione di una possibile via di uscita dal partito come fine piuttosto che, come dovrebbe essere, strumento della politica. Solo allora riaprire la partita, o il partito, avrà senso politico e direzione. E solo allora le passioni politiche di uomini e donne oggi riemerse dal lungo reflusso degli ultimi venti anni avranno nello strumento primo della politica, il partito, un luogo e uno spazio di dicibilità, ma anche e soprattutto di libertà di elaborazione, progettualità ed espressione politica.

Il giornalismo precario che ti stringe una corda in gola

Pierpaolo Faggiano ha dato sfogo a quella vocina insistente che culla e mette in dubbio le esistenze precarie. A 41 anni, un lavoro precario a La Gazzetta del Mezzogiorno, nessuno intorno ad ascoltare la sua vera voce, non quella diffusa a mezzo stampa. Quella che domandava aiuto. Chi lo ha conosciuto, Pierpaolo Faggiano, dice che non avrebbe mai messo in circolo il suo dolore. Uomo d’altra morale nell’Italia delle piazze virtuali e dei flashmob. La sua indignazione la dimostrava con la tenacia e quel sangue che ribolliva di fronte ad una pista da approfondire.

Chi fa questo mestiere lo sa bene. Spesso da queste, dalle piste, dipendono gli umori, le paure, le possibilità. E’ la regola dello Stato precarizzato che ha assorbito anche il giornalismo. C’è da stare al passo con i tempi, battere la concorrenza di internet, dei blog che sbucano ogni giorno dal nulla, delle notizie facebook e dell’informazione h24. L’unica maniera per farlo è ingolosire il lettore. Legarlo indissolubilmente a quell’inchiostro impresso su carta e sottomesso al dazio dell’euro giornaliero. La fine delle piste originali significa la fuoriuscita dal giro.

Nel giornalismo semini sangue e raccogli sempre troppe spine. Un amico di Pierpaolo, attraverso un blog, ricorda delle promesse fatte ad entrambi, delle speranze alimentate e mai mantenute, delle assicurazioni e delle garanzie che mai e poi mai si traducevano in fatti. Tanto sudore ed in cambio la paura costante di poter essere scaricato, da un giorno all’altro, senza un briciolo di ammortizzatore. Perché anche nel mondo poco conosciuto del giornalismo esiste il precariato. Ed è addirittura più ingordo e mefistofelico degli altri. Rode e corrode le esistenze, mangia la privacy, espone ai problemi di tutti. Trasforma il cronista, l’inchiestista, l’opinionista in una macchina da notizie, meglio se rumorose e pruriginose. Soprattutto, non si fa scrupoli a sedurlo ed abbandonarlo, nell’indifferenza generale.

Il giornalista porta soldi agli editori (che, in taluni casi, sono anche direttori). Gli editori banchettano sul corpo del giornalista. Spesso, in compagnia di affaristi, faccendieri, politici e poteri forti da cui la stragrande maggioranza di loro dipendono. Chi non si adegua, chi domanda spiegazioni, chi invoca chiarezza è fuori, senza possibilità di redenzione. E’ fuori se chiede i soldi, è fuori, addirittura additato come dissidente e turbativa interna, quando domanda il riconoscimento per 12-13 ore di lavoro, occhi puntati su uno schermo ed orecchio al telefono peggio che in un call center. Le redazioni, anche quelle più coese, sono covi di conflitti e nicchie di diritti violati. Si è coartati a subire in silenzio la cacciata di un collega troppo sveglio, con l’obbligo stracciato di non parlarne più. Al bando la solidarietà, non ce la si può permettere. Molti campioni di democrazia, molti sostenitori della verità ad ogni costo, al loro interno sono cancerogeni coacervi di diritti negati.

La corda che si è chiusa attorno al collo di Pierpaolo, la lettera in cui ammetteva i problemi lavorativi insieme con non meglio specificate difficoltà personali, hanno stretto in gola tutta questa galassia di dolore. Ridotto ad un gozzo doloroso e lancinante le incognite, i dubbi, i dilemmi di un’esistenza trascorsa nella speranza di un contratto, il riscatto di abbandonare la casa materna e spiccare un volo diverso, con sogni propri, uno stipendio normale se non decente e tempi più umani.

