Galano Rai version: “Sono una canaglia”

Roberto galano sul set de "Il generale dei Briganti" (ph: Frankie Nikzad)

Foggia – SUL SET gli hanno tagliato i capelli. “Per farmi sembrare più carogna e più borghese”. Tuttavia a Roberto Galano, unico dauno con ruolo all’interno del cast de “Il generale dei briganti”, direttore artistico del Teatro dei Limoni, l’aria da galoppino proprio non s’addice. La sua estetica scombinata e disordinata del quotidiano è un modus cogitandi. L’ammissione di una diversità pensante. Per lui, questo in Rai, è certo un picco di carriera. Nove pose fra Venosa, Vieste e, forse, Roma. Non la prima apparizione, certo. Perché sebbene l’equino che il Galano ami cavalcare sia quello del teatro sperimentale (il successo della sua creatura foggiana è fuor d’ogni discussione), ha già potuto rodare il chilometraggio attoriale nella mamma di tutte le tv. Anni addietro, con il Teatro dei Limoni, partecipò a “Ombre sul giallo”. Tele, ma anche grande schermo. Galano è comparso in “Nemmeno in un sogno” (regia di Gianluca Greco) e “Le sette note del diavolo” (del foggiano Marco Tornese e purtuttavia diffuso soltanto al di fuori dei confini nazionali). Ma, stavolta, con “Il generale dei briganti”, in onda sugli schermi Rai a novembre in prima serata (protagonista, Daniele Liotti. Nel cast: Christiane Filangieri, Danilo Brugia, David Coco, Raffaella Rea, Manrico Gammarota, Massimo D’Apporto per la regia di Paolo Poeti), il battage è assicurato. La produzione è di quelle che muove soldi e spettatori.

Galano, lei a fare le fiction non ce lo vediamo proprio…
E lei crede che se mi avessero inserito in una produzione di quelle sdolcinate o di basso tenore io avrei accettato?
No?
No, tutt’altro. Anzi, le racconterò un aneddoto. Quando fui chiamato dalla produzione de “Il generale dei briganti” per il ruolo di Luigi, capo deli bravi del conte Guarino, rifiutai. Rifiutai perché mi era stato detto che si trattava di una figurazione. Insomma, una figura insulsa. Per me il teatro, il cinema, la recitazione è crescita, maturazione, azione. Che cosa mi avrebbe dato di più un ruolo muto?
Quando si dice non solo per la gloria…
Io quello che volevo ce l’ho. Ho un teatro magnifico con una squadra impeccabile. Un team con il quale stiamo affrontando, giorno per giorno, una sfida ben più difficile di quella che si possa immaginare. La scorsa stagione ha portato in teatro nientemeno che 1590 spettatori paganti. Cui, se aggiungiamo accrediti e gratuiti, superiamo quota 1600. E non di poco. Stiamo trasformando il pubblico in uditorio, innalzando la fidelizzazione. E’ questa, soprattutto, la mia sfida.
Com’è confrontarsi con nomi di discreto carotaggio?
Il clima sul set è buono. Devo dire che immaginavo conflitti, nervosismo, qualche inimicizia. Ed invece, grazie alla bravura del regista, il morale è sempre alto e i momento di nervosismo si riducono al lumicino. Poeti riesce a canalizzare la tensione in spinta propulsiva a far meglio. A guadagnarne è stato tutto il set. Che sia una capitano di lungo corso aiuta. D’altronde è anche vero che mancano le fastidiose primedonne, quelle che tentano sempre di risultare migliori ad ogni costo.
Lei, in particolare, lavora gomito a gomito con Massimo D’Apporto, il conte Guarino…
… una persona di una simpatia e di un’umiltà incredibile. T’immagini un solone, ed invece gioca, scherza, è prodigo di consigli senza comunque appesantire con il trionfalismo.
Eppure è cattivo. Lui ed anche lei…
Puro godimento. Per un attore, e soprattutto per un attore di teatro, la figura del personaggio cattivo, il bastardo, è sempre più stimolante. Ti aiuta a capire molte sfumature del carattere umano. Senza contare il fatto che il cattivo è sempre immune rispetto all’artefazione della bontà a tutti i costi. Poi, io sono proprio un campione in negativo, una canaglia. Rappresento il cattivo classico, venduto al potere del più forte. Luigi non si fa scrupolo di compiere anche le azioni più abiette e riprorevoli. E’ un esecutore degli ordini altrui. E’ il braccio armato della perfidia. Ed anche quando sa che ciò che sta per compiere è eticamente sbagliato, lo fa comunque: perseguita i briganti, rapisce il padre di Crocco…
Adesso è il momento della consacrazione, Galano? Che si attende?
N, riamaniamo con i piedi per terra. In questo momento quel che mi importa sapere è se, poi, ciò avrà delle ricadute, in positivo, sul teatro. Lo spettatore medio è attratto da questa luminescenza. Averla proprio adesso, nel momento di fermo della stagione, è un fattore positivo in quanto serve a tener viva l’attenzione dei foggiano sulla compagnia. Sperando in una stagione col botto.
La decima…
La decima. E che Dio ce la mandi buona.

