Zanotelli prova a scuoterci: “Foggia, rialzati!”

Padre Alex Zanotelli a Palazzo Dogana (St)

Foggia – L’ABBRACCIO di una città, i brividi di Alex Zanotelli. Il padre comboniano torna a Foggia (e, ancora una volta nel Tribunale della Dogana del Palazzo che accoglie la Provincia di Capitanata) tre anni dopo la sua ultima salita da Napoli per discutere di “Bioetica interetnica”. Fenomenologia evanescente, carezzevole discussione, buona per risvegliare l’orgoglio di un uomo potente come Zanotelli. Maglia blu, jeans chiari, gli eterni sandali, crocifisso colorato al collo e sciarpa iridata, il fondatore di Nigrizia ha colto l’occasione per “tirare le orecchie” ad una comunità intorpidita dalla crisi, lentamente afflosciatasi sotto i colpi dell’impotenza. Una comunità, per giunta, spunatata, primva dei suoi vertici istituzionali. Il sindaco Gianni Mongelli si affaccia soltanto alla celebrazione religiosa recitata da Zanotelli in ricordo del “fiore di questa terra”, fiore alquanto dimenticato, Ettore Frisotti. Antonio Pepe e squadra non si fanno vedere. E nelle ultime file si scorgono soltanto i consiglieri di Palzzo di Città Leonardo De Santis e Michele Sisbarra.

L’AMBASCIATA DI PACE – Cade così nel vuoto il rimbrotto dolce di padre Alex. Che ripesca dalla memoria storica del Capoluogo dauno l’esperienza dell’ambasciata di Pace: “Avevate una delle strutture più belle presenti in Italia. Foggia e la sua Ambasciata di Pace significavano tanto per la causa della legalità e del disarmo”. L’ambasciata, plasmata da associazioni e partiti grazie alla sponda istituzionale fornita dall’ex presidente di Palazzo Dogana Antonio Pellegrino (recentemente scomparso a seguito di una lunga ed incurabile malattia), si disperse nel vuoto d’improvviso, nel silenzio generale. Zanotelli implora i ragazzi di riassumere il controllo, di “ridarle vita e forma”, di “fare rete, di unire e non di dividere”. E chiede: “Come si fa a parlare di pace quando a pochi passi si ha un aeroporto come Amendola da cui partono caccia che hanno fatto e fanno strage di civili?”

LE SPESE MILITARI – E parte da qui la bioetica di Zanotelli, dallo stop da imporre alla guerra come strumento di morte, di lesione dei diritti inviolabili dell’uomo ed della collettività, dal rispetto per la vita come “parte viva”. Ammonisce la politica che fa i conti sottraendo alle persone senza mai sottrarre alle cause stesse di un disastro annunciato. Il discorso non può non scivolare sulla riforma approvata dal Parlamento: 43 miliardi per risollevare, in teoria le sorti economiche del Paese. IN effetti, come chiesto dall’Unione Europea, una manovra politica per “rassicurare i mercati”. Zanotelli parte all’assalto: “L’Istituto Sipri (Istituto svedese, il più importante al mondo per quel che riguarda le ricerche scientifiche in materia di conflitti e cooperazione, ndR) ci ricorda che, nel solo anno 2010, l’Italia ha speso, in armi e guerre, 27 miliardi”. Nella voce, l’inflessione di chi sa ma che, in ogni caso, strabuzza gli occhi di fronte a cifre tato alte. “Ma neppure se fossimo invasi dagli ufo!”, scherza con un filo di sarcasmo. E continua: “Aggiungendo ai 27 miliardi i soldi spesi nell’acquisto di aerei e armaneti vari, si andrebbe a coprire senza nessun dubbio la cifra della manovra”. Ed allora, “perchè non intervenire una volta per tutte e tagliare le spese realmente inutili per la gente, quelle militari?”. Applauso e approvazione.

