Pov, la vita è questione di punti di vista

Roberto Galano, regista di Pov

Foggia – CI sono i punti di vista e, poi, ci sono i points of view. Ci sono le idee, il confronto, il confronto, lo scambio, la battuta. Prendendo indegnamente a prestito uno stralcio di titolazione calviniana: ci sono i destini incrociati. Ci sono le trecce di corpi e parole, ci sono gli impasti mollicci di esperienze. Alla fine di tutto questo, dove il buio divora la luce, dove la luce diventa artificiale, dove l’artificio è un freddo neon, c’è “POV. Point of view”. La rappresentazione dello spettacolo tratto da “Ambarabà” di Giuseppe Culicchia ha fatto da titoli di coda alla stagione “Giallocoraggioso 2010-2011” del Teatro dei Limoni di Foggia. Diretto da Roberto Galano, che dei Limoni è il Direttore Artistico, Pov ha portato in scena 14 attori, tutti provenienti dal Laboratorio Sperimentale Indipendente di Via Giardino.

Ed ognuno degli attori è rappresentazione di una vita. A volte interrotta nel suo cammino da ostacoli umilianti, altre volte ironicamente sfortunata, altre volte ancora afflitta da dolori lancinanti per la mole di spine conficcate nei polpastrelli dei un equilibrio impossibile. Sono causa ed effetto del loro dolore. Spesso nel dolore cercano la riscossa, indirizzandosi verso quel barlume che sembra vicino, in fondo al tunnel. Tentano di toccarlo, anelano a giungervi, si impegnano nell’affannosa rincorsa. Le loro paranoie grossolane, i loro connotati strapompati da tic e conformismi, le perversioni volgari e sadomaso di chi cerca rivincita al dolore in altro dolore, l’ego ipertrofico e quello ipodimensionato, la morte, la vita e le umiliazioni. Sfogliare l’umanità di POV significa prendere confidenza con tutto un campionario di antropologie sfasciate. L’imbonitore finanziario con la fissa del vendere, l’immigrato clandestino, il figlio permanente, il nazista cuore di mammà, la frequentatrice di rave, il play boy consumato (nel senso di corroso), la puerpera, l’allusiva lavapantaloni, il barbone indignato, l’antropofobica, la commessa frustrata, il camionista pervertito ma non troppo, la lesbo sadomaso, il rapinatore pasticcione. Quattordici vite e chissà quanti anni, quanti giorni, quanti secondi. Chissà quanta voglia di cambiare, di dare una svolta; di riaddrizzare quella torre scrostata, umida, fetente, che è l’esistenza.

Le loro voci si modulano sull’isteria e sulla pacatezza. E’ in quel fiato che pizzica le corde vocali che si legge tutta la devastazione di mondi franati, di vite estreme. Tutte diverse, tutte in apparenza infondibili ed inconfondibili. Tutte originali soltanto alla superficie, ed invece così maledettamente combinabili. La domanda, la metropolitana; la risposta l’arrivo del treno; la soluzione della socialità sempre ad un passo che si scioglie invece in maledizioni ed allontanamenti. Ed ogni storia, raccontata sempre come fosse la prima, intervallata sempre dalla stessa scena rapida e frenetica della perdita del convoglio, scandita sempre e comunque dallo stesso ardente desiderio di fuggire, di andar via, è un pugno in piene parti basse. E’ come svegliarsi alla mattina presto dopo una lunga dormita e buttar giù nello stomaco un alcolico di pessima qualità. Quelle esistenze non sono che i rutti acidi tuonati da una vita infausta. Il cui racconto diverte e stordisce.

Pov è martellante. Ti scuote come una tequila. Talmente pulp da creare ansia. Un ansia che monta nella gola sottoforma di groppo, disobbedendo al cervello che non riesce ad interpretare razionalmente quei movimenti ora lenti, ora rapidi. Scende nelle braccia, s’accomoda nelle gambe, invade le anche e risale per annettere il petto, pulsa contro la gabbia toracica come un ariete sempre in procinto di vincere la resistenza del rivale in amore. Pov è sporco, indisciplinato, maledettamente malsano. Puzza di sudore e di sangue, di morte e di sperma, di bava e di sconfitta. Per entrare nei sensi, Pov non chiede il permesso. Spalanca le ante del cranio e dilaga senza pietà.