Pov, la vita è questione di punti di vista

Roberto Galano, regista di Pov

Foggia – CI sono i punti di vista e, poi, ci sono i points of view. Ci sono le idee, il confronto, il confronto, lo scambio, la battuta. Prendendo indegnamente a prestito uno stralcio di titolazione calviniana: ci sono i destini incrociati. Ci sono le trecce di corpi e parole, ci sono gli impasti mollicci di esperienze. Alla fine di tutto questo, dove il buio divora la luce, dove la luce diventa artificiale, dove l’artificio è un freddo neon, c’è “POV. Point of view”. La rappresentazione dello spettacolo tratto da “Ambarabà” di Giuseppe Culicchia ha fatto da titoli di coda alla stagione “Giallocoraggioso 2010-2011” del Teatro dei Limoni di Foggia. Diretto da Roberto Galano, che dei Limoni è il Direttore Artistico, Pov ha portato in scena 14 attori, tutti provenienti dal Laboratorio Sperimentale Indipendente di Via Giardino.

Ed ognuno degli attori è rappresentazione di una vita. A volte interrotta nel suo cammino da ostacoli umilianti, altre volte ironicamente sfortunata, altre volte ancora afflitta da dolori lancinanti per la mole di spine conficcate nei polpastrelli dei un equilibrio impossibile. Sono causa ed effetto del loro dolore. Spesso nel dolore cercano la riscossa, indirizzandosi verso quel barlume che sembra vicino, in fondo al tunnel. Tentano di toccarlo, anelano a giungervi, si impegnano nell’affannosa rincorsa. Le loro paranoie grossolane, i loro connotati strapompati da tic e conformismi, le perversioni volgari e sadomaso di chi cerca rivincita al dolore in altro dolore, l’ego ipertrofico e quello ipodimensionato, la morte, la vita e le umiliazioni. Sfogliare l’umanità di POV significa prendere confidenza con tutto un campionario di antropologie sfasciate. L’imbonitore finanziario con la fissa del vendere, l’immigrato clandestino, il figlio permanente, il nazista cuore di mammà, la frequentatrice di rave, il play boy consumato (nel senso di corroso), la puerpera, l’allusiva lavapantaloni, il barbone indignato, l’antropofobica, la commessa frustrata, il camionista pervertito ma non troppo, la lesbo sadomaso, il rapinatore pasticcione. Quattordici vite e chissà quanti anni, quanti giorni, quanti secondi. Chissà quanta voglia di cambiare, di dare una svolta; di riaddrizzare quella torre scrostata, umida, fetente, che è l’esistenza.

Le loro voci si modulano sull’isteria e sulla pacatezza. E’ in quel fiato che pizzica le corde vocali che si legge tutta la devastazione di mondi franati, di vite estreme. Tutte diverse, tutte in apparenza infondibili ed inconfondibili. Tutte originali soltanto alla superficie, ed invece così maledettamente combinabili. La domanda, la metropolitana; la risposta l’arrivo del treno; la soluzione della socialità sempre ad un passo che si scioglie invece in maledizioni ed allontanamenti. Ed ogni storia, raccontata sempre come fosse la prima, intervallata sempre dalla stessa scena rapida e frenetica della perdita del convoglio, scandita sempre e comunque dallo stesso ardente desiderio di fuggire, di andar via, è un pugno in piene parti basse. E’ come svegliarsi alla mattina presto dopo una lunga dormita e buttar giù nello stomaco un alcolico di pessima qualità. Quelle esistenze non sono che i rutti acidi tuonati da una vita infausta. Il cui racconto diverte e stordisce.

Pov è martellante. Ti scuote come una tequila. Talmente pulp da creare ansia. Un ansia che monta nella gola sottoforma di groppo, disobbedendo al cervello che non riesce ad interpretare razionalmente quei movimenti ora lenti, ora rapidi. Scende nelle braccia, s’accomoda nelle gambe, invade le anche e risale per annettere il petto, pulsa contro la gabbia toracica come un ariete sempre in procinto di vincere la resistenza del rivale in amore. Pov è sporco, indisciplinato, maledettamente malsano. Puzza di sudore e di sangue, di morte e di sperma, di bava e di sconfitta. Per entrare nei sensi, Pov non chiede il permesso. Spalanca le ante del cranio e dilaga senza pietà.

La lucida follia del Cerchio

Mario Mascitelli durante lo spettacolo ai Limoni (ph: Francesca De Sandoli, TdL)

Toc… toc…toc…toc. Pulsano. Battono. Tremono. Scuotono. I rintocchi della follia. Sbatacchiano le tempie, alimentano le domande. Una scena bianca amplifica il dolore del pensare. Un letto, qualche sedia, un tavolino. Toc… toc… toc... I passi, quelli di Luigi Pirandello, resuscitato dalle ceneri della Storia per materializzarsi nel piccolo spazio del Teatro dei Limoni di Foggia. Ed il suo Enrico IV diventa “La stanza della follia”, made in Parma, opera del Teatro del Cerchio.

