“Queste terre non le avrete mai”. Il Comune di Foggia non entra a Palude

QUANDO, alle 9.30 spaccate, la campagnola infangata del Servizio agricoltura del Comune di Foggia sbuca dalla curva che schiude la vista al Santuario dedicato alla Madonna Nera, in zona Piana Palude, fra Incoronata e Carapelle, soci e familiari della Cooperativa agricola Silvestro Fiore rafforzano il cordone. Sono in strada, con i piedi inzaccherati, da oltre tre ore. Il sole rosseggiava all’orizzonte e loro già stavano tracciando i solchi. Ovvero, il simbolo della rivolta contadina da una vita per evitare al capitale d’impossessarsi della loro unica fonte di sostentamento.

“ESEGUITE” – L’auto, da cui scende l’avvocato del Comune di Foggia, Massimo Carella, è scortata da due macchine dei Vigili Urbani e da una della Polizia. Di fronte, soltanto un muro umano, inizialmente silenzioso, fatto di rughe, calli alle mani e sedie di plastica. E poi i trattori e qualche automobile, più una rudimentale corda nera ed arancione. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di illustrare le motivazioni che hanno indotto questa sessantina di persone ad essere qui. Basta il loro silenzio e qualche occhiata fugace. La miccia l’accende soltanto una frase, pronunciata dallo stesso Carella: “Eseguite”.

LA STORIA – Quel che bisogna eseguire è quanto di più simile ad uno sfratto. Tecnicamente “l’immissione in possesso del fondo a favore del Comune di Foggia”. Il 23 settembre 1945, recependo un decreto luogotenenziale di un anno precedente, il Prefetto di Foggia tolse le terre incolte ai possidenti ed ai Comuni, per assegnarle, definitivamente, alla Silvestro Fiore (nata con rogito notarile del 27 gennaio ’45). Cioè, a quelli che, da quel momento in poi, anno dopo anno, mese dopo mese, zolla dopo zolla, quelle stesse terre le hanno inondate con il sudore della fatica. Già, perché, all’atto del passaggio, erano semplici acquitrini. O, come conferma inderogabilmente la toponomastica, una palude. Sei anni dopo, approfittando dell’ignoranza dei residenti, molti dei quali non acculturati, il Comune di Foggia (1948), dette origine ad uno dei primi casi di abuso di potere della storia di Capitanata. Come ci racconta Gianni Lannes, che la vicenda l’ha seguita dall’esordio, “il Comune accampò sui terreni un fantomatico diritto di estaglio”, in base al quale “gli agricoltori furono costretti a versare quote annuali di produzione granaria”. Fu quello l’inizio di un lunghissimo contenzioso, che originò incomprensioni e qualche sopruso. Palazzo di Città, dal capoluogo, mise le mani sui terreni della borgata e se ne dichiarò praticamente padrone, sostenuto dal fatto che, il pagamento, fosse una sorta di affitto. Dunque, una confessione di non possesso. Nel 1995, il missino Paolo Agostinacchio tornò alla carica, assoldò l’avvocato Carella ed intimò i contadini ad abbandonare le terre.

TRIBUNALI – Ma non basta al Comune per sbrigare la pratica. La Cooperativa Silvestro Fiore si anima. Si finisce in Tribunale. Come quello di Città, anche il Palazzo di Giustizia dichiara scaduto il contratto di locazione. Contratto che però non esiste e non è mai esistito. Anzi, il Comune non sembra avere in mano neppure l’atto di proprietà di quei benedetti 296 ettari (su cui sono in gioco i nuovi interessi speculativo-affaristici del mattone e dell’industria). Ma una serie di avvocati poco zelanti fanno perdere tempo ai soci. A maggio di quest’anno la pratica fa capolinea in Cassazione (sentenza numero 10452/2011 dep. il 12/05/2011), la quale decide di confermare la sentenza dei gradi precedenti con una significativa variazione: i contadini possono esercitare il diritto di ritenzione. In parole povere, possono tenersi i terreni fin tanto che il Comune non paghi le migliorie maturate su ogni ettaro. Migliorie che, fino ad oggi, nessuno ha mai accettato di pagare. O di calcolare.