La pleta. Di spalle, padre Alex (St)

BENI COMUNI, ACQUA – “Acqua, terra, fuoco, aria. Dobbiamo ripartire da qui, riprendere questi elementi per riaffermare realmente un’etica della vita”. Sono le ricette contro la fame, contro la mortificazione, contro la sopraffazione. Le detta alzando il dito padre Alex. Le detta con nella mente ancora il grande movimento d’opinione, “realmente popolare”, che ha determinato la vittoria nella tornata referendaria di giugno. E se, appena ieri, il Ministro Sacconi ha rilanciato la sfida del mercato, proponendo un passo indietro sul tema dell’acqua, aprendo la porta ad un ripensamento in tema di pubbliciczzazione degli impianti idrici, il padre comboniando ribatte con la forza dei numeri: “27 milioni di italiani, per la prima volta nella storia, si sono opposti ad un tentativo di sottrazione di beni comuni. Tutto il mondo ci ha seguiti. Anzi, al di fuori dei nostri confini, l’eco è stata ancora più forte, siamo un esempio per tutto il mondo. Nessun partito in parlamento, ricordo al Ministro, ha un bacino elettorale di 27 milioni di voti”. Di più. Per Zanotelli sarebbe, un eventuale ritorno all’idea privatistica, un “calpestare i diritti insiti nella democrazia”. Per questo, invoca una “democrazia di massima intensità”, una “biocrazia cosmica”, un “governo della vita” che parta dalla consapevolezza del patrimonio comune, da principi ecosistemici, solidarietà uomo-natura, uomo-ambiente, difesa dei beni in comune. Guarda i giovani negli occhi, a loro si rivolge, li implora impegnandoli in un monitoraggio continuo: “Come abbiamo potuto permettere ad un parlamento di privatizzare l’acqua? L’acqua è vita, l’acqua è madre. Avete mai privatizzato di privatizzare vostra madre?” E, più in concreto: “A che punto siete con l’attuazione dei principi referendari a Foggia? E’ pubblico l’Acquesdotto Pugliese? Il vostro Presidente dice che ne farà una struttura pubblica, ma a me risulta si tratti di una spa”. Non ci sono sindaci in sala, ma le orecchie di 61 fra uomini, donne e Commissari prefettizi saranno fischiate con potenza sibilante in corrispondenza temporale con il monito del comboniano: “Che i Comuni vigilino, che i comuni sappiano, che i comuni difendano l’acqua”.

BENI COMUNNI, TERRA – “La prima Bibbia che Dio ha scritto è il nostro pianeta, dobbiamo difenderlo con tutte le nostre forze, perché ce lo stanno togliendo”. la sfida di padre Alex è dura ma già lanciata. “Come è possibile parlare di bioetica se non siamo in grado di difendere quel che ci circonda e da cui la nstra stessa vita dipende?”. Disegna i principi cristiani della condivisione, dell’abbondanza, della ricchezza. Che non è patrimonio, che non è capitale. E quasi inneggia alla grandezza dei Cieli quando chiede e si chiede: “Avete un solo fiore? Avete milioni di fiori! Avete un solo seme? Avete milioni di semi! Avete un solo uccello? Avete milioni di uccelli! Dio è stato di un’abbondanza sconvolgente nel regalarci il mondo e pochi potenti provano a togliercela”.

SPAZZATURA – E per sottrarla al controllo dei cittadini usano le armi della propaganda, della prepotenza. Ma, anche, dell’affare, il più lucroso dei quali, di certo, è quello della spazzatura. “Discutere di bioetica significa discutere anche di un progetto di raccolta differenziata”. Un progetto quanto mai concreto che fa il paio con “la separazione secco umido”, con la raccolta differenziata obbligatoria, con il porta a porta. Anche in questo caso l’emergenza Foggia torna alla mente. Ma anche fare i conti “con uno stile di vita ben al di sopra delle nostre possibilità”. 12.5 miliardi di bottiglie di plastica prodotte in Italia nel 2010, 300 miliardi di tonnellate di materiale inerte in una nazione “che ha l’acqua migliore del mondo”.

MIGRAZIONI – E terra, ricorda Zanotelli, significa anche migrazione, cammino, spostamento. Specie in epoca di una “globalizzazione che ci ha obbligati a guardarci tutti in faccia”. Significa continenti, significa Europa, America, Occidente, Asia rampante. Soprattutto, per il comboniano, segnato dall’eseprienza di Korococho, significa Africa. “Africana era la prima coppia di uomini. Dall’Africa discendiamo tutti. L’Africa è il paradiso terrestre descritto nella genesi”. La rivoluzione del sacerdote colorato parte da quie approda alla lotta dichiarata al razzismo insito nelle due leggi approvate in Italia in tema di immigrazione. “Prima la Turco-Napolitano, poi la Bossi-Fini sono atti di razzismo” che colpiscono “gli emarginati, gli ultimi”, alimentando pericolosi circuiti di ritorno alla schiavitù. “I 20 milioni di schiavi prelevati dall’Africa sono stati il gruzzoletto iniziale del capitale”.