Toc… toc…toc…toc. Un attore che si trucca, il buio, la luce sparata spartana e dozzinale, volutamente. Un cannone per sconvolgere, per rincitrullire quanti credano che sia giunto, proprio lì, proprio di fronte al palco, proprio di fonte a Pirandello, il momento di pensare. Invece no. Quello della follia diventa un gorgo, Mario Mascitelli, l’attore principale, la forza sovrumana che lo crea. “Io so che, bambino, credevo alla luna nel pozzo e credevo a tutto quello che mi dicevano. Ed ero beato”. Toc… toc…toc…toc. Il tempo scorre nella stanza manicomiale, un anno, due anni, vent’anni. Transitati sul corpo del sedicente Enrico con tutta la potenza dell’inevitabile. La mente vola, si libra nel cielo dell’oblio, complice una caduta da cavallo. Un incidente che non è affatto un incidente. Un atto di terrorismo d’amore. Forse, solo di possesso. Risate con la donna amata, una mascherata a cavallo, le risate con gli amici, la bestia s’imbizzarrisce. E, ad un tratto, un lungo buio. 12 anni, e 8 per progettare la vendetta.

Toc… toc…toc…toc. Novello Dantés, il redivivo si finge folle, gioca con la sua ossessione come una fiera che scherza la preda. E come una fiera rapace ed ingorda individua le debolezze, si maschera e si smaschera. Si confonde per confondere. Nel gioco dei ruoli, si rovesciano le mansioni. Il dottore curante, interroga i suoi carnefici. Lei, bellissima, la Matilde moderna, sbranatrice del suo cuore, gioco e sollazzo, ingrigita da una vita di convenzioni sempre identiche, ma solleticata da quell’uomo tanto particolare ed ora così malato. Lui, che di Matilde è uno strano fagotto, goffo, sbiadita copia dell’aristocrazia che fu, imbrigliato nel giogo del potere, squartato da quel pazzo che lo divora poco a poco. Fino a che la pazzia non li morde entrambi. A punto tale da andare a trovarlo e recitare quelle parti di due decenni prima. Il tutto mentre lui, sanissimo, li asseconda.

E tu ci credi, alla sua pazzia. Credi sul serio che nella sua mente quel folle disturbato sia folle disturbato, certo di essere ancora Enrico IV e non un povero malato recluso in un bianco letto ospedaliero. Ci credi benché abbia visto lo spettacolo iniziare come un vero spettacolo, con uno zoom dietro le quinte, l’attore che si trucca e si concentra sorseggiante chissà quale bevanda. Ci credi così tanto da sentirti superiore, da commiserare la sua sorte sciagurata. Ci credi perché il bianco attorno ti dice che è così e non potrebbe essere altrimenti; perché quel candore pare uno sbianchetto della memoria, l’annullamento di ogni passato recente e la scrittura di un altro passato, questa volta lontano.

Ci credi e non viene da farti domande. Finché è lui, Mario, lui, Enrico, a dirti di non essere veramente Enrico. Finché è lui, con fare strafottente da attore e personaggio, a sbeffeggiarti perché era impossibile non capire. Vendetta che si consuma verso tutti, senza sangue e senza vinti. Toc… toc…toc…toc. Mascitelli è magistrale nella rappresentazione. Qui tramuta un Pirandello in Pirandello. Tutto in lui richiama alla follia, tutto in lui arpeggia fra certezza ed incertezza. E’ incredibile l’immagine di quel re solitario e prigioniero di un incubo che ha un lenzuolo per mantello, sedativi come scettro, un giaciglio come trono, la follia come corona. Strabiliante la capacità di rendere questo povero personaggio un ritratto sublime. Lo aveva fatto già nel (migliore) “Sante Pollastri”, quando aveva reso un bandito un canto alla libertà. Ora lo ha ripetuto.

 

Finalmente “Finalmente Godot”

Manca solo Nikzad. La foto è di Giusy

Sette spettacoli ed un ottava rappresentazione già calendarizzata per il prossimo giorno dell’Epifania. Un successo di pubblico che induce a parlare di botto. “Finalmente Godot”, piece scritta, diretta e portata in scena dalla compagnia Teatro dei Limonidi Foggia, oltre ad essere un’opera bellissima, intensa come poche altre in circolazione sui palcoscenici foggiani, è una macchina del consenso. Sentimentale fino al magone, emozionale fino alle lacrime. Thomas Becket non avrebbe saputo dar seguito migliore alla sua celeberrima composizione dell’attesa.

Sì, l’attesa. Sua Maestà l’attesa. Lama a doppio taglio, pugnale a serramanico senza manico. Colpisce coloro che l’ attendono, affonda in loro gli artigli ruvidi della follia, nella carne viva imprime il segno dell’instabilità. Tenta e costringe nel contempo. Ed eccoli lì, Estragone – LosavioVladimiro – Galanoancora imbrigliati nelle maglie del tempo, in balia di una nave ingovernabile. Solitari, disperati, scombussolati. Vite nelle vita dell’altro, partigiani arruolati nelle schiere della vita contro la morte che avanza. In un posto anonimo e quanto mai attuale. “Il palco”, questo il suo nome. Laddove i riferimenti in termini di ore sono scanditi dallo sversamento dei rifiuti. Le lancette sono le macerie dell’uomo, i quadranti cartoni usati e plastica ammucchiata, gli orologi i segni della stanchezza sui volti dei protagonisti.