RISARCIMENTI – “Mi devono dare 40 mila euro ad ettaro di miglioria”, sbotta a Stato un agricoltore, mentre impreca contro le forze dell’ordine ed i missi dominici di Mongelli. “Queste terre le abbiamo coltivate noi, i nostri genitori, i nostri fratelli. Nostri amici sono morti in questi campi, per questi poderi”. Li indica. Per lui sono tutta la vita. Come la maggior parte della gente di queste parti, ed a differenza di chi viene di buona mattina ad eseguire ordini dall’alto, c’è cresciuto nella terra. E non accetta, nessuno lo fa, che una carta, di punto in bianco, li invasori delle loro stesse vite.

“AVVOCATO, SENTI A ME, VATTIN” – Intanto, attorno alle 10, giunge un’auto della Digos. A bordo, due militari. Proprio nell’apice della tensione. Le barricate di vecchie donne sedute e ragazze con bambini per mano non cedono. Polizia e Comune non sono in grado di agire. Il legale del Comune è in difficoltà. I due uomini della Ps faticano a solidarizzare con lui. Uno di loro conosce bene i dimostranti, li chiama per nome, tenta di calmarli. Carella è nervoso, suda, la camicia si fa madida sotto il sole accecante di una mattina immersa nel grano e nella paglia. Un paio di ragazzi fumano all’ombra della ruota di un trattore. “Io vi mando in galera” sentenzia l’avvocato di fronte all’ostinatezza dei manifestanti. “Portate l’attestato di proprietà!”. “Non ne abbiamo bisogno”. “Sind a mmè avvucà, meglio che te ne vai, brucia la carta e fai finta che siamo stati noi. Diccelo al sindaco, da parte nostra”. “La sentenza!”. “L’atto!”. E’ un botta e risposta infuocato. Volano parole molto grosse.

VIDEOCAMERA E CACCIA ALLA DONNA – Ad una ragazza, che stava per nostro conto realizzando delle riprese, viene intimato dalla Digos di consegnare la videocamera e di fornire i documenti. C’è agitazione. Lei viene difesa strenuamente, poi viene portata via in mezzo ai trattori e fra le auto in sosta. Trema, la ospitano alcuni abitanti della zona. Scatta la caccia all’uomo. In questo caso, alla donna. Minacce di denunce penali, tentativi di spiegarsi. In definitiva, nella concitazione, nessuno aveva inteso nessuno.

“AVETE APPROFITTATO DI NOI” – Per fortuna, di scontri non ce ne sono. Da un lato, rappresentanti di un ente che, come dice a mezze labbra un dipendente della Cooperativa, “nemmeno sa dove sono i terreni che si è venuto a pigliare”. Dall’altro, una folla tenace ben conscia del valore del proprio lavoro. La rappresentante della Silvestro Fiore, Nunzia Petruzzello lotta con tenacia. In prima fila si batte per tener lontani gli esagitati e spiega a Stato, prima di sbatterlo in faccia a Carella che “hanno approfittato dell’ignoranza dei nostri vecchi che non sapevano neppure leggere per tentare di impadronirsi di questi nostri terreni. Non ci sono riusciti allora e non ci riusciranno nemmeno oggi”.

Alla fine, per gli esecutori, non rimane che la resa incondizionata. Torneranno a reincontrarsi fra 2 mesi, il 26 settembre. Così nessuno si lancia in festeggiamenti. C’è del lavoro da iniziare, si è persa una mattinata intera.

I segreti dei parlamentari foggiani. Nessuno ha presentato il 730 (5 in tutta la Puglia)


NELLE stanze romane, a muovere le leve del comando sono in 945 fra deputati e senatori. Sono loro che, grazie ad una traslazione di senso coniata giust’apposta per i potenti di casa nostra da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel 2007 e ripresa da blogger operanti dalle Orobie alla Sila, si sono guadagnati il titolo di casta. Ovvero, letteralmente, una gerarchizzazione rigida della società in cui il progresso è escluso ed è impercorribile, per un “inferiore” giungere in alto. La maledizione del rango, dunque. O, viceversa, la sua benedizione.

Bene, abusando non poco della cosa – oggi il potere è rappresentazione di un mondo composito in cui si amalgamano ex figli del popolo, massoni, medici di base e semplici impiegati – l’Italiano percepisce castale questo accentramento. Che dà oneri, ma anche tanti onori.