CHIESA – Chiude con un pensiero alla sua casa, Zanotelli. Alla Chiesa rivolge un gioioso inno alla vita, a farsi partecipe della sua promozione, della sua valorizzazione totale e completa. Ammette di condividere le posizioni ufficiali in tema di aborto ed eutanasia. Poi, però, specifica che “siamo ancora lontani dall’imperativo per la vita, che è un prima e un dopo, ma anche un durante”.

da Stato Quotidiano, 17 settembre 2011

Referendum, beni comuni e la sfida del vento


MA siamo realmente certi che tutti coloro i quali, oggi, festeggiano la vittoria referendaria, poi vogliano davvero la messa in pubblico dei beni comuni? Sono sicuri di quel che accadrà adesso? O che, perlomeno, potrebbe accadere? No, perché il dato, se lo dovessimo leggere così, nudo, crudo e spietato com’è, non lascia alcun tipo di appello ad arringhe liberiste. Il 57 e rotto per cento della popolazione residente in Italia – e per popolazione intendiamo non il Golem servilistico del capo di Arcore, bensì tutti quanti hanno avuto il coraggio di sfidare la cappa afosa della prima domenica d’estate per votare -, vuole tornare alla comunità.

Quando diciamo comunità, però, non diciamo internet e socialforum, creatività da accattonaggio simbolico notoria un quarto d’ora che poi si tramuta in letteratura da url e link. Bensì intendiamo il colore delle piazze spontanee, scese in strada malgrado l’improba sfida. L’oscurantismo ha perso. E, nel contempo, ha dimostrato che dei megafoni, che siano internettizzati o televisivi, si può fare a meno. A patto che, ovvio, alla base, sussista un’idea di fondo comune. Un’idea così radicale e radicata da spaventare ed insieme attrarre; un’idea così precisa e di parte da obbligare a prendere parte per questo o per quello. Questa è l’idea che ha sbancato, rotto con gli schemi del passato, coartato gli elettori a dire si o a dire no. Un’onda così grande da divenire tsunami. Tanto grande e potente da poter fare a meno dei villeggianti del fine settimana, della gioventù distratta, dei pidiellini riverenti, dei piddini nuclearisti, delle Roccella di turno, della narrazione di Vendola, dei congiuntivi di Di Pietro.

E’, quello votante, un popolo che ha deciso consapevolmente di fare a meno delle delegazioni dei governanti; che ha spazzato via la sussidiarietà anacronistica fra gente comune ed affaristi. Che ha compreso come il “bene in comune” (la definizione è di Alberto Lucarelli, insigne costituzionalista, redattore dei quesiti ed ora assessore della Giunta De Magistris a Napoli) sia molto più conveniente della “comunità di chi ha i beni”. Quindi, di quell’esigua minoranza di oncologi dai secondi fini e possidenti alla ricerca dell’affare del secolo.

Ecco perché, adesso, la vittoria del Si e del quorum necessita di un nuovo e più importante balzo in avanti. Ecco perché questo mitico risultato, destinato ad entrare nella Storia alla voce “grandi battaglie civili” – vinte, come l’interruzione di gravidanza e il divorzio – non deve essere gettato nell’orticaio del dimenticatoio. Richiede anzi un surplus di attenzione. Una vigilanza civile e politica. Il premier Silvio Berlusconi ha già annunciato, come un monito maldestro, il prossimo settore d’investimento dei padroni della terra. Ha già fatto intendere che la conquista del potere economico già passa per il vento e per la luce del sole. Berlusconi, appunto. Ma non solo. Molti di quelli che hanno sostenuto e combattuto per la pubblicizzazione del servizio idrico, per evitare che un bene pubblico remunerasse le casse del singolo o dell’impresa, alimentando una volta di più l’aziendalismo della Natura, sono fra i primi che guadagnano (eccome) con il business eolico. Che non si fanno scrupoli nel sottrarre, per pochi spicci, le terre alle piccole famiglie contadine, alle coltivazioni secolari ed alle nidificazioni storiche di volatili.

E sono i primi, per giunta, a negare l’impatto delle pale, ad invocare una deregulation che lasci i loro polsi svincolati per impiantare su terreni e siti archeologici, nel mare e sulle sponde dei fiumi, sui crinali e nel bel mezzo delle piane. Molti dei propugnatori, da decenni, scendono a patti con imprenditori concussi con le mafie locali, mortificatori del paesaggio e del vero bene comune: la terra.