Un quadro allucinato in cui i due, Estragone e Vladimiro, si muovono altrettanto allucinati. Attendono per non attendere oltre. Un giorno dopo l’altro. E l’ultimo che diventa un perenne penultimo. Una reazione a catena. Anello dopo anello si perde nelle nebbie fumose ed indistinte dell’infinità. Tetra, svuotata della speranza ed intrisa di illusione.
Si attende per non attendere oltre. E, nell’attesa, Estragone e Vladimiro si arrovellano per truffare il calendario intessendo una fitta ragnatela di azioni e giochi sconclusionati. È la celebrazione del fare, la cura opposta all’immobilità. I due, nel fare, ansimano. E nel voler fare, fanno nulla. Fanno per la sola ragione del fare. Fanno per la ragione del disfare per fare ancora. Arrovellamenti, contorcimenti, rotazioni circensi di esistenze ridotte al lumicino.

 

Finché l’aspettare, di volta in volta, si traveste da aspettativa. Di fronte al servitore del maestro Godot (Francesco Nikzad), quotidianamente latore del messaggio di rinvio dell’appuntamento fissato. Di fronte a quel vecchio ubriaco, malandato, incanutito riversato nel parco dell’attesa con l’ennesimo carico di immondizia. In lui rivivono le speranze dei protagonisti. In lui si riflettono le loro stanchezze, la resistenza infiacchita, l’incapacità di far fronte alla verità effettiva, l’incredulità alle parole. Per Esatrgone e Vladimiro, il tempo non è stato cura, ma malattia. Li ha incattiviti, desensibilizzati, uccisi. Uccisi, desensibilizzati, incattiviti. Cercano vendette nella morte, soddisfazione nell’annullamento corporale. Riversano le loro fatiche indosso ad ogni essere umano. Anche addosso all’inatteso (sorprendentemente Godot).

Nella scrittura di Leonardo Losavio, i protagonisti sono anime disilluse, scosse da anni, decenni, forse secoli di fame, sete, bisogni insoddisfatti, mete mai raggiunte. Epicentri di un terremoto abitudinario. Sono venti del nord senza più forza; denunce senza più prove; atleti senza resistenza anaerobica. Sono vittime che giocano il gioco della carneficina. Ma che nel gioco provano ancora rimasugli di sensi di colpa. Sono carni ciniche ed impaurite, voci isteriche e cuori sventrati. “Immagini dell’attesa e dell’atteso”. Carte d’identità senza più identità; fotografie che non rappresentano alcuna immagine; respiri senza più fiato.

L’arrivo di Godot (un magistrale Giuseppe Rascio) li coglie alla sprovvista. Li scuote senza cambiarli. Prima ci credono. Credono a Godot. Poi non credono più. Smettono di credere a Godot. Ma, in effetti, a loro non serve Godot. A loro serve un Godot. Qualcuno che li rassicuri, che non li svegli. Anzi, che doni loro quella proprietà di sognare di cui le notti agitate dall’attesa li ha privati ineluttabilmente.
Il Godot arrabattato e dimentico di sé stesso che si trovano di fronte è la negazione stessa di ciò che loro immaginavano. Paradosso nel paradosso, Esatragone e Vladimiro acquistano lucidità ed orgoglio nel rangente esatto in cui avrebbero soltanto dovuto abboccare all’amo teso, aggrapparsi alla corda.
Colpa di un Godot in maniche di mutande a camicia di forza, un po’ Totò, un po’ Chaplin, assurdo e ballerino, assurdo e mingherlino, assurdo e lamentoso.

Nei suoi pianti, in una serie di mosse previste alla perfezione in un copione senza pecche, i due sopravvissuti leggono le risposte che vorrebbero. Interpretano a loro vantaggio, prima di montare la rabia e coltivare sogni di vendetta. In un climax ascendente, lo spettacolo sale nei toni: da commedia si fa dramma. Avvolge e travolge lo spettatore. Non si può esserne esenti. La maestria di “Finalmente Godot” sta nella capacità attoriale di prendere per mano la platea portandola a scavare nel mezzo di quei rifiuti in cui loro stessi, gli attori, i protagonisti, i personaggi, scavano senza sosta alla ricerca di indumenti e novità. E nell’abilità (di scrittura e recitazione) di mantenere sempre vivo e valicabile quella striscia terrana che divide follia lucida e realtà caotica. Con ovvie ricadute positive sul pathos.

“Finalmente Godot” è comico, triste, disperato, urlante, cinico, sentimentale, folle, consolante, provocatorio, solleticante, fantasioso, crudele, dolce, cruento. Becket ne sarebbe orgoglioso.