Ora, la processione post mortem di condoglianze sentite e cordogli partecipi, gli abbracci affettuosi alla famiglia ed i ricordi in comune con Pierpaolo (chissà quanto veri, ma chi può smentirlo ormai?), cattureranno l’attenzione in un vortice di tempo che va dalle 24 alle 48 ore.
I vibranti comunicati della politica che “la cosa non si dovrà più ripetere”, le accuse al corpo evanescente del precariato che loro stessi hanno messo a punto, congeniato in concorso di colpa, destre e sinistre, per soggiogare i bovari ignoranti, tenere a bada i giovani brillanti. Prima di emettere nuovi bandi già assegnati ad esperienze orientaleggianti dal sapore fallimentare promosse dal figlio di Tizio o dal nipote di Sempronio, a scapito delle invocazioni d’aiuto delle testate locali indipendenti ed innovative, baluardi della democrazia locale e vere portatrici sane di novità.
E poi, le sfilate dei “colleghi”, dei kapò del giornalettismo che non potranno seguire tutta la funzione per colpa di precedenti impegni presi. Ad un bar.

Infine, allontanamento, dimenticatoio, oblio. Lo spettacolo deve continuare. A piangere Pierpaolo Faggiano, 41 anni, uomo, sarà soltanto la famiglia.

Se questo è un uomo. Scene dall’inferno di un villaggio sconosciuto (Stato Quotidiano, 21giugno 2011)

Gli estintori utilizzati come pali (R.P.)

Borgo Mezzanone – C’è soltanto un buco a rimarcare la distanza fra lecito ed illecito. Lo ha applicato qualcuno dei ragazzi che vivono alle spalle del Cara di Borgo Mezzanone, con una tronchesi, in una rete di metallo. Quel buco ha violato la zona rossa della dignità. È da un anno, ormai, che un centinaio di uomini vivono in una sorta di villaggio arrangiato (non ancora modo, non più Cara) del Borgo più polveroso d’Italia. Sono africani, per la maggior parte sub sahariani. Ma c’è anche qualche palestinese, messo in mezzo dall’Intifada e dalla brutale opera di sterminio di Israele. Tutti uomini. Giunti in Italia con un fardello di pochi stracci ma un carico pesante di sogni. E quelle promesse garantite dalla televisione. Come non credere alla patina luccicante della pubblicità? Come distinguere le battaglie dei precari dagli spot imbelli degli shampoo?

“L’AFRICA E’ MEGLIO DELL’ITALIA” – Rischiare, per loro, vale la pena. A posteriori, certo, qualcuno non lo rifarebbe. Come M.: “L’Africa è meglio dell’Italia”. Sta raccogliendo i soldi per cercare di tornare a casa. Lui, come tanti, ha attraversato il Mediterraneo come una merce. Un sacco di patate che se cade in mare, in fondo, è lo stesso. Altro che affondamenti. La loro vita, qui a Mezzanone, sta andando giù peggio che in un gorgo. Le loro speranze si chiamavano permesso di soggiorno, asilo. In breve, meno di due anni, si sono resi conto che sei fortunato se già riesci a mettere in bocca un tozzo di pane raccattato dopo una mattinata di caritatevoli suppliche per le strade di Foggia.

UNA GIORNATA SENZA PRETESE – Già, Foggia. Gliel’hanno raccontata come fosse Detroit. Ogni mattina, questi uomini si svegliano, varcano il buco nella rete, montano sull’autobus, i più fortunati inforcano le bici e corrono in centro. “Inseguiamo il lavoro”, dice un gambiano. E così la loro vita va avanti da mesi. Visibile eppure invisibile. I nomi che portavano incollati al loro paese, qui, a Borgo Mezzanone, a Foggia, in Puglia, non contano più. Non hanno più un senso. La loro persona violata dal verme dell’oblio. Non hanno documenti per rimanere in Italia. Quelli che hanno sono scaduti. Non vogliono essere clandestini. Hanno tentato il rinnovo. Per loro significa vivere per lo meno con una zavorra meno pesante. Ed invece, l’unica carta che hanno in mano è un foglio di via permanente che soltanto la compiacenza solidale, per fortuna, sterilizza.

IL LAVORO – Lavoro manco a parlarne. La stagione del grano non la conti neppure. Ci sono le trebbiatrici, le braccia meccaniche fanno tutto al posto dell’uomo. Non chiedono contratti o normalizzazioni, le macchine. Le compri una volta e sono a norma per sempre. Quella dei pomodori, poi, si prospetta lunga. Per qualche tempo è stata la croce e delizia dei migranti. Insieme garanzia di qualche spiccio giornaliero e tormento fisico con pochi eguali. Malgrado conoscano la durezza del lavoro, V. ha già parlato con qualche possidente. Da lui sono arrivate soltanto brutte conferme. “Senza documento non mi fanno lavorare”, confessa a Stato. È il solito cane idrofobo che prova a mordicchiarsi la coda spelacchiata. Senza lavoro non esisti, senza esistenza non lavori. Il ciclo in cui si sono auto immessi è tutt’altro che virtuoso. E non se ne vede l’uscita.