Ed allora la proposta, quella che azzererebbe ogni dubbio, è una pubblicizzazione del vento come risorsa comune, attraverso la creazione di società a capitale pubblico che sottraggano al guadagno del singolo per dare alla comunità. Soprattutto, normativizzando l’installazione, regolamentando la diffusione micologica degli orrendi pali. Infine, creando opportunità di lavoro chiare e limpide, gestioni che escludano, a prescindere, la dubbia provenienza del capitale economico. La sfida del 2012 è questa dunque: evitare che pale e pannelli cessino di essere fonte sicura di riciclaggio, copertura morale di sistemi criminosi. E tornino nelle mani di tutti nell’unico modo utile e positivo: come beni in comune.

Stato Quotidiano, editoriale 14 giugno 2011

Festa per l’acqua 2011, Foggia 9 giugno, Piazza Cesare Battisti



Per “Artisti per l’Acqua “ hanno aderito:
Rosa Claudia Altieri, Leo Vito Avezzano, Marina Calmo, Francesco Ciavarella, Maria Grazia De Rosa, Generoso d’Alessandro, Francesca De Sandoli, Lucia De Santis, Roberta Fiano, Assunta Fino, Alessandro Forcelli, G.A.A.S., Stefania Guerra, Sergio Grillo, Laboratorio Sperimentale Indipendente–Teatro dei Limoni, Nicola Loviento, Luistar, Gabriele Mansolillo, Silvana Martino, Marco Maruotti, Marina Niro, Raffaele Niro, Mario Raviele, Umberto Romaniello, Michele Sepalone, Francesco Stoppi, Antonella Tolve, Salvatore Luca Tota, Wild Rat Film

Il ladro d’acqua non era lui ma fu arrestato per comodità


(Un racconto di Wu Ming per i quesiti sull’acqua, Liberazione 8 maggio 2011)

