Piazza Padre Pio, piazza alcoolica, tappeto di bottiglie

Rotola... (ph: Piero Ferrante)

Foggia – IL CHIOSCO che vende birre e superalcolici in tempo estivo, la domenica, è chiuso. Sconta i bagordi del solito sabato all’insegna dell’ebbrezza alcolica. Quel che resta dei giardinetti di Piazza Padre Pio, come ogni dannata domenica mattina, è un tappeto di inciviltà, aggravato da una calura che spaesa. La notte, rombano le moto fino all’alba. Il loro ritrovo è qui, in questo largo spazio che si apre fra stradoni e palazzoni. La vita notturna incomincia molto tardi, non prima di mezzanotte. La birra scorre a fiumi e le urla sono il minimo che ci si possa aspettare. Qualcuno pretende di vederne il gusto della libertà, il sapore della democrazia, il frutto del proibito sbocciato nel cemento. I residenti non hanno lo stesso point of view. Qualcuno ha confermato a Stato di essere pronto a presentare degli esposti in Procura. “Il tempo di rimpinguare l’archivio delle foto”.

“MEGAFONO CARTACEO” – In effetti, basterebbero le immagini del mattino per lasciar dedurre quel che accade a notte fonda. Il chiosco ha tentato di far la voce grossa con un amplificatore modesto: un cartello bianco con su scritto a pennarello “Si prega di utilizzare gli appositi contenitori”. Già con il sole il picco, a mattina inoltrata, coperto com’è dall’ombra e dalle fronte, facciamo fatica ad identificarlo. Lo troviamo perché ce lo hanno segnalato. Altrimenti, farci caso è impossibile. Figurarsi con i fumi della sbornia e la voglia di sfasciare il mondo a suon di Keglevich e Jack Daniels. C’è chi pensa sia un passo avanti. Ma c’è chi proprio a voltare occhi e naso altrove non ce la fa.

Quando si dice uno spazio accogliente... (PF, St)

BIMBETTI – La zona è sommersa da centinaia di bottiglie. Verde, arancio, marrone, avorio. Plastica e vetro, indifferenziatamente. E’ rischioso camminarci con scarpe aperte. Molte bottiglie, scaraventate in aria, sono planate in terra sottoforma di frammenti. Eppure qualche indomito ragazzino ha il coraggio di giocarci a pallone. Due bimbetti, uno con la maglietta del Milan ed uno a torso nudo, usano le bottiglie come pali delle rispettive porte. Ma l’audacia è di pochi. Per questo, per la maggior parte, resta tutto com’è. I capannelli domenicali degli anziani in bicicletta che discutono di politica e giocano a tressette sono sempre più rari. Giugno, luglio ed agosto sono date off limits, meglio rimanere in casa.

DIVANO IN FIAMME – Nei pressi di un cassonetto, qualcuno ha addirittura tentato di incenerire un divano. Uno dei braccioli, quello di destra, è arso, un buco nero scavato dal calore delle fiamme. Una delle poltrone in pandane è riposta giusto nel centro della più fiorita delle aiuole. Non è opera di barbone, ma congettura di mente annebbiata. A pochi metri, una coppia di ragazzi prova a leggere una rivista. Lui si guarda in giro: la loro panchina è come le altre, un fortino circondato da un muro di cristalli.

Marcellino tanto vino (Pf, St)

MARCELLINO W IL VINO – I sentieri in pietra grigia, qualcuno in salita, altri pianeggianti, sono cosparsi di ricordi notturni. Nell’aria, l’appiccicaticcio odore di cicche spente e alcolico scadente. Ci sono chiazze di vomito negli angoli appartati, cartacce e sigarette spente che nuotano come corpi inermi nella tonda fontana color del fango. E’ incoronata di buste ed altre bottiglie. Sono a gruppi di venti, di trenta, l’avvolgono come uno scialle. Eserciti adesso brillanti che per tutta la notte si sono insinuati nelle campane verdi e poi nei cassonetti del conferimento della plastica, nei pertugi delle fognature sottostanti i marciapiedi, nei cartoni abbandonati. Tre bottiglie trasparenti sono ai piedi di uno dei bambini oranti del monumento dedicato al frate di Pietralcina e regalano un quadretto insolito, ghignante e leggermente blasfemo. L’apparenza è di un Marcellino (poco) pane e tantissimo vino che rende grazie all’Onnipotente per il dono della fermentazione alcoolica.

“INCENERIAMO LORO” – Per testare lo stato d’animo, proviamo a tendere l’orecchio ai discorsi dei passanti più indignati, con la scusa di prendere nota di altro. Le vecchiette ancora calde della benedizione incolpano i giovani, le coppie maledicono i commercianti, i ciclisti si fermano, accostano e scattano foto con il cellulare polemizzando a distanza con l’ordinanza comunale appena confermata (entra in circolo sociale ad ogni momento festivo, l’ultima volta durante le vacanze natalizie) che consente ai locali pubblici di tener su la serranda fino alle tre, e poi arriva quello con la soluzione pronta circa l’incenerimento dei teppisti per evitare quello della spazzatura che tanto è uguale. Lo sentisse la Marcegaglia, forse il progettino lo tirerebbe anche giù in un paio di mesi.

Se questo è un uomo. Scene dall’inferno di un villaggio sconosciuto (Stato Quotidiano, 21giugno 2011)

Gli estintori utilizzati come pali (R.P.)