(prossimo – ed ultimo spettacolo – il prossimo 6 gennaio. Per prenotazioni, rivolgersi in teatro, Vico Giardino 21, Foggia)

 

Giochi, merende, fiabe e teatro. I sabato pomeriggio scaldàti da Ubik

Cinque incontri, a partire dal 6 novembre (conclusione, di conseguenza, il 4 dicembre), ogni sabato pomeriggio. Appuntamento fisso con la rottura dello schema che vuole il tempo libero assuefatto alla monotonia catodica della televisione. Apertura, fantasia, creatività. Tornare indietro affinchè, quel dietro, possa rappresentare una forma di intrattenimento e, insieme di formazione. Tornare a vivere la magia delle favole, dello stare insieme. Dopo il successo della scorsa stagione torna, anche quest’anno, “Merende da favola”, laboratorio di lettura e narrazione animata di fiabe, allestito dalla Libreria Ubik di Foggia in partnership con il Teatro dei Limoni. Protagonisti, anche per quest’anno, i bambini di età compresa fra i 5 e gli 8 anni. Saranno avvinti da un mondo altro, una dimensione parallela fatta di colori e di spazi fantasiosi. Muoveranno i loro passi nei regni del passato. Quegli stessi che sono stati calpestati, ancor prima, dai fratelli maggiori, dai cugini più grandi, dai genitori. E, chissà, dai nonni. Tuttavia, loro lo faranno concretamente. Le favole saranno non soltanto raccontate “per” i bambini, ma “con i bambini”. Il tutto grazie alla collaborazione con la compagnia foggiana di Via Giardino, che metterà a disposizione i suoi attori.

I piccoli saranno stimolati nella rappresentazione e nell’invenzione. Spetterà a loro spargere la polvere magica suelle ali dei pomeriggi e renderli volanti, leggeri come farfalle. Gioco e creazione; immagini e lettere, musica e personaggi. Tutto sarà sovrapposto o sovrapponibile. Tutto raccontato o raccontabile. Senza limiti, senza convenzioni, senza filtri, se non quello del divertimento. Il filo rosso che legherà i cinque incontri sarà la fiaba italiana. Cardine, e non sarebbe potuto essere diversamente, il lungo lavoro di raccolta messo insieme da Italo Calvino. Non ancora Propp, ma comunque consistente.

Ma raccontare significa anche vivere. E vivere è interagire, socializzare nella vita quotidiana, nella realtà. Così, scomparsi cavalli e castelli, dame e prigioni, draghi e regni, fate ed orchi, tornati nello spazio eventi di Ubik, i bambini si confronteranno con gli altri. Attraverso la parola ed il gioco. Ed anche attraverso quegli attimi così preponderanti per loro che sono quelli durante cui consumano la “merenda”. A coronamento di ogni incontro, infatti, il biscottificio foggiano D’Onofrio, produttore della Doemi, offrirà i dolci del territorio. Informazioni e costi, sono disponibili presso la libreria di Piazza Giordano.

LEGGILO ANCHE SU  http://www.statoquotidiano.it/27/10/2010/favole-bambini-merende-nei-sabato-pomeriggio-di-ubik/36503/

I decenni Limoni. Torna Giallo Coraggioso

 

C’è sempre uno spirito speciale quando mi tocca parlare deil Teatro dei Limoni… Li seguo dal principio della mia attività giornalistica. Col Galano ho realizzato la mia prima intervista. E al TdL ho seguito il  mio primo spettacolo teatrale (Viaggio nei caotici stati d’animo che, guarda caso, è lo spettacolo che ha dato vita alla compagnia, anche se, a me, è toccato seguirlo in ritardo di 7 anni buoni). Prima di allora, un buco ampio 28 anni buoni. Una scommessa vinta. Da loro…

PIOGGIA di novità per il Teatro dei Limoni di Foggia. Nell’anno del decennale (2001 – 2011), il sodalizio sceglie l’arma migliore per scuotere la monotonia culturale del capoluogo dauno. E lo fa allargandosi al di fuori del piccolo guscio di noce di settanta posti, storica sede della compagnia. Progetto intrigante. Titolo: No men’s land
Un esperimento rischioso e nel contempo intrigante. Una scommessa che Roberto Galano, Giuseppe Rascio, Leonardo Losavio e Francesco Nikzad, storici componenti del gruppo, hanno tutta l’intenzione di affrontare con il preciso intento di sbancare il botteghino degli avventori. Da Foggia a Serracapriola, passando per la nuova esperienza di San Severo, new entry tra gli spazi off della scena di Capitanata. È, infatti, anche per la cittadina dell’Alto Tavoliere, che passa la sfida di Galano & Co. La gestazione è stata lunga. Ma a San Severo è sorta la compagnia “Caffè tra le righe”. Classificabile come una sorta di affiliata della lanciatissima compagnia foggiana. Si proporrà al pubblico già dalla fine dell’anno. Quattro spettacoli e prima stagione costruita. Obiettivo: estendere l’esperienza del teatro sperimentale indipendente, pandemizzare la cultura degli spazi off, ridurre la distanza tra pubblico ed attori, fra vita reale e scena, abbassare fino al limite minimo la soglia della differenza tra chi guarda e chi recita. Ampliare l’immedesimazione, insomma