IL CAMPO – Tanto più perché la rabbia monta. Alla difficoltà di un lavoro, si aggiunge la percezione dell’orgoglio calpestato ma anche la necessità di mantenere garbo. E, soprattutto, condizioni di vita al limite del terzo mondo. Un ragazzo di poco più di 30 anni (dal Ghana alla Libia, dalla Libia a Lampedusa, infine a Foggia) ci mostra le baracche bianche in cui trascorrono le giornate. Tuguri raccapriccianti e disordinati, residuati delle guerre italiane degli anni Novanta. Da casa a casa, fili di ferro o corda con i panni stesi ad asciugare, lavati sotto le docce umili, in comune per gruppi. I fili della corrente entrano all’interno attraverso i canali di scolo delle acque reflue. Come antenna della tv usano scheletri di ombrelli in disuso. Non c’è acqua. Di fronte alle case, uno stradone in cemento armato rovente sotto il sole della Capitanata che le separa dai cassonetti sempre pieni. Mai una volta, in un anno, l’Amica ha pensato di fare un salto da queste parti. D’altronde, non esiste nessuno, qui. Ed allora si procede ad ardere, un fuoco per evitare che i topi intossichino la vista e si nutrano dei miseri avanzi di percolato. Non serve. I ratti sono abituee del campo. Lo sono i serpenti, lo sono le zecche, lo sono gli insetti. Le zanzare le trovi anche alle quattro di pomeriggio, o alla mattina. Ci sono anche diversi cani che hanno figliato. Piccoli maremmani bianchi si aggirano rincorrendo il pallone con cui i più giovani cercano di rallegrare le giornate. La porta, due estintori piazzati giusto nel pezzo di una piazzola artificiale orrenda, tutta grigia, che i quasi 40° di giugno sbiadisce in una visione ondulante.

Chiamarla vita è un oltraggio. tanto che non lo è. Basta chiedere in giro, anche nei palazzi del potere. Tranne qualche associazione di cuore, nessuno è a conoscenza di questa parte di mondo. E molti sono convinti che le espulsioni siano provvedimenti che aiutino i migranti a ritrovare un senso nel loro paese, a star bene, a ricominciare. Per spronarli a ricostruire quello che decenni di capitalismo predatorio e bellico hanno devastato.

“Ci stanno uccidendo silenziosamente”. Parla Bolognetti

Foggia – MAURIZIO Bolognetti, Direzione Nazionale di Radicali Italiani, al telefono, è un fiume in piena: “Se presenti una denuncia per porre un freno al disastro ambientale e finisci per essere accusato di procurato allarme, significa che qualcosa non va come dovrebbe andare”. E, soprattutto, che in ballo ci sono una miriadi d’interessi. Sulla questione dell’inceneritore Fenice, di cui Stato Quotidiano si sta occupando, poi, ce ne sono di sfaccettati. Il Vulture melfese è ridotto ad un agglomerato di polveri sottili e metalli pesanti, gettati nell’aria, senza parsimonia, non solo dai 200 camini della Fiat, ma anche da quelli di Fenice. Impatto che diventa devastante se, in aggiunta, ci si aggiunge l’inquinamento della falda sottostante che finisce dritta dritta nell’Ofanto.

Non allusioni scortesi, ma dati di fatto, comprovati, sin dal 2006, da Arpa Basilicata, Crob di Rionero e dal Ministero della Salute (attraverso il rapporto Ispra 2009). L’esponente radicale (che sta per editare, per conto della Reality book, il testo “La peste italiana: il caso Lucania. Dossier sui veleni ambientali e politici che stanno uccidendo la Basilicata”) è uno dei più grandi conoscitori della situazione delle acque lucane. Dagli invasi del Pertusillo e di Camastra, fino, appunto, allo sversamento di sostanze tossiche nei fiumi. La questione di Fenice lo indigna con profondo disprezzo. Di quell’indignazione che non è aleatoria, ma si fonda sulle stime ed i dati. Quelli che ci sono e quelli che, per negligenza e per mistero cinico, non ci sono, scomparsi tra i fumi del tempo, inabissati nella fanghiglia tossica.