Sul blocco di pane nero c’era stampigliata una data: 4-4-2012. C’era anche un’altra scritta: Bundeswehr. Gli aiuti per le aeree D provenivano spesso dalla Germania. C’erano wurstel, barattoli di sottaceti, birra analcolica. Persino qualche bottiglia d’acqua da bere.
Forse solo le prugne sciroppate non erano di provenienza tedesca. Winston sorrise tra sé. Forse gli aiuti per le aeree D in Germania – dovevano pur essercene – provenivano dall’Italia.
Winston aprì l’ugello di un fornetto da campeggio e mise sulla fiamma una padella annerita. Tagliò una fetta di margarina rancida, ruppe i gusci di due uova sui bordi della padella, fece cadere chiara e tuorlo sul metallo sfrigolante di grasso vegetale.
Tagliò due fette dell’antico pane di segale, aprì una lattina di birra. Guardò le bottiglie d’acqua: sarebbero bastate per una settimana.
Quel che mancava era l’acqua per le altre cose. Per lavarsi, per lavare i panni. Per cucinare roba non fritta, non unta. Per lavare le pentole dopo che avevi cucinato. Se ti lavavi, addio acqua per fare la pasta.
Occorreva fare delle scelte.
***
A Winston non piaceva andare ai bagni pubblici. Ognuno aveva una tessera che consentiva otto ingressi al mese. Otto docce al mese, per i poveri: in quel periodo dell’anno, con il caldo e l’umidità vicina al 90%, non bastava di certo.
Winston odiava sentirsi sporco, tendeva a lavarsi più del dovuto. Così addio pasta, addio verdura cotta, addio zuppe liofilizzate, che arrivavano anch’esse, beffarde, con le razioni D. Per farle, ci voleva l’acqua.
Winston campava di wurstel, tonno, pane dell’esercito tedesco fabbricato anni prima, lattine su lattine di bevanda al caffé.
L’acqua da bere era il vero problema. Era razionata, in quasi tutte le case del quartiere. Era costosa, come luce e gas. Quasi nessuno, in quel quartiere prossimo alla collina, poteva pagare acqua luce e gas. Chi poteva sceglieva l’acqua, e Winston non era tra i fortunati.
Gli accordi tra fornitori e pubblica amministrazione prevedevano due ore al giorno di elettricità sociale a tutti, e distribuzione di acqua due volte la settimana. Ma la maggior parte del tempo, gli interruttori non servivano a nulla, gli elettrodomestici dormivano inutili. In molti avevano incominciato a disfarsene. Gli apparecchi ancora decenti venivano veduti per pochi soldi. Gli altri, frigoriferi e lavatrici soprattutto, arrugginivano al sole, per strada. Le lavatrici aprivano il loro occhio attonito, e i frigoriferi non erano che cassoni vuoti. Ogni tanto un camion militare passava a tirarli su.
***
Winston ricordava bene com’era prima della Svolta: in fondo non era passato tanto tempo. Per molti versi, la sua condizione attuale gli ricordava le estati dell’infanzia: ore e ore, giorni e giorni senza niente di preciso da fare. Ogni tanto, arriva qualcuno e si occupa di te.
Passava il tempo peregrinando per il quartiere, nelle aeree ex-industriali, dove l’erba spaccava il cemento e all’ombra delle lamiere crescevano piante che non ricordava di avere mai visto, piante che sembravano nutrirsi dell’antico odore del ferro e della gomma, delle esalazioni di discariche improvvisate, d’acqua piovana pesante di residui chimici.
Là dove la periferia annegava nell’indistinto minerale e vegetale, blocchi di cemento sconnessi e intrico di rovi, Winston si sentiva bene. Aveva recuperato la conoscenza precisa, perfetta del territorio attorno a casa che hanno i bambini sugli otto-dieci anni, quelli a cui è stato consentito di vagare, e conosceva ogni anfratto, ogni luogo dove sedersi all’ombra per sorseggiare soda al caffé, i posti buoni per accendersi una sigaretta e guardare il fumo ascendere, e lasciare andare il tempo, giorno dopo giorno.
Uscì di casa nella vampa delle tre del pomeriggio. La via era muta, l’asfalto pieno di buche bruciava. Difficile incontrare qualcuno a quell’ora. Nello zaino, un po’ di pane tedesco, della cioccolata a scaglie, lattine al caffé. Senza un piano preciso, i passi lo portarono nell’area dove un tempo aveva funzionato la fabbrica di biscotti, il magazzino dove da ragazzo era capace di entrare, attraverso i tetti, e l’altra fabbrica, quella grande, dove facevano il ferro, in diverse pezzature: sbarre, tondini, bulloni, chissà che altro. Il rumore di quelle fabbriche, il ronzio simile a un aeroplano della ventola sull’altissima facciata aveva accompagnato i lunghi pomeriggi di quel tempo andato. Winston ne udiva ancora il fantasma.
***
Scivolò attraverso un buco nella rete arrugginita e si ritrovo all’interno dello stabilimento. Un branco di randagi attraversava alla spicciolata lo spiazzo dove un tempo si erano fermati gli autocarri. Non era il loro territorio, gli animali procedevano in fretta, trotterellando, smagriti, forse impauriti. Winston si premurò di non incrociare i loro sguardi, attese la loro scomparsa oltre la siepe dilagante che chiudeva alla vista la strada tempestata di crateri che portava verso la città. Sul lato in ombra dell’edificio doveva esserci un bel fresco, pensò Winston. Aveva piovuto forte, la sera prima. L’aria s’era fatta ancora più torrida ma forse dietro il muro, all’ombra, il cemento e la terra erano ancora umidi. Un buon posto per sedersi, fumare una sigaretta e pensare.