Il 7 luglio 2009, per fare chiarezza sul lavoro e sul ruolo dei Ministri e degli eletti, e grazie all’impegno dei Radicali (in parlamento grazie alla “stampella” Pd), Montecitorio e Palazzo Madama approvano una mozione in cui viene resa pubbliche e fruibili, a tre mesi dall’insediamento, le dichiarazioni dei redditi di tutti i “delegati del popolo”. Clamore, gioia programmata. Poi, a distanza ormai di due anni, la situazione è diversa.

Mario Staderini, segretario del partito presieduto da Marco Pannella, sciorina il dato nazionale, ammettendo mestamente il fallimento dell’operazione. Per svogliatezza o per cattive pratiche, ad oggi, sono disponibili in rete soltanto i documenti di 123 parlamentari. Pochino. Ancor più evidente se tradotto in percentuale: 13.02%.

LA PUGLIA – Miserabile il dato pugliese. Dei 43 deputati eletti, soltanto 5 hanno aperto alla rete il loro portafogli. Va addirittura peggio al Senato, dove nessuno dei 21 eletti ha depositato il proprio 730 ai fini della pubblicazione. Questione di privacy? Per niente, la norma vincola in tal senso. Gli unici che hanno risposto presente sono Dario Ginefra, Francesco Boccia e Gero Grassi del Partito Democratico, Pierfelice Zazzera di Italia dei Valori e Lorenzo Ria, leccese, UdC. La media, pari all’11.6 punti percentuali, è al di sotto anche del bassissimo dato nazionale.

La risposta potrebbe trovarsi in quelle revisioni tendenti al positivo dei loro bilanci personali. Al di là delle curiosità su nuove case, auto cambiate e via dicendo, quasi tutti gli eletti pugliesi hanno visto ritoccare ad aumento il loro budget annuale. Così, il reddito complessivo di Gero Grassi, ad esempio, è passato a 137.670 euro, ovvero, quasi quattromila euro in più rispetto al 2009 (circa mezzo anno di stipendio di un lavoratore precario di un call center meridionale). E l’ex responsabile provinciale del Pd è uno dei meno fortunati. Guardando sempre alla voce del reddito complessivo, il dipietrino Zazzera ha visto una lievitazione del proprio patrimonio nell’ordine dei 30 mila euro (dai 91.551 del 2009 è schizzato a 125.577 euro dell’anno passato), seguito a ruota da Ginefra (+ 28.306 frutto del balzo dai 96.408 del 2009 ai 124.714 del 2010) e Ria (+ 28.055, in virtù dei 134.635 euro di reddito complessivo rispetto ai 106.580 dell’anno precedente). Si è invece “impoverito” Francesco Boccia. Il due volte perdente alle elezioni regionali tra 2009 e 2010 fa registrare una diminuzione del reddito complessivo di quasi 50mila euro, passando da 176.070 euro a 127.066. Osservazione importante: nessuno della maggioranza di Governo.

LA CAPITANATA – Ovvero, Inglorious, senza gloria. Fanalino di coda regionale e nazionale, la Daunia. Dalle segreterie politiche degli eletti foggiani non è giunta neppure una dichiarazione dei redditi. Un comportamento trasversale, comune al centrodestra ed al centrosinistra. Nell’ordine alfabetico: Michele Bordo (pd), Angelo Cera (Udc, sindaco di san Marco in Lamis), Tonio Leone (Pdl, Vicepresidente della camera dei Deputati), Antonio Pepe (Pdl, Presidente della Provincia di Foggia) alla Camera e Colomba Mongiello (Pd) e Carmelo Morra (Pdl, sindaco di Monteleone di Puglia) al Senato sono assenti dalle liste online.

I VIRTUOSI FUORI PORTA – Innanzitutto i comportamenti “virtuosi” di due dauni lontani dai confini della provincia di Foggia. Sono infatti consultabili le dichiarazioni dei redditi di Lucio Stanca ed Emilia Grazia De Biasi. Il primo, Stanca, ministro per l’Innovazione e le Tecnologie nel secondo e terzo Governo Berlusconi, e in seguito amministratore delegato della Società di Gestione Expo Milano 2015 S.p.A., nativo di Lucera ma eletto deputato nel 2008 nella Circoscrizione Piemonte, fa registrare un boom di oltre il 100% in un anno, passando dal reddito complessivo di 230 mila euro del 2009 a quello di poco meno di 495 mila dell’anno passato (con un differenziale in positivo di 200 e rotte mila euro).