LA MISSIONE DEI GIALLI E LA MISSIONE TEATRALE – . Come una missione. Missione che, i Gialli, portano avanti da due lustri attraverso calendari mirati ma mai pesanti, sperimentali ma mai boriosi. Un menù per palati fini ma tutt’altro che snob, una forma di affrancamento dalla convenzionalità del vernacolo e, all’opposto, dalla pretenziosità kitsch dell’oltranzismo sperimentale.
E, malgrado i tempi grami e le delusioni, il Teatro dei Limoni, anche quest’anno presenta una stagione di tutto rispetto. Si parte sabato 13 novembre (con repliche il giorno dopo e nel fine settimana successivo) con il self made show “Il testimone”, invocato, scherza a Stato Roberto Galano, “a furor di popolo”, liberamente tratto dal Satyricon, opera pungente del sagace scrittore latino Petronio, e realizzato in collaborazione con la facoltà di Lettere dell’Università di Foggia. Irriverente ed a tratti ritenuto scabroso, il Satyricon è il trampolino di lancio di Giallocoraggioso 2010 – 2011. Per la messa in scena, hanno lavorato tutti i capoccioni della compagnia. Roberto Galano c’ha messo idea e regia, Leonardo Losavio ne ha trasposto il testo, Giuseppe Rascio ha curato i movimenti scenici.

Quattordici giorni dopo l’esordio, primo ingresso in teatro di compagnie esterne. Torna a Foggia, dopo il grande apprezzamento riscosso da “Muccia!”, il Teatroscalo di Modugno. Una piece, “Zona Paradiso”, che pare fatta apposta per riabilitare dallo squallore in cui l’hanno proiettata scribacchini e turismo dell’orrore, la storia di Sarah Scazzi. Protagonista è una ragazza venticinquenne, Grazia, che fugge dal suo paese per motivi apparentemente introvabili. Ne vien fuori un ripetersi di luoghi comuni, voci che corrono e si ricorrono, vecchi vizi e nuove ansie, un sommario di personaggi a volte leggeri, altre volte spietati di fronte alla realtà. In scena, il bravo Franco Ferrante.
Dicembre sarà un mese, in effetti l’unico, a predominanza assoluta di tinte gialle. Una la rappresentazione, per sei repliche fissate ed una, il giorno di Santo Stefano, possibile. 10, 11, 12, 17, 18, 19 le date di “Finalmente Godot”. Ovvero Teatro dei Limoni più Solisti Dauni. Ovvero frutto della mente creativa di Leonardo Losavio. Ovvero il ritorno simbiotico il scena di tutta l’Invincible Armada di Via Giardino. Ovvero, la prosecuzione del più celebre “Aspettando Godot”, ma con tanto di sorpresa finale.
2011. Mese di gennaio. 22 e 23. “Spoon River, tutti dormono sulla collina”, prodotto della compagnia laziale Il cassetto nel sogno, riproporrà l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master. Per una miracolosa e fantasiosa tettonica delle placche, la scena muterà in una collina. Anzi, nella collina. Quella più celebre della letteratura mondiale di ogni tempo. Lapidi nel cimitero, settanta vite per settanta personaggi. Epigrammi, gli ultimi, di una sequenza di vite condotte tra gioie e – tante – infelicità. In scena andranno i ricordi spezzati di vite interrotte più o meno incompiute.
Tra febbraio e marzo, invece, un salto indietro nel teatro classico. Nulla di cristallizzato, ovvio. Come nella filosofia scenica dei Limoni. Prima gli echi scespiriani de “Dell’Otello” (11, 12, 13 febbraio con repliche, su prenotazione, 14, 15 e 16), un rovesciamento delle parti rispetto all’opera originale, Iago a farla quasi da padrone (e Nicola Rignanese ad ingolosire l’attesa); poi l’affacciarsi di Moliere (5 e 6 marzo 2011, l’imprescindibile “L’Avaro”, firma del Teatro del Sangro di Lanciano e timbro attoriale di Stefano Angelucci Marino); infine bagliori di follia riflessi nella figura dell’Enrico IV di Luigi Pirandello (“La stanza della follia”, 26 e 27 marzo, Teatro del Cerchio di Parma).
La chiusura della stagione, dopo l’inframezzo classico, è affidata al Clan H e l’intricata “Tutta colpa di Salvatore”, in scena il 16 e 17 aprile.