Borgo Mezzanone – C’è soltanto un buco a rimarcare la distanza fra lecito ed illecito. Lo ha applicato qualcuno dei ragazzi che vivono alle spalle del Cara di Borgo Mezzanone, con una tronchesi, in una rete di metallo. Quel buco ha violato la zona rossa della dignità. È da un anno, ormai, che un centinaio di uomini vivono in una sorta di villaggio arrangiato (non ancora modo, non più Cara) del Borgo più polveroso d’Italia. Sono africani, per la maggior parte sub sahariani. Ma c’è anche qualche palestinese, messo in mezzo dall’Intifada e dalla brutale opera di sterminio di Israele. Tutti uomini. Giunti in Italia con un fardello di pochi stracci ma un carico pesante di sogni. E quelle promesse garantite dalla televisione. Come non credere alla patina luccicante della pubblicità? Come distinguere le battaglie dei precari dagli spot imbelli degli shampoo?

“L’AFRICA E’ MEGLIO DELL’ITALIA” – Rischiare, per loro, vale la pena. A posteriori, certo, qualcuno non lo rifarebbe. Come M.: “L’Africa è meglio dell’Italia”. Sta raccogliendo i soldi per cercare di tornare a casa. Lui, come tanti, ha attraversato il Mediterraneo come una merce. Un sacco di patate che se cade in mare, in fondo, è lo stesso. Altro che affondamenti. La loro vita, qui a Mezzanone, sta andando giù peggio che in un gorgo. Le loro speranze si chiamavano permesso di soggiorno, asilo. In breve, meno di due anni, si sono resi conto che sei fortunato se già riesci a mettere in bocca un tozzo di pane raccattato dopo una mattinata di caritatevoli suppliche per le strade di Foggia.

UNA GIORNATA SENZA PRETESE – Già, Foggia. Gliel’hanno raccontata come fosse Detroit. Ogni mattina, questi uomini si svegliano, varcano il buco nella rete, montano sull’autobus, i più fortunati inforcano le bici e corrono in centro. “Inseguiamo il lavoro”, dice un gambiano. E così la loro vita va avanti da mesi. Visibile eppure invisibile. I nomi che portavano incollati al loro paese, qui, a Borgo Mezzanone, a Foggia, in Puglia, non contano più. Non hanno più un senso. La loro persona violata dal verme dell’oblio. Non hanno documenti per rimanere in Italia. Quelli che hanno sono scaduti. Non vogliono essere clandestini. Hanno tentato il rinnovo. Per loro significa vivere per lo meno con una zavorra meno pesante. Ed invece, l’unica carta che hanno in mano è un foglio di via permanente che soltanto la compiacenza solidale, per fortuna, sterilizza.

IL LAVORO – Lavoro manco a parlarne. La stagione del grano non la conti neppure. Ci sono le trebbiatrici, le braccia meccaniche fanno tutto al posto dell’uomo. Non chiedono contratti o normalizzazioni, le macchine. Le compri una volta e sono a norma per sempre. Quella dei pomodori, poi, si prospetta lunga. Per qualche tempo è stata la croce e delizia dei migranti. Insieme garanzia di qualche spiccio giornaliero e tormento fisico con pochi eguali. Malgrado conoscano la durezza del lavoro, V. ha già parlato con qualche possidente. Da lui sono arrivate soltanto brutte conferme. “Senza documento non mi fanno lavorare”, confessa a Stato. È il solito cane idrofobo che prova a mordicchiarsi la coda spelacchiata. Senza lavoro non esisti, senza esistenza non lavori. Il ciclo in cui si sono auto immessi è tutt’altro che virtuoso. E non se ne vede l’uscita.

IL CAMPO – Tanto più perché la rabbia monta. Alla difficoltà di un lavoro, si aggiunge la percezione dell’orgoglio calpestato ma anche la necessità di mantenere garbo. E, soprattutto, condizioni di vita al limite del terzo mondo. Un ragazzo di poco più di 30 anni (dal Ghana alla Libia, dalla Libia a Lampedusa, infine a Foggia) ci mostra le baracche bianche in cui trascorrono le giornate. Tuguri raccapriccianti e disordinati, residuati delle guerre italiane degli anni Novanta. Da casa a casa, fili di ferro o corda con i panni stesi ad asciugare, lavati sotto le docce umili, in comune per gruppi. I fili della corrente entrano all’interno attraverso i canali di scolo delle acque reflue. Come antenna della tv usano scheletri di ombrelli in disuso. Non c’è acqua. Di fronte alle case, uno stradone in cemento armato rovente sotto il sole della Capitanata che le separa dai cassonetti sempre pieni. Mai una volta, in un anno, l’Amica ha pensato di fare un salto da queste parti. D’altronde, non esiste nessuno, qui. Ed allora si procede ad ardere, un fuoco per evitare che i topi intossichino la vista e si nutrano dei miseri avanzi di percolato. Non serve. I ratti sono abituee del campo. Lo sono i serpenti, lo sono le zecche, lo sono gli insetti. Le zanzare le trovi anche alle quattro di pomeriggio, o alla mattina. Ci sono anche diversi cani che hanno figliato. Piccoli maremmani bianchi si aggirano rincorrendo il pallone con cui i più giovani cercano di rallegrare le giornate. La porta, due estintori piazzati giusto nel pezzo di una piazzola artificiale orrenda, tutta grigia, che i quasi 40° di giugno sbiadisce in una visione ondulante.

Chiamarla vita è un oltraggio. tanto che non lo è. Basta chiedere in giro, anche nei palazzi del potere. Tranne qualche associazione di cuore, nessuno è a conoscenza di questa parte di mondo. E molti sono convinti che le espulsioni siano provvedimenti che aiutino i migranti a ritrovare un senso nel loro paese, a star bene, a ricominciare. Per spronarli a ricostruire quello che decenni di capitalismo predatorio e bellico hanno devastato.