Partiamo dal marzo 2009, Bolognetti. Ovvero, da quando il caso Fenice deflagra come una bomba piena di chiodi…
.. e la Procura di Melfi, finalmente, apre un fascicolo. A proposito, quell’inchiesta non si sa a che punto sia giunta, quali sono le conclusioni. E’ finita a Potenza. Ma, anche lì, è nascosta. Tornando al marzo del 2009, alla pubblicazione dei primi dati Arpa. E’ curioso che si sia atteso tanto. Ormai è appurato che, sin da due anni prima, ovvero dal 2007, Vincenzo Sigillito, direttore dell’Arpa Basilicata, sapeva dell’inquinamento della falda. Sapeva lui, sapevano tutti nell’Ufficio. E non hanno pensato, guardi un po’ di avvertire il sindaco di Melfi che è la massima autorità in questi casi…

Scusi, vien da sé che sapeva anche la Regione Basilicata. E la Provincia di Potenza…
Gli unici a non sapere, si fidi, eravamo noi cittadini. Ci stavano uccidendo in silenzio, senza dirci nulla. Ha presente il gas metano, di cui non ti accorgi fintanto che le esalazioni non ti ammazzano? Ecco, esattamente in questo modo.

Sa di chi sono queste parole: “Già da marzo 2008 eravamo a conoscenza dei livelli preoccupanti di mercurio nella falda, ma non spettava al nostro ente lanciare l’allarme”?
Bruno Bove, coordinatore provinciale Arpab, pronunciate addirittura in televisione. Basterebbe questo, da solo, a chiudere la questione. Ma le aggiungo un altro elemento. Nel novembre di quello stesso anno, pur sapendo dell’azione deleteria di Fenice, come si deduce dalle affermazioni di uno dei maggiori responsabili di Arpa, il direttore Sigillito, ed una delegazione della società di gestione dell’inceneritore hanno tenuto un incontro pubblico. Durante quell’incontro, Sigillito, superiore di Bove disse che l’inceneritore di Melfi era, e cito, “una risorsa estremamente positiva”.

L'area della Fenice; in rosso, i pozzi di emungimento (googlemaps)

Una presa di posizione, insomma…
No, fa molto di più. In quell’occasione afferma che l’incontro serve per sancire un “rapporto di collaborazione” fra di loro. Insomma, un organo di controllo sa che il suo interlocutore sta uccidendo ciò che a lui spetterebbe monitorare e come risolve? Scendendo a patti.

Perché la politica ha lasciato fare?
Perché? Qui in Basilicata tutti sanno che Bove è uomo di fiducia dell’attuale Presidente del Consiglio Regionale, Vincenzo Folino, piddino di ferro. E poi, insieme alla Campania, la Basilicata è una delle realtà in cui la politica ha un’incidenza fortissima sulle scelte. Veicola tutto. Tutto passa per la politica. E’ tutto lottizzato, compreso l’Arpa, dove anche i cessi sono lottizzati.

Quindi, lei dice, ci sono delle coperture forti che non possono essere rimosse. E smascherare il pesce piccolo significherebbe la brutta figura, se non la il tracollo politico, del pesce grande…
Esatto. Il fatto è che la politica, e quando dico politica dico i partiti politici, devono entrare nell’ottica di abbandono delle lottizzazioni. Si fa un gran parlare delle grandi aziende pubbliche. Prenda la Rai. Ma anche gli Uffici, i presidi del territorio devono essere tolti dal controllo degli artigli della politica. Che si creino delle strutture nuove, che si possano arricchire con elementi forti e preparati che entrano con rigorose selezioni, curriculum alla mano.

Sa che vuol dire, si?
Certo, che bisognerebbe iniziare a depurare innanzitutto i vertici. Chi sceglie i controllori.

Converrà che, ad un certo punto, la politica s’arresta. Insomma, i controlli sanitari, le Asl, i medici? E’ attraverso il monitoraggio dell’incidenza dell’inceneritore che può essere fatto passare il messaggio. Ma le ultime stime, pure molto negative, riguardano solo i tumori e sono datate 2006. Fonte: Crob di Rionero. Non crede ci sia un ritardo?
Io ho una mia opinione personale. Alle storie del Crob ci credo fino ad un certo punto. Anche lì ci sono interessi specifici. Altrimenti perchè non sono stati più diffusi altri dati? Piuttosto sento parlare medici di base, medici di famiglia normalissimi, che vivono ogni giorno a contatto con la gente. Non mi serve il Crob o l’Asb per sapere quello che loro mi dicono in continuazione. Ovvero, che la gente si sta ammalando. La gente del Vulture sta morendo. Popolazioni intere contraggono tumori ma non solo. la contaminazione dei metalli pesanti porta ripercussioni a livello cardio vascolare, infiammazioni degli organi, allergie. Mi chiedo: ma la Fenice, l’Arpa, la Provincia, la Procura di Melfi e quella di Potenza, la politica, queste cose le sanno? E se le sanno, come le sanno, non gl’interessa nulla?