IL CAFFE’ TRA LE RIGHE – C’è curiosità di capire, soprattutto, quanto funzionerà il nuovo spazio off di San Severo. Quella della città dei campanili è una tradizione teatrale fortemente improntata alla tradizione. Da qualche anno, grazie ad un ottimo lavoro compiuto a livello istituzionale e municipale, il “Verdi”, spazio cittadino, ha fatto spesso registrare sold out. Merito di calendari ben pensati, di ingenti risorse veicolate verso il fiore all’occhiello architettonico ed artistico del circondario dell’alto foggiano. Fatto sta che lo Spazio Off presieduto da Paola Marino, formatasi proprio in seno al Teatro dei Limoni, è un tentativo di rompere lo schematismo monolitico tramite un’offerta nuova ed inedita. Ci vorrà qualche tempo per rodare la macchina. Occorreranno primavere prima che la creatura cammini in autonomia. Per ora, la stampella dei Gialli di Foggia, è una garanzia se non altro a livello di copertura di rapporti esterni.
La prima stagione, Freaks, si aprirà omaggiando il TdL. 4 e 5 dicembre andrà in scena in Via De Cesare il monologo scritto da Leo Losavio e Francesco Nikzad e recitato da Roberto Galano, “Hamburger”. Un’opera importante, che ha fatto il giro dei teatri di mezza Italia, ottenendo successi e riconoscimenti.
Il filo rosso stagionale si dipanerà con “Dux in scatola. Antologia d’oltretomba di Mussolini Benito” (15 e 16 gennaio 2011). Non una produzione foggiana, questa di Amnesia Vivace, ma che nel capoluogo dauno ha riscosso un notevole successo. Un solo attore in scena. Tutt’attorno il nulla. Di fianco a lui l’evanescente presenza del Duce del fascismo italiano. Chiuso in una cassa. Proprio lui, edonista a tal punto di sé stesso da farsi simbolo fisico di un paese Ed ora è lì, inconsistente, fugace, sfuggevole. Una scatola, un baule. È dentro come un ricordo accantonato e gettato in soffitta. Lo spettacolo ripropone le tappe della sua fine, dalla fuga fino all’esposizione del corpo a Piazzale Loreto.
Ultimi due appuntamenti, divisi fra marzo ed aprile. Nel giorno di San Giuseppe, ed in quello successivo (19 e 20 marzo), spazio per “Moto Contrario”, ambientato proprio a San Severo nel giorno della festa della madonna del Soccorso, patrona e protettrice della città. il 2 ed il 3 aprile, “La cisterna”, Mana Chuma teatro, chiuderà la rassegna.

leggilo anche su http://www.statoquotidiano.it/20/10/2010/il-coraggio-dei-gialli-torna-il-teatro-dei-limoni/36161/

Il bazar dei sogni (recensione “Cose Perdute”, Giallocoraggioso 2009 – 2010)

Un gioco maledettamente serio e commovente, “Cose perdute”. E, in quanto gioco, non si lascia scappare neppure l’occasione per far ridere. Brillante. Non sono bastati tre anni di assenza dal palcoscenico a rendere desueto uno dei cavalli di battaglia del Teatro dei Limoni. Anzi così come si offre sulla pedana nera di Vico Giardino, impolverato, leggermente consunto, usurato, più sporco e meno imbellettato, spogliato del carosello roteante di musicisti, riacquista una dignità a sé stante. Già, perché l’attenzione torna e si focalizza sugli snodi essenziali del racconto: sulla grande favola dei ricordi che non ci sono più e che il tempo ha preso in ostaggio, sull’allegra malinconia dei due protagonisti Miguel e Cornelio, prima giovani, poi vecchi, prima speranzosi poi disillusi, infine rassegnati nelle lacrime dell’inevitabilità. Solo un trucco, una concessione fatta alla rappresentazione, in questa stagione. Quel trucco si chiama Nicola Rignanese. L’attore impersona l’esattore del tempo, personaggio spietato quanto implacabile. La sua parola è legge, le sue scherzose filastrocche non già occasioni di battimano fanciullesco, ma punizioni, pretese di pagamenti, riscossioni. E quel che lui riscuote non sono soldi, bensì, appunto, anni. Trenta, quaranta, decine ogni qualvolta i due non riescono a soddisfare i clienti, a richiamare dal passato nel presente gingilli e cimeli smarriti nelle nebbie del tempo. Il tutto nel rispetto di regole non scritte ma comunque fissate che uniscono e nello stesso mentre fanno cozzare tra loro gli interessi dell’esattore e le necessità basilari dei due venditori. La scena come un bazar. Un posto speciale, in cui una semplice bicicletta assolve al ruolo di tramite fra presente e passato. Un carosello di ciarpame dimenticato, relegato nel cantuccio della memoria. Non corrono i secondi al suo interno. Ed il tempo diviene eterea raffigurazione di qualcosa che, in realtà, non c’è. Solo un simbolo. Anzi, piuttosto un pericolo. Entrarvi è come dimenticare che fuori c’è un’altra realtà, una dimensione concreta in cui il ticchettio tiranneggia sulle vite delle persone ed incombe come spada di Damocle sul loro capo.