La seconda, De Biasi, deputata piddina eletta in Lombardia, è invece originaria di San Severo. Anche lei, come la maggior parte dei suoi colleghi, fa segnare un deciso aumento di capitale, passando, come reddito complessivo, dai 152.460 euro del 2009 agli oltre 167 mila dell’anno scorso.

I GRANDI ASSENTI – Per la serie predica bene e razzola male. Nel marasma dei “poco accorti”, sono rovinosamente cascate anche persone che hanno condotto, nel corso del loro “laicato politico”, battaglie per trasparenza e legalità. O, peggio, che anche nel corso di questa legislatura hanno spesso e volentieri acceso le polveri della contesa attorno all’esigenza di chiarezza e verità. Per esempio, stupisce l’assenza di Anna Paola Concia, ala sinistra piddina, deputata. O quella del senatore-magistrato Gianrico Carofiglio e di Alfredo Mantovano, punta di valore della Commissione Antimafia.

Fra i big di Puglia, spiccano le caselle in bianco dei deputati Lorenzo Cesa (segretario nazionale dell’Udc), Massimo D’Alema (presidente del Pd), Raffaele Fitto (Pdl, Ministro agli Affari Regionali) e dei senatori Nicola Latorre (braccio destro e braccio sinistro di D’Alema, piddino di ferro), Adriana Poli Bortone (Noi Sud, ex prima cittadina di Lecce), Giovanni Procacci (Pd).

Nessuna comunicazione neppure da parte dell’inquisito ex Assessore Regionale alla Sanità Alberto Tedesco, subentrato il il 14 luglio 2009 a Paolo De Castro, che, fino ad allora, non aveva presentato nessun documento.

p.ferrante@statoquotidiano.it

Adesso Basta!

Adesso basta! Fenice va spenta! from olachannel on Vimeo.

La peste italiana. Il caso Basilicata



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∞ La Santa pedalata ∞


(Recensione di Natalino Russo, “Nel mezzo del Cammino di Santiago”, Ediciclo 2010)
“Il Cammino di Santiago non è un posto difficile, per seguirlo occorre solo tempo e un po’ di volontà”. E, più concretamente, gambe buone ed un fedele accompagnatore. Come quello di Natalino Russo, ad esempio, partito alla volta della Galizia in compagnia della sua imprescindibile due ruote ed un carrettino da traino fai-da-te, il sollevamento dalle sue pene fisiche, il briciolo di rilassatezza per non finire schiacciato sotto il peso dello zaino.

Nella vita, Russo viaggia e scrive. Anzi, viaggia e poi ne scrive. Non è esattamente un giornalista. Piuttosto, una specie di voce narrante barra camminante a disposizione di varie riviste e testate. Durante uno di questi viaggi – una lunga luna di miele di sé con sé -, dieci tappe per dieci giorni di gestazione emotiva, è scaturito, ovvio e consequenziale, “Nel mezzo del cammino di Santiago”. Sottotitolo che è tutto un programma: “In bicicletta verso Compostella tra viandanti e pellegrini”. La casa Ediciclo l’ha chiesto, l’ha ottenuto, l’ha pubblicato.

Qualcosa a metà fra un manuale di viaggio (c’è un’appendice di utili informazioni su come viaggiare, dove dormire e dove informarsi per un viaggio in tranquillità) ed un diario di bordo, “Nel mezzo di cammino di Santiago” è un rintocco di suoni, una filastrocca di colori, un motivo di odori. E se Russo fa di tutto per esibire le sue emozioni, nello stesso tempo non si può dire che si batta strenuamente per non suscitare un rigurgito di gelosia. Pedalata dopo pedalata, con il sottofondo del frullare che riesce a sopraffare il caos urbano che attanaglia chi legge, sovrasta televisioni e cellulari, silenzia clacson ed urla vandaliche, si schiudono i panorami sterminati della meseta ed il verticistico splendore delle salite impervie.