Il bazar dei sogni (recensione “Cose Perdute”, Giallocoraggioso 2009 – 2010)

Un gioco maledettamente serio e commovente, “Cose perdute”. E, in quanto gioco, non si lascia scappare neppure l’occasione per far ridere. Brillante. Non sono bastati tre anni di assenza dal palcoscenico a rendere desueto uno dei cavalli di battaglia del Teatro dei Limoni. Anzi così come si offre sulla pedana nera di Vico Giardino, impolverato, leggermente consunto, usurato, più sporco e meno imbellettato, spogliato del carosello roteante di musicisti, riacquista una dignità a sé stante. Già, perché l’attenzione torna e si focalizza sugli snodi essenziali del racconto: sulla grande favola dei ricordi che non ci sono più e che il tempo ha preso in ostaggio, sull’allegra malinconia dei due protagonisti Miguel e Cornelio, prima giovani, poi vecchi, prima speranzosi poi disillusi, infine rassegnati nelle lacrime dell’inevitabilità. Solo un trucco, una concessione fatta alla rappresentazione, in questa stagione. Quel trucco si chiama Nicola Rignanese. L’attore impersona l’esattore del tempo, personaggio spietato quanto implacabile. La sua parola è legge, le sue scherzose filastrocche non già occasioni di battimano fanciullesco, ma punizioni, pretese di pagamenti, riscossioni. E quel che lui riscuote non sono soldi, bensì, appunto, anni. Trenta, quaranta, decine ogni qualvolta i due non riescono a soddisfare i clienti, a richiamare dal passato nel presente gingilli e cimeli smarriti nelle nebbie del tempo. Il tutto nel rispetto di regole non scritte ma comunque fissate che uniscono e nello stesso mentre fanno cozzare tra loro gli interessi dell’esattore e le necessità basilari dei due venditori. La scena come un bazar. Un posto speciale, in cui una semplice bicicletta assolve al ruolo di tramite fra presente e passato. Un carosello di ciarpame dimenticato, relegato nel cantuccio della memoria. Non corrono i secondi al suo interno. Ed il tempo diviene eterea raffigurazione di qualcosa che, in realtà, non c’è. Solo un simbolo. Anzi, piuttosto un pericolo. Entrarvi è come dimenticare che fuori c’è un’altra realtà, una dimensione concreta in cui il ticchettio tiranneggia sulle vite delle persone ed incombe come spada di Damocle sul loro capo.

Gamma di razze nella razza umana, risme di povertà e ricchezze, di superbia, follia e civetteria. Ognuno di loro è un protagonista, ognuno di loro la chiave di volta, ognuno di loro repentaglio momentaneo le cui parole sono dettami e non solo cortesi ricerche nei gangli degli anni andati. Battute e sketch allentano la tensione ed aiutano a rendere scorrevole uno spettacolo in bilico tra la fiaba e il quasi dramma. Limes pericoloso giocato sapientemente. Perché i sentimenti che si avvicendano dandosi il cinque, allegria e paura, rivalsa e terrore, hanno loro momenti definiti nell’alveo di “Cose perdute”. Sino all’inevitabile conclusione, fino alla chiosa, all’epifania dell’essere del bazar. Fino alle lacrime.