Gamma di razze nella razza umana, risme di povertà e ricchezze, di superbia, follia e civetteria. Ognuno di loro è un protagonista, ognuno di loro la chiave di volta, ognuno di loro repentaglio momentaneo le cui parole sono dettami e non solo cortesi ricerche nei gangli degli anni andati. Battute e sketch allentano la tensione ed aiutano a rendere scorrevole uno spettacolo in bilico tra la fiaba e il quasi dramma. Limes pericoloso giocato sapientemente. Perché i sentimenti che si avvicendano dandosi il cinque, allegria e paura, rivalsa e terrore, hanno loro momenti definiti nell’alveo di “Cose perdute”. Sino all’inevitabile conclusione, fino alla chiosa, all’epifania dell’essere del bazar. Fino alle lacrime.

Da leggere ascoltando: Freddie Mercury, Time

Published in: on 19 dicembre 2009 at 22.29  Comments (2)  
Tags: , , , ,

Parole… Sante (recensione “Sante Pollastri” – Giallocoraggioso 2009 – 2010)

Come si racconta una storia attraverso le immagini, servendosi dei movimenti del corpo e senza lasciare che il fiato venga immortalato perennemente con il nero dell’inchiostro. “Sante Pollastri” è una produzione del Teatro del Cerchio di Parma e, in un parola, stupefa. Non tanto e non solo per l’interpretazione dell’attore e regista Mario Mascitelli. E neppure per l’avventurosa biografia di cui fa rivivere i momenti cruciali. Quanto più per la dovizia di trasformare le emozioni, i tormenti, le sofferenze di un’epopea vitale, in una pagina di storia. Un monologo sfumato, un gioco delle parti, articolazioni di pensieri e di punti di vista. C’è Sante il ciclista, c’è Sante il bandito, c’è Sante l’uomo, c’è Sante il tremante vecchietto che, a fascismo ultimato, non può far altro che mettersi a vendere pettini. Un confronto con sé stesso e con il pubblico che procede per rapidi flash, per immagini, per fotografie. Ecco che l’attore diventa un mimo parlante che non si spinge a dare giudizi, a prender posizione, ma si limita ai fatti. Piroetta da un lato all’altro, articola in una miscela di moto fisico e moto dell’anima, niente più che gli estratti di una vita. E come in un gioco, saltellando in una “campana” lunga poco meno di un’ora, casella per casella, rivivono sul palco le paure e gli stratagemmi di Sante Pollastri come perle incastonate nella quotidianità volontaria scelta a tredici anni. E poi c’è l’altra faccia, l’altro punto di vista. Quello tronfio e gloriosus di Giovanni Rizzo, commissario siciliano che di Sante Pollastri fece il cruccio della sua vita. Una sfida personale, l’autorità che tenta di imbrigliare la sua nemesi, il simbolo del suo rigetto, l’anarchia applicata alla vita. Ma anche nella benpensante Italia fascista, Sante è un eroe. La sua Novi Ligure, il vincolo con la quale non si tronca mai, lo apprezza, lo culla, lo custodisce. Forse non lo comprende, ma lo preserva dalle grinfie del potere. Malgrado questo il Rizzo che calca goffamente il palcoscenico, capelli tirati e sguardo da furbo, non assume i connotati del malvagio. Mascitello lo tramuta piuttosto nell’antieroe. Il perdente di una sfida che, man mano, con l’esperienza di Sante matura, diventa una partita a scacchi. Furbizia contro furbizia, uomini persi contro uomini persi. Serve far leva sulla debolezza del ciclista bandito: sull’ammirazione portata a livello apicale per Giradengo. La scena della cattura è l’apice del’intera rappresentazione. Il predatore stringe i suoi artigli sulla preda. Ed eccolo Sante comparire nudo con le sue debolezze. Nel carcere la tenacia non si soffoca solo per la consapevolezza che c’è sempre una via d’uscita. È il momento in cui entra in scena, forse unico caso, l’emozione. Il sentimento pervade il volto. Le luci trasversali, il fumo incupiscono l’atmosfera. Si ha l’impressione di non essere più di fronte allo spazio fisico, ma all’interno di un’anima. E quel fumo e quelle luci ne rappresentano i turbamenti ed insieme le speranze. Quelle di Sante di fuggire, quelle di Rizzo di colmare la distanza che lo separa dall’ultimo traguardo: Sante è stato arrestato in Francia, giudicato in Francia, incarcerato in Francia. Il supplizio, riassunto da Mascitelli nella persecuzione di una foto di Pollastri che il commissario porta con sé come un tormento, come una sottile pellicola di nastro adesivo sul cuore che non riesce ad andare via alonizzandone la piena felicità, come una spina, è quello di una vittoria dimezzata. Portare nelle patrie galere il pluriassassino, questa l’epifania della pienezza. Si prodiga, s’affanna s’impegna, ci riesce. Sempre con la sua sguaiatezza. Il brigante è in gabbia e vi esce soltanto con la domanda di grazia inoltrata da sua sorella. Ma la vita fuori, la libertà, questo inestricabile ed inafferrabile concetto, è dura, peggio delle sbarre. L’aria costa fatica, lavoro. “E io che so fare?”. Restano lui, vecchio, la sua solitudine ed una bicicletta: l’unico modo per ricominciare. Da zero.