Ogni tappa è un capitolo. Ogni capitolo, un inizio ed una fine. Ed ogni fine, la sottile barriera che sta in mezzo fra una notte di sonno ed una giornata di bicicletta. Le immagini, i paesaggi di quiete e pellegrini monopolizzano il testo, aprendo fronti inconsueti per le epoche di caos, fast food e tempi ristretti. Cellulari ed internet non meritano spazio, ridotte a menzioni en passant, giusto il tempo di ricordarne la vacuità nel corso del viaggio se non come appiglio d’emergenza ma in ogni caso eventuale. Al loro posto, il tempo è scandito dalle Cattedrali (bella la descrizione di quella di Burgos e le leggende che aleggiano nei pressi di quella di Leòn) e la socialità da bar, osterie ed ostelli. Non ci sono mediazioni per chi sceglie il Cammino. E’ un atto estremo e senza appello che incatena senza possibilità di fuga, rende schiavi di un progetto mobile e sempre nuovo, in cui tutto scorre con modalità identiche da secoli. Fino alla redenzione finale di Santiago. Quella che confonde tutto o schiarisce tutto.

Di questa pellicola ingiallita, Russo rappresenta lo schermo, il telo bianco che riceve le immagini e le proietta come il cervello fa con il sogno. E se un vizio c’è – e c’è – è la sfuggevolezza delle descrizioni, la velocità del viaggio. ma forse non è colpa dell’autore. Forse, semplicemente, è colpa dei giorni, del tempo che non si cristallizza adattandosi alle esigenze voluttuose di lettori taccagni di evocazioni. O, probabilmente, è un tiro birichino di Russo, pescatore sapiente che getta l’esca e lascia a noi pesce il gusto di approfondirne in sapore. Chiama Russo. Ci chiama a mollar tutto ed a partire. Ed a farlo non per un motivo, non per ascetismi o vani filosofeggiamenti. Solo, per il gusto di farlo. Per il cammino che è lì.

Natalino Russo, “Nel mezzo del Cammino di Santiago. In bicicletta verso Compostella tra viandanti e pellegrini”, Ediciclo 2010
Giudizio: 3.5 / 5 – Frullante

Diaz, dieci anni e la morte dentro

Ringraziamo Mark Covell per questo scritto che lui stesso ha tenuto a mandarci. Lo ringraziamo perché nelle sue parole, acutizzate da un senso di intimità con i suoi spazi, le sue emozioni, i suoi dolori, aiuta un pò di più a schiarire le zone d’ombre di una storia che, ancora oggi, resta politicamente e militarmente oscura, senza esecutori, né mandanti. Infatti, mentre Amnesty international, a poche settimane dall’accaduto, paragonava “i fatti di Genova” di 10 anni fa alla peggiore sospensioni dei diritti umani mai accaduta in Occidente nel Dopoguerra (non a caso immagini e video illustrano un amalgama di connessioni, connivenze, complotti e premeditazione, il tutto impastato con il sangue raggrumato di ragazze e ragazzi, ma anche di giornalisti, scout, pacifisti, preti, adulti, fotografi, anziani…), in Italia già ci si affrettava a solidarizzare con i difensori dell’ordine, garanti della democrazia e delle istituzioni. Quel che è accaduta a Genova lo raccontano le sensazioni di chi c’è stato, le loro vite distrutte, le loro testimonianze. Grazie Mark (p.f)

NON so cosa mi sia accaduto realmente, alla Diaz, dieci anni fa. Quel che so è che il mondo attorno, d’un tratto, è collassato. L’ho perso. Ed oggi, è come se quell’eclissi non fosse mai finita. Non sarò più capace di danzare, non sarò più capace di essere felice, non sarò più capace di amare, non sarò più capace di sorridere. Il mio mondo è dolore e lacrime. Il mio mondo è la solitudine. Il mio mondo è una torre nera in un mare buio. La vita è scappata via dal mio corpo. E’ questa l’esistenza che voglio continuare a portare avanti? Isolamento. Dolore, più profondo e più forte che mai. Perché non posso semplicemente continuare? Perché non riesco più a rimanere fermo nel centro di una strada? Vorrei fare questa sosta. Vorrei fermarmi. Vorrei fermare quest’incubo. E mi sento isolato.