Ci sono comitati di cittadini molto attivi. Non crede che potrebbero, ad esempio, fare una sottoscrizione popolare per finanziare un’analisi delle acque dell’Ofanto, della terra, dell’aria? Basterebbe poco.
Potrebbe essere una strada percorribile. Ma, ripeto, spetta al pubblico monitorare, non solo ai cittadini.

C’è chi parla di contaminazione dei prodotti. L’acque dell’Ofanto irriga campi di tre regioni e diverse province di queste tre regioni. Ma nessuno vuole parlare…
Ma perché c’è una cappa asfissiante. Io non so che cosa si celi esattamente dietro il concetto di mafia. Quel che so, però, è che qui, in Basilicata, dal Vulture alla Val D’Agri, c’è. Trovare gente che si vuole esporre in prima persona, rischiando anche di mandare a monte i sacrifici di una vita, non è facile. Vigono le dinamiche di paese. C’è tanta ammuina (rumorosità, ndr) virtuale. Dietro le tastiere tutti si sentono forti ed urlano indignazione. Poi, tranne quei pochi veramente attivi, c’è ben poco.

Ma le associazioni di categoria? La Cia dovrebbe…
La Cia? Macché

Fenice guadagna sull’immondizia. In Basilicata fa guadagno anche sulla loro pelle…
Certo. Pensi, nel primo trimestre 2011 Edf ha fatturato 19 miliardi di euro. Parliamo di miliardi, una montagna di soldi. Nessuno, ad esempio, si è mai chiesto come mai, un giocattolo così costoso, sia stato dato in gestione ad una srl (Fenice srl, ndr) che, come capitale sociale, non ha che 50 mila euro.

Per rischiare meno?
No, per rischiare zero

Che cosa chiede Bolognetti?
Non lo chiede solo Bolognetti, ma la collettività: bisogna rendere pubbliche tutte le informazioni possibili. In maniera precisa e puntuale, affidando i controlli ad un organo di vera garanzia. Quelle sull’immondizia. E’ giusto o non è giusto che il cittadino sappia che fine faccia la sua raccolta differenziata? E’ giusto o non è giusto che il cittadino sappia dove e come venga smaltito il suo R.S.U e come i rifiuti speciali? E poi le informazioni ambientali. La falda è inquinata. perché? Di chi è la responsabilità? Chi non ha controllato? Tutto. Serve una battaglia di trasparenza.

I rifiuti di fenice, per anni, hanno bruciato più del consentito…
Si, è vero. E, dopo averlo fatto, hanno chiesto l’ampliamento della capacità di uno dei due forni a loro disposizione. Il risultato è che abbiamo un tasso di mercurio nelle acque 140 volte superiore rispetto al consentito.

Ma non è tardi per muoversi?
In verità le dico che sì, forse molto è stato compromesso irrimediabilmente: la salute dell’ambiente e delle persone di certo.

FOCUS – L’inchiesta di Stato

Due ruote che non ruotano. Le bici verdi della Provincia di Foggia che scompaiono…

Le bici verdi a Palazzo Dogana (St)

Foggia – SONO mestamente ferme. Perlomeno, e siamo buoni, da qualche mesata buona. L’inverno, la scarsa voglia di ciclare, la poca educazione civica, la riduzione alla mobilità automobilistica, motori a fungere da colonna sonora e tubi di scappamento come Arbre Magic. Fragranza: grigio di città. La Provincia di Foggia le aveva battezzate, a suo tempo, biciclette verdi. Nel senso di: buone con e per l’ambiente. E del colore della speranza erano finanche state tinte. Quasi volessero svettare sulla metallizzazione scialba delle automobili da grande industria. Una metafora silenziosa e frullante.