Da leggere ascoltando: Freddie Mercury, Time

Published in: on 19 dicembre 2009 at 22.29  Comments (2)  
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Parole… Sante (recensione “Sante Pollastri” – Giallocoraggioso 2009 – 2010)

Come si racconta una storia attraverso le immagini, servendosi dei movimenti del corpo e senza lasciare che il fiato venga immortalato perennemente con il nero dell’inchiostro. “Sante Pollastri” è una produzione del Teatro del Cerchio di Parma e, in un parola, stupefa. Non tanto e non solo per l’interpretazione dell’attore e regista Mario Mascitelli. E neppure per l’avventurosa biografia di cui fa rivivere i momenti cruciali. Quanto più per la dovizia di trasformare le emozioni, i tormenti, le sofferenze di un’epopea vitale, in una pagina di storia. Un monologo sfumato, un gioco delle parti, articolazioni di pensieri e di punti di vista. C’è Sante il ciclista, c’è Sante il bandito, c’è Sante l’uomo, c’è Sante il tremante vecchietto che, a fascismo ultimato, non può far altro che mettersi a vendere pettini. Un confronto con sé stesso e con il pubblico che procede per rapidi flash, per immagini, per fotografie. Ecco che l’attore diventa un mimo parlante che non si spinge a dare giudizi, a prender posizione, ma si limita ai fatti. Piroetta da un lato all’altro, articola in una miscela di moto fisico e moto dell’anima, niente più che gli estratti di una vita. E come in un gioco, saltellando in una “campana” lunga poco meno di un’ora, casella per casella, rivivono sul palco le paure e gli stratagemmi di Sante Pollastri come perle incastonate nella quotidianità volontaria scelta a tredici anni. E poi c’è l’altra faccia, l’altro punto di vista. Quello tronfio e gloriosus di Giovanni Rizzo, commissario siciliano che di Sante Pollastri fece il cruccio della sua vita. Una sfida personale, l’autorità che tenta di imbrigliare la sua nemesi, il simbolo del suo rigetto, l’anarchia applicata alla vita. Ma anche nella benpensante Italia fascista, Sante è un eroe. La sua Novi Ligure, il vincolo con la quale non si tronca mai, lo apprezza, lo culla, lo custodisce. Forse non lo comprende, ma lo preserva dalle grinfie del potere. Malgrado questo il Rizzo che calca goffamente il palcoscenico, capelli tirati e sguardo da furbo, non assume i connotati del malvagio. Mascitello lo tramuta piuttosto nell’antieroe. Il perdente di una sfida che, man mano, con l’esperienza di Sante matura, diventa una partita a scacchi. Furbizia contro furbizia, uomini persi contro uomini persi. Serve far leva sulla debolezza del ciclista bandito: sull’ammirazione portata a livello apicale per Giradengo. La scena della cattura è l’apice del’intera rappresentazione. Il predatore stringe i suoi artigli sulla preda. Ed eccolo Sante comparire nudo con le sue debolezze. Nel carcere la tenacia non si soffoca solo per la consapevolezza che c’è sempre una via d’uscita. È il momento in cui entra in scena, forse unico caso, l’emozione. Il sentimento pervade il volto. Le luci trasversali, il fumo incupiscono l’atmosfera. Si ha l’impressione di non essere più di fronte allo spazio fisico, ma all’interno di un’anima. E quel fumo e quelle luci ne rappresentano i turbamenti ed insieme le speranze. Quelle di Sante di fuggire, quelle di Rizzo di colmare la distanza che lo separa dall’ultimo traguardo: Sante è stato arrestato in Francia, giudicato in Francia, incarcerato in Francia. Il supplizio, riassunto da Mascitelli nella persecuzione di una foto di Pollastri che il commissario porta con sé come un tormento, come una sottile pellicola di nastro adesivo sul cuore che non riesce ad andare via alonizzandone la piena felicità, come una spina, è quello di una vittoria dimezzata. Portare nelle patrie galere il pluriassassino, questa l’epifania della pienezza. Si prodiga, s’affanna s’impegna, ci riesce. Sempre con la sua sguaiatezza. Il brigante è in gabbia e vi esce soltanto con la domanda di grazia inoltrata da sua sorella. Ma la vita fuori, la libertà, questo inestricabile ed inafferrabile concetto, è dura, peggio delle sbarre. L’aria costa fatica, lavoro. “E io che so fare?”. Restano lui, vecchio, la sua solitudine ed una bicicletta: l’unico modo per ricominciare. Da zero.