Solo in un mare di sofferenza, solo con le mie urla. E quasi mi lacera. A nessuno importa e io sono impaurito dalla gente. Non mi faccio più vedere da nessuno. Vorrei nascondermi lontano. E se mi chiedessero cosa sto facendo? Cosa dovrei rispondere? Non ho più le parole. Solo urla. La mia casa non è più casa. Che cosa posso farci se sono spaventato anche dai miei stessi amici? Non oso lasciare la mia stanza. Il rischio di incontrare qualcuno è troppo alto. Sono solo e non sarò mai più felice. Qualcuno ha assunto il pieno controllo di me. Un fantasma cupo mi segue. E’ sui miei passi, mi getta in terra. Può succedere in ogni momento. da un momento all’altro posso perderlo di vista e ritrovarmi a mangiar polvere sul pavimento. Non so che sta succedendo fuori. Che succede fuori? Io resto a letto. Come potrei fare altro?

Più nulla ha senso. Piango. Piango come non ho mai pianto prima. Qualcosa spinge il mio stomaco fuori dal mio corpo. Sono malato? Non sono più me stesso. Non sono nessuno e sono tutto. Sono ogni prigioniero. Sono tutti i picchiati dalla polizia. Sono tutti i torturati. E’ una sensazione inarrestabile, che monta. Settimana dopo settimana. Mese dopo mese. Anno dopo anno. Mi vergogno. Non voglio apparire debole. Non voglio ammettere quello che ci hanno fatto ha avuto un tale impatto su di me. Sono un uomo forte. Ma adesso non sono nessuno. E nessuno può vedermi così.

Mark Covell, London [44 anni, giornalista di Indymedia.Uk, pacifista ed ambientalista. Era nella Diaz al momento dell’irruzione della Polizia, nel mezzo del massacro. A calci e manganellate gli fracassarono le costole, i polmoni, i denti. Stette in coma per quattordici ore, in bilico fra la vita e la morte. Pure essendo a genova essenzialmente per raccontare quei giorni di grande democrazia, fu arrestato per terrorismo. E’ una delle figure chiave nel processo contro i poliziotti artefici dell’irruzione nella scuola genovese. Più volte ha ricevuto minacce di morte. Lui stesso racconta che, durante il processo più d’un “tutore dell’ordine” gli ha intimato il silenzio passandosi una mano sulla gola a mò di ghigliottina]

Editoriale Stato Quotidiano

Piazza Padre Pio, piazza alcoolica, tappeto di bottiglie

Rotola... (ph: Piero Ferrante)

Foggia – IL CHIOSCO che vende birre e superalcolici in tempo estivo, la domenica, è chiuso. Sconta i bagordi del solito sabato all’insegna dell’ebbrezza alcolica. Quel che resta dei giardinetti di Piazza Padre Pio, come ogni dannata domenica mattina, è un tappeto di inciviltà, aggravato da una calura che spaesa. La notte, rombano le moto fino all’alba. Il loro ritrovo è qui, in questo largo spazio che si apre fra stradoni e palazzoni. La vita notturna incomincia molto tardi, non prima di mezzanotte. La birra scorre a fiumi e le urla sono il minimo che ci si possa aspettare. Qualcuno pretende di vederne il gusto della libertà, il sapore della democrazia, il frutto del proibito sbocciato nel cemento. I residenti non hanno lo stesso point of view. Qualcuno ha confermato a Stato di essere pronto a presentare degli esposti in Procura. “Il tempo di rimpinguare l’archivio delle foto”.

“MEGAFONO CARTACEO” – In effetti, basterebbero le immagini del mattino per lasciar dedurre quel che accade a notte fonda. Il chiosco ha tentato di far la voce grossa con un amplificatore modesto: un cartello bianco con su scritto a pennarello “Si prega di utilizzare gli appositi contenitori”. Già con il sole il picco, a mattina inoltrata, coperto com’è dall’ombra e dalle fronte, facciamo fatica ad identificarlo. Lo troviamo perché ce lo hanno segnalato. Altrimenti, farci caso è impossibile. Figurarsi con i fumi della sbornia e la voglia di sfasciare il mondo a suon di Keglevich e Jack Daniels. C’è chi pensa sia un passo avanti. Ma c’è chi proprio a voltare occhi e naso altrove non ce la fa.