Il progetto prende avvio nel novembre dell’anno scorso. L’Ufficio Ambiente, sollecitato con una certa pressione da alcune associazioni ambientaliste, decide che è giunto il momento di fare un salto un avanti. Il bike sharing viene considerato un passo troppo più lungo della gamba. Il timore è che i velocipedi possano essere rubati alla comunità, le rastrelliere danneggiate o vandalizzate, quando non del tutto asportate. Sono i limiti di una cittadinanza in regressione, resa oblunga dalle mani del tempo. Così, Palazzo Dogana, poi Viale Telesforo, decide di partire dall’alto, dai vertici. Chiaro come la luce del giorno l’intento pedagogico, la volontà di fungere da monito, da grimaldello per scardinare le cattive condotte e le altrettanto pessime pratiche di un contesto urbano che utilizza petrolio anche per le poche centinaia di metri. Onde poi percorrerne il doppio alla ricerca dei parcheggi.

Si parte dall’alto, quindi. E la provincia acquista 375 biciclette. (63 euro per ogni bicicletta). La loro destinazione finale sono i luoghi pubblici. In primis, quelli direttamente collegati con l’Ente. Ovvero, gli stessi uffici interni di entrambe le sedi e le scuole superiori. Passano pochi giorni e ad ogni scuola della Capitanata vengono destinate 2 biciclette. Che, nella maggior parte dei casi sono imbucate in chissà quale anfratto e, comunque, non utilizzate. Ma il monitoraggio latita, l’Ufficio preposto non ha mai controllato come fossero impiegati quegli strumenti (va da sé, sovvenzionati dalla collettività). Di conseguenza, non ha mai pensato ad un loro riutilizzo. Giovanni Dattoli, numero uno dell’ufficio ambiente, glissa cupo: “Ci penseremo”. Ma, ai fatti, la Provincia non sa che farne. Conferma che “l’idea del bike sharing sarebbe ottima” ma che, al momento “non ci sono abbastanza garanzie”.

Meglio, quindi, iniziare a distribuirle qui e lì, in giro per la Capitanata, a chi dimostra di poterne e di saperne fare un uso se non saggio, per lo meno non deleterio. Dattoli rivela a Stato di aver consegnato velocipedi al Nucleo Carabinieri in Pensione di Trinitapoli (una cosa da ridere, se si pensa che, il paese, ha cambiato provincia di pertinenza), alla sede manfredoniana di Legambiente ed alla Biblioteca Provinciale di Foggia. “A cui – aggiunge – abbiamo donato anche una rastrelliera”. Il dirigente, inoltre, ridimensiona anche i numeri. Le bici, in tutto, sono 375, 320 delle quali distribuite. E non oltre 400 come inizialmente rivelato.

Dattoli, poi, stima: “Dall’Ufficio Ambiente, ogni giorno escono per la città cinque biciclette”. Si tratta di impiegati che svolgono le mansioni di servizio. I foggiani la utilizzano, pare, anche per tornare a casa. Per quel che attiene lui, confessa candidamente di “non essere capace di andare in bici”. Poi cita un solo assessore che ha fatto richiesta di avere il mezzo: Billa Consiglio. Ci siamo appostati nel chiostro di Palazzo Dogana per una mattinata intera, senza tuttavia poter dare conferma di questo dato. Le bici in dotazione della sede provinciale, che dovrebbero essere 30, stando alle ammissioni di Dattoli, in verità non sono che 9. La maggior parte hanno ancora la plastica sul sellino. Chiaro ed incontrovertibile segno di inutilizzo. Una parte di queste, fino ad un paio di settimane fa, era relegata lontana dagli occhi, giusto di fronte ai bagni del piano terra. Non ci sono più. Ed allora, che fine hanno fatto? E le altre? Nessuno lo sa. Chiediamo in giro, al personale, agli impiegati. Nessuno ammette di averle usate mai e nessuno è a conoscenza del loro numero esatto. A quanto pare, neppure Dattoli.

LINK: http://www.statoquotidiano.it/25/05/2011/le-biciclette-verdi-che-la-provincia-non-sa-come-usare/49338/

In bici, da Pergine a Torino, passando per Foggia

FRATELLI di ruota, la bici s’è desta. Anche a Foggia l’odore del fumo propagato nell’aria dalle 150 candeline spente da Madama l’Italia, giunge sottoforma di iniziativa. Frullando dal Piemonte savoiardo alla Sicilia borbonica, infatti, toccherà anche il capoluogo dauno “150° Unità d’Italia in bici”. Una maniera assolutamente originale di celebrare il Bel Paese e che presuppone uno stravolgimento della prospettiva e dei tempi. Non più e non già attraverso uno smunto ed impolverato finestrino, il collo coartato a movimenti tortuosi ed innaturali soltanto per trovarsi circondato della cromia dei semafori e dell’asfissia dei palazzoni; bensì, il ritmo naturalmente rallentato della bicicletta, la percorrenza umanizzata, alla mercé della manipolazione dell’essere vivente.