Mentre avanzava nello spiazzo, Winston notò che i cani avevano lasciato orme. Orme bagnate, che evaporavano in fretta. Incuriosito, aumentò il passo. Il pane di segale e le uova pesavano sullo stomaco, e Winston si ritrovò madido di sudore.
***
Girò l’angolo, e si trovò all’ombra. Si appoggiò al muro, colpito da una stanchezza insolita. In quell’area dell’antico stabilimento, c’erano gradini addossati al muro che portavano in basso, verso una porta di lamiera arrugginita. Un corrimano di ferro dipinto in rosso doveva facilitare ascesa e discesa, ma era rotto, piegato malamente in più punti. Dalla scala in ombra proveniva un suono che non riusciva a distinguere. Si avvicinò, e capì che era lo scrosciare dell’acqua. Un rumore simile a una fontana.
Quando era stato un bambino, un tempo, l’acqua era talmente abbondante che c’erano fontane, nel centro della città, e fontanelle, e uno se aveva sete ci poteva bere.
Già. L’acqua delle fontanelle era buona da bere.
Si avvicinò, e scese qualche gradino. Sì, era acqua, e filtrava da sotto la porta in lamiera, il cui bordo inferiore era piegato e sollevato dal pavimento di qualche centimetro. L’area rettangolare tra porta, muro e gradini era piena d’acqua. Un’area di un metro quadro allagata da sette-dieci centimetri d’acqua. Fresca, non stagnante. Winston si avvicinò ancora. All’ombra, temette che la vista gli facesse un brutto scherzo.
In mezzo alla polla sguazzava un pesce rosso.
***
Quella notte, Winston sognò la città prima della svolta. La percorreva in motorino, fino in centro: era possibile accedervi in tutte le ore del giorno e della notte, uno non era confinato, o quasi, nell’area D. Nel sogno, le ruote passavano veloci sull’asfalto, sulla pavimentazione antica, sulle pozze d’acqua, e Winston si sentiva libero e felice. Era come se la mente volasse, a pochi metri dal suolo, e si dislocasse a piacimento nei luoghi della memoria. La vasca del palazzo Comunale, piena di carpe boccheggianti. La porta di S. Maria della Vita, nascosta tra i vicoli e l’odore di pesce che saliva dalle bancarelle. Poi il motorino e la mente presero ad ascendere, la strada portava in alto, in collina, ma Winston non aveva alcun interesse al panorama, alla città che si offriva alla vista giù in basso, oltre le curve. Giunse a una specie di chiesa, un convento diroccato. Lo percorse con la mente, in volo, anfratto dopo anfratto. C’erano uccelli, tra le rovine. Riconobbe piccioni, e smunti rapaci, implumi, che osservavano il mondo, aperto loro innanzi, con occhi di lavatrice.
Winston guardò il cielo e pensò che sarebbe piovuto. L’acqua fredda, lattea, dei suoi sogni.
***
Alla mattina, la domanda che gli girava in testa era la stessa di quando era andato dormire. Come si era prodotta la sorgente giù alla fabbrica, e come aveva fatto un pesce rosso a finirci dentro? La risposta più plausibile, che corrispondeva quasi per certo al vero, se n’era convinto, lo lasciava però insoddisfatto.
Un bambino aveva dovuto rinunciare al pesce rosso, perché la famiglia non era più in grado di pagare l’acqua. Dovevano avergli detto di far sparire il pesce, prima che morisse asfissiato nella boccia piena di liquido ormai senza ossigeno. Allora il bambino, vagando con un sacchetto di patisca, acqua sporca e pesce, si era imbattuto nel fenomeno, aveva lasciato il pesce al suo destino. Almeno sarebbe morto nell’acqua fresca. Oppure il bambino veniva ogni giorno a nutrirlo: Winston lo avrebbe fatto. Oppure, era stato il bambino stesso, sgattaiolando dentro la fabbrica, a produrre il fenomeno, la perdita d’acqua. Del resto, le tubature erano marce.
Uscì di casa nell’aria ancora fresca del mattino. Da poco era cessato il coprifuoco notturno; i pochi che lavoravano uscivano per raggiungere i confini dell’area D, mostrasse i lasciapassare, prendere i mezzi pubblici, andare a badare dei vecchi o pulire pavimenti. Winston sperava di incontrare il bambino, quella mattina. Forse sarebbe tornato per dar da mangiare al pesce rosso: allora Winston avrebbe capito come stavano le cose. Oppure, avrebbe trovato il modo per entrare nella fabbrica in rovina- quell’area da fuori sembrava inaccessibile. Forse sarebbe occorso forzare la porta in lamiera. Dentro, Winston avrebbe visto se l’acqua era buona da bere.
Si affrettò. Varco lo spiazzo dove il giorno prima aveva incontrato i cani, Svoltò l’angolo, e incrociò una selva di sguardi stupiti.
***
Uomini in divisa gialla, con lo stemma del Munifico Comune. La divisa era una specie di assurda cerata gialla.
Pompieri. Quelli che intervenivano in caso di furto d’acqua. In pochi istanti gli furono addosso.
– Quando si dice la fortuna -, disse l’unico in divisa da funzionario.
– Nemmeno la fatica di andarselo a cercare, il ladro d’acqua.
Lo sedarono. Le gambe cedettero, Winston vacillò. Prima di perdere i sensi, vide uno degli uomini tenere in mano, all’altezza degli occhi, un sacchetto di plastica trasparente.