Quando si dice uno spazio accogliente... (PF, St)

BIMBETTI – La zona è sommersa da centinaia di bottiglie. Verde, arancio, marrone, avorio. Plastica e vetro, indifferenziatamente. E’ rischioso camminarci con scarpe aperte. Molte bottiglie, scaraventate in aria, sono planate in terra sottoforma di frammenti. Eppure qualche indomito ragazzino ha il coraggio di giocarci a pallone. Due bimbetti, uno con la maglietta del Milan ed uno a torso nudo, usano le bottiglie come pali delle rispettive porte. Ma l’audacia è di pochi. Per questo, per la maggior parte, resta tutto com’è. I capannelli domenicali degli anziani in bicicletta che discutono di politica e giocano a tressette sono sempre più rari. Giugno, luglio ed agosto sono date off limits, meglio rimanere in casa.

DIVANO IN FIAMME – Nei pressi di un cassonetto, qualcuno ha addirittura tentato di incenerire un divano. Uno dei braccioli, quello di destra, è arso, un buco nero scavato dal calore delle fiamme. Una delle poltrone in pandane è riposta giusto nel centro della più fiorita delle aiuole. Non è opera di barbone, ma congettura di mente annebbiata. A pochi metri, una coppia di ragazzi prova a leggere una rivista. Lui si guarda in giro: la loro panchina è come le altre, un fortino circondato da un muro di cristalli.

Marcellino tanto vino (Pf, St)

MARCELLINO W IL VINO – I sentieri in pietra grigia, qualcuno in salita, altri pianeggianti, sono cosparsi di ricordi notturni. Nell’aria, l’appiccicaticcio odore di cicche spente e alcolico scadente. Ci sono chiazze di vomito negli angoli appartati, cartacce e sigarette spente che nuotano come corpi inermi nella tonda fontana color del fango. E’ incoronata di buste ed altre bottiglie. Sono a gruppi di venti, di trenta, l’avvolgono come uno scialle. Eserciti adesso brillanti che per tutta la notte si sono insinuati nelle campane verdi e poi nei cassonetti del conferimento della plastica, nei pertugi delle fognature sottostanti i marciapiedi, nei cartoni abbandonati. Tre bottiglie trasparenti sono ai piedi di uno dei bambini oranti del monumento dedicato al frate di Pietralcina e regalano un quadretto insolito, ghignante e leggermente blasfemo. L’apparenza è di un Marcellino (poco) pane e tantissimo vino che rende grazie all’Onnipotente per il dono della fermentazione alcoolica.

“INCENERIAMO LORO” – Per testare lo stato d’animo, proviamo a tendere l’orecchio ai discorsi dei passanti più indignati, con la scusa di prendere nota di altro. Le vecchiette ancora calde della benedizione incolpano i giovani, le coppie maledicono i commercianti, i ciclisti si fermano, accostano e scattano foto con il cellulare polemizzando a distanza con l’ordinanza comunale appena confermata (entra in circolo sociale ad ogni momento festivo, l’ultima volta durante le vacanze natalizie) che consente ai locali pubblici di tener su la serranda fino alle tre, e poi arriva quello con la soluzione pronta circa l’incenerimento dei teppisti per evitare quello della spazzatura che tanto è uguale. Lo sentisse la Marcegaglia, forse il progettino lo tirerebbe anche giù in un paio di mesi.

Facilos los spagnolos

Foggia, giugno 2011

Fedele alla linea


(recensione Vasile Ernu, “Nato in Urss”, Hacca 2010)
“E’ un paese che non può lasciarti indifferente, qualsiasi rapporto tu abbia avuto con lui, che lo ami o che lo odi”. L’Unione Sovietica ammirata attraverso gli occhi del filosofo e scrittore rumeno Vasile Ernu è racchiusa in questa citazione che apre “Nato in Urss”, diario di bordo attraverso un mondo che non c’è più, editato dalla casa editrice Hacca a novembre dell’anno passato.

