Maurizio Crozza 16 – Ballarò 14 giugno 2011

Referendum, beni comuni e la sfida del vento


MA siamo realmente certi che tutti coloro i quali, oggi, festeggiano la vittoria referendaria, poi vogliano davvero la messa in pubblico dei beni comuni? Sono sicuri di quel che accadrà adesso? O che, perlomeno, potrebbe accadere? No, perché il dato, se lo dovessimo leggere così, nudo, crudo e spietato com’è, non lascia alcun tipo di appello ad arringhe liberiste. Il 57 e rotto per cento della popolazione residente in Italia – e per popolazione intendiamo non il Golem servilistico del capo di Arcore, bensì tutti quanti hanno avuto il coraggio di sfidare la cappa afosa della prima domenica d’estate per votare -, vuole tornare alla comunità.

Quando diciamo comunità, però, non diciamo internet e socialforum, creatività da accattonaggio simbolico notoria un quarto d’ora che poi si tramuta in letteratura da url e link. Bensì intendiamo il colore delle piazze spontanee, scese in strada malgrado l’improba sfida. L’oscurantismo ha perso. E, nel contempo, ha dimostrato che dei megafoni, che siano internettizzati o televisivi, si può fare a meno. A patto che, ovvio, alla base, sussista un’idea di fondo comune. Un’idea così radicale e radicata da spaventare ed insieme attrarre; un’idea così precisa e di parte da obbligare a prendere parte per questo o per quello. Questa è l’idea che ha sbancato, rotto con gli schemi del passato, coartato gli elettori a dire si o a dire no. Un’onda così grande da divenire tsunami. Tanto grande e potente da poter fare a meno dei villeggianti del fine settimana, della gioventù distratta, dei pidiellini riverenti, dei piddini nuclearisti, delle Roccella di turno, della narrazione di Vendola, dei congiuntivi di Di Pietro.

E’, quello votante, un popolo che ha deciso consapevolmente di fare a meno delle delegazioni dei governanti; che ha spazzato via la sussidiarietà anacronistica fra gente comune ed affaristi. Che ha compreso come il “bene in comune” (la definizione è di Alberto Lucarelli, insigne costituzionalista, redattore dei quesiti ed ora assessore della Giunta De Magistris a Napoli) sia molto più conveniente della “comunità di chi ha i beni”. Quindi, di quell’esigua minoranza di oncologi dai secondi fini e possidenti alla ricerca dell’affare del secolo.

Ecco perché, adesso, la vittoria del Si e del quorum necessita di un nuovo e più importante balzo in avanti. Ecco perché questo mitico risultato, destinato ad entrare nella Storia alla voce “grandi battaglie civili” – vinte, come l’interruzione di gravidanza e il divorzio – non deve essere gettato nell’orticaio del dimenticatoio. Richiede anzi un surplus di attenzione. Una vigilanza civile e politica. Il premier Silvio Berlusconi ha già annunciato, come un monito maldestro, il prossimo settore d’investimento dei padroni della terra. Ha già fatto intendere che la conquista del potere economico già passa per il vento e per la luce del sole. Berlusconi, appunto. Ma non solo. Molti di quelli che hanno sostenuto e combattuto per la pubblicizzazione del servizio idrico, per evitare che un bene pubblico remunerasse le casse del singolo o dell’impresa, alimentando una volta di più l’aziendalismo della Natura, sono fra i primi che guadagnano (eccome) con il business eolico. Che non si fanno scrupoli nel sottrarre, per pochi spicci, le terre alle piccole famiglie contadine, alle coltivazioni secolari ed alle nidificazioni storiche di volatili.

E sono i primi, per giunta, a negare l’impatto delle pale, ad invocare una deregulation che lasci i loro polsi svincolati per impiantare su terreni e siti archeologici, nel mare e sulle sponde dei fiumi, sui crinali e nel bel mezzo delle piane. Molti dei propugnatori, da decenni, scendono a patti con imprenditori concussi con le mafie locali, mortificatori del paesaggio e del vero bene comune: la terra.

Ed allora la proposta, quella che azzererebbe ogni dubbio, è una pubblicizzazione del vento come risorsa comune, attraverso la creazione di società a capitale pubblico che sottraggano al guadagno del singolo per dare alla comunità. Soprattutto, normativizzando l’installazione, regolamentando la diffusione micologica degli orrendi pali. Infine, creando opportunità di lavoro chiare e limpide, gestioni che escludano, a prescindere, la dubbia provenienza del capitale economico. La sfida del 2012 è questa dunque: evitare che pale e pannelli cessino di essere fonte sicura di riciclaggio, copertura morale di sistemi criminosi. E tornino nelle mani di tutti nell’unico modo utile e positivo: come beni in comune.

Stato Quotidiano, editoriale 14 giugno 2011