In tutto, 2223 chilometri, 18 tappe, 22 città intermedie. Alle spalle dei cinque “puerperi” del progetto e suoi muscolari esecutori, Claudio Imoscopi, Luciano Margoni, Adriano Moser, Dante Riccamboni e Giuseppe Broilo, un furgone d’appoggio che, a testa, guideranno. Partenza, il 26 maggio, da Pergine, centro principale della Valsugana trentina. E poi Sacile, Taglio di Po, Riccione, Tolentino, Ortona, Foggia, Matera, Altomonte, Sapri, Napoli. Lo sbarco a Palermo, l’immancabile Marsala, il trasbordo a Cagliari, il ritorno a Civitavecchia per raggiungere Roma e proseguire lungo il Tirreno con destinazione Orvieto, Viareggio, Chiavari, Voghera e, l’11 giugno, chiudere a Torino.

L’iniziativa, nata col patrocinio del Comune di Pergine, della presidenza del Consiglio della Provincia di Trento e della Regione Trentino Alto Adige e dell’Apt Valsugana, intende, come rendono noto gli organizzatori, ‘testimoniare un messaggio d’identità e unità nazionale’. Consegneranno a tutte le Amministrazioni delle tappe ‘ospitanti’ un quadro con sfondo tricolore, sormontato da una bicicletta affiancato dai due simboli di Pergine: il municipio e il Castello.

LINK: http://www.statoquotidiano.it/24/05/2011/in-bici-da-pergine-a-torino-passando-per-foggia/49301/

Festa dei lavoratori (non della vendemmia)

Foggia piange Paolo Borsellino

A sinistra, Marcello Sciagura (Aico), a destra Salvatore Borsellino (St)

Foggia – IN alto il quadernetto. Rosso. Come l’agenda scomparsa di Paolo. Più in basso, nel cuore, la forza di una verità troncata, arrestata di fronte alla diga erta dall’esercito di castori romani con sede nei palazzi del potere. Salvatore Borsellino si scioglie così nell’abbraccio di Foggia, con la semplicità di un gesto che chissà quante volte avrà ripetuto. E chissà in quante altre biblioteche, centri sociali, circoli aggregativi, scuole. Si scioglie al culmine di una testimonianza sentita, emozionale. Di cuore in alcuni tratti, di stomaco in altri. Tutta la rabbia dei ricordi concentrata in meno di un’ora di monologo a tinte fortissime.

“SIAMO MORTI CHE CAMMINANO”. “23 maggio – 19 luglio 1992. Stragi di stato. Misteri da svelare” nasce con questa intenzione, per volontà di Aico ed Acli; più che un semplice convegno. Piuttosto, un contenitore di storia, di verità, di giustizia. Come una testimonianza, come una goccia, l’ennesima, ad erodere il muro di silente indifferenza che ruota attorno ad uno dei periodi peggiori, forse il peggiore, di certo il più oscuro, della Prima Repubblica Italiana. La Dc, i servizi deviati, le bombe, la trattativa Stato-mafia, Totò Riina, Binnu Provenzano, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Nicola Mancino e Luciano Violante. Soprattutto, l’omertà, le verginità ricostituite alla luce dell’antimafia di professione. E quella frase di Borsellino, Paolo, non Salvatore, quell’intervista in cui, con un principio di lacrime ad offuscare lo sguardo speranzoso, il magistrato sussurrava, riferito a se stesso: “Convinciamoci che siamo cadaveri che camminano”.

CINQUE ANNI DI MEMORIA. Il testamento morale. Quello che, come in una staffetta, è passato nelle mani di suo fratello. Per cinque anni, dopo l’omicidio del giudice palermitano, Salvatore Borsellino ha infilato le sue parole sotto i cuscini dei potenti, nelle pieghe dei giovani, negli anfratti della società. In ogni parte d’Italia, ovunque lo chiamassero. Un lustro che, oggi, ricorda paradossalmente con una certa nostalgia come il momento in cui ha sentito la verità in procinto di emergere. Chiara, limpida, argentina. Lì, schiantata nella rabbia della gente. Racconta, Salvatore, che “dopo la morte di Paolo sono andato in giro per dare a Paolo la voce che Paolo non aveva più”. Ed in quella missione, nell’indignazione di una Palermo che esponeva lenzuoli per urlare un disperato bisogno di antimafia, trovare un senso nuovo. Soprattutto, “la speranza che stesse per realizzarsi il sogno di mio fratello”. E che “si stesse realizzando proprio grazie alla sua morte”.