Immaginate di calpestare selciati scomparsi, percorrere strade inghiottite dal tempo tenendo per mano soltanto la corporeità di un ricordo. Immaginate di rivivere, goccia a goccia, le sensazioni infantili, sforzandovi di assumere le pose di allora, di leggere con le emozioni di bambino ed il linguaggio da adulto. Immaginate il mondo spaccato in due. Questo è l’assioma di Ernu. Non giudizievole e risolutivo, solo descrittivo. Perché, con un tono da comunista mai pentito, gli spetta parlare inevitabilmente di quel mondo fermatosi d’improvviso non all’impatto contro un muro, ma di fronte al suo crollo; dell’Atlantide dell’ideologia che è stata la terra del Soviet, la grande repubblica delle repubbliche socialiste, la terra della speranza alternativa, “il più grande progetto politico-utopico della modernità”.

Ernu non è uno storico, non ne maneggia gli strumenti. Per questo “Nato in Urss” non è altro che una strampalata, sentimentale, ironica accozzaglia di soggetti ed elementi, di eroi e paesaggi. E’ comparabile ad una bancarella di cianfrusaglie, di quelle polacche, strabordante di cimeli, gonfia di Zorki dalla vita infinita, cipolle da tasca con l’effige di Lenin, bottoni artefatti dei cappotti dell’Armata Rossa. Patacconi tanto goffi da finire per essere ricoperti da una patina di poetica dignità che li assurge al rango di ricordi. Il materiale che espone Ernu è quello d’uso comune, proletario e non. Alcool, sesso, barzellette, case, letteratura, giochi. Persino la tualet sovietica trova parole per essere attualizzata e spiegata agli occhi pochi fantasiosi dell’Occidente capitalista, diventando il locus privilegiato dell’artista alla ricerca dell’intimità nel caos della komunalka.

Ogni tema è un racconto (in tutto 53), ogni racconto un contenitore, ogni contenitore un viaggio. Ernu, nel suo approccio scanzonato, pure rende la quotidianità della Rivoluzione bolscevica un cammino epico e trionfale. Quando la cucina era luogo di socialità, Lenin un compagno di tutti, il bere l’essenza stessa del comunismo (“Costruire il comunismo senza alcool è come fare il capitalismo senza pubblicità”), ed anche nell’atto supremo di una cacca occorreva assumere “la posa dell’aquila”. In questo sforzo letterario insolito e sfizioso, il filosofo rumeno riesce a donare una nuova immagine all’Urss. Nei suoi spruzzi giocosi e fieri di quotidianità, il Gigante dai piedi di ferro non è soltanto il mentore della pianificazione quinquennale, dell’industrializzazione forzata, della corsa all’armamento, ma la casa comune di un popolo orgoglioso e creativo, dedito alla causa del Partito ma ancora capace di darci dentro con i lampi di genio.

Quel che ne risulta è l’agiografia di un Santo rosso e potente, capace di miracoli laici e produttivi e di scatti d’impeto. E come in ogni agiografia, quel che conta è lo stile accattivante, il guinzaglio retorico, l’affabulazione golosa, che Ernu maneggia in pieno. “Leggete, invidiate, sono cittadino dell’Unione Sovietica”

Vasile Ernu, “Nato in Urss”, Hacca 2010
Giudizio: 3.5 / 5 – Dorogoi Tovarišči!

Radio Padania e i deputati meridionali


(Profilo fb Radio padania)

Ci hanno abituato alle levate di scudi in difesa delle idee del grande capo. Ci hanno abituati a ruttare insulti contro rom e campi nomadi. Hanno tentato ci convincerci di esser diventati bravi con la giacca e la cravatta di ordinanza, in veste di Ministri della Repubblica(z). Hanno provato a fare anche qualche discorso sensato. Ci hanno voluto far poi credere che sì, non c’è nulla di meglio di un ministero dislocato presso Villa Reale a Monza per tradurre un Politbjuro qualunquista in un progetto politico.

E ci hanno abituati a Radio Padania, alle sue trasmissioni infamanti, alla base che fa opinione o che intende dettare la linea. Ci hanno assopiti in un sogno di bambagia democratica. Per fortuna, di tanto in tanti, il rumore ci sveglia. O, almeno, si spera…