LA MORTE. Il fratello del giudice parla di morte con la naturalezza con cui si parla del pane, dell’acqua, di una giornata di pioggia in autunno. 18 anni dopo è normale che, sulle corde vocali, si sia creata una specie di callo che allevia il dolore. Anzi, Salvatore Borsellino reinterpreta la morte, la rilegge come un punto finale. Inchioda l’uditorio alla sorpresa ed all’impegno quando, da fedele, dice che “ringraziai Dio per la morte di Paolo se la sua morte avesse voluto significare la sconfitta definitiva del sistema mafioso”. Perché, in fondo, “mio fratello avrebbe certamente dato la vita per questo fine”.

LE LACRIME BAGNANO ANCORA VIA D’AMELIO Sul viso di qualcuno iniziano a scendere anche delle lacrime. La ferita aperta dal Semtex in Via D’Amelio è tutt’altro che rimarginata. Su un maxischermo scorrono le immagini di quel giorno che è stato il vero spartitraffico della Storia recente dello Stivale inzaccherato di sangue. L’asfalto sventrato, le carcasse di Fiat anni Ottanta bruciacchiate, vetri distrutti, muri arrossati dalla vita che fugge dal corpo. Scorrono le immagini di quella che, ringhia a muso duro Borsellino, “è non solo strage di mafia, ma strage di Stato”. Poi prende a sgranare il Rosario che non redime il peccato di silenzio colpevole delle istituzioni. Sono solo nomi: “Piazza della Loggia, l’Italicus, il rapido 904, la Stazione di Bologna”. Ma dietro ci sono storie strane ed inquietanti, connessioni evidenti e non solo menate di giornalisti d’inchiesta o comitati di familiari delle vittime. E fustiga vecchi e nuovi protagonisti di quel teatrino degli orrori che l’indecenza si limita a chiamare, con estremo sforzo di cordialità e formalità, politica. In primis chi, da quella stagione delle stragi, ha approfittato del vuoto politico: Silvio Berlusconi: “Il nostro Presidente del Consiglio – si meraviglio Borsellino – ha detto che ci sono Procure che sperperano i soldi pubblici per vecchie storie. Ma le lacrime non si sono ancora asciugate sul selciato di Via D’Amelio”.

LA DELUSIONE. Sforna delusione, Salvatore. In questi anni, il dolore l’ha segnato. Dopo il quinquennio 1992 al 1997, ha trascorso dieci anni in silenzio. Lontano dalle testimonianze, lontano dalla gente, muto ed assente, scorato e “senza speranza”. Lacerato dalla voglia di verità e impietrito dall’impotenza del cittadino semplice. Ricorda i tempi in cui la mafia veniva negata, quel frangente in cui la Chiesa la considerava “un’invenzione dei rossi per mortificare la nostra bella Sicilia” e Vito Ciancimino praticava una sorta di trading collettivo di convincimento finalizzato ad inculcare ad una comunità intera la falsità della propaganda giustizialista. E constata che quei tempi sono anche oggi. Nelle negazioni del sindaco di Milano Letizia Moratti, nel furore di Roberto Formigoni che inveisce contro Vendola che rinfaccia la presenza della ‘ndrangheta negli appalti meneghini, nei Prefetti che storcono la bocca e girano il capo dalla parte opposta. Parla espressamente di “quattro regioni (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia) che sono state sacrificate dalla Nazione alla mafia per tramutarle in un bacino elettorale sicuro, da sfruttare per governare altrove”.

L’AGENDA. Soprattutto, torna sulla questione dell’agenda di suo fratello Paolo. Quella che ha dato il nome ad un movimento popolare profondamente opposto al sistema criminale e mafioso. Quella che, per usare le parole di Gioacchino Genchi, è “la scatola nera della seconda Repubblica” e che, rincara la dose Borsellino, “è nelle mani di qualcuno ancora adesso”. Qualcuno che “la utilizza come strumento di ricatto politico incrociato”. Come una “minaccia”, una pistola alla tempia, una garanzia d’impunità. Come la carta del Monopoli: “Esci gratis di prigione”. Solo che, in questa sporca storia di fine millennio, ci sono tante bare e poche sbarre.

Link: Stato Quotidiano