Il lavoro, utopia nella regione di Vendoloni

Bisaccia (AV) – Michele Acocella, Pasquale Lapenna e Gerardo Nesta non sono degli eroi. Non nel gergo comune. Lo sarebbero se si dovesse adottare il teorema di Caparezza ed il suo assioma di Luigi Delle Bicocche, l’operaio tramutato in eroe per non aver ceduto alle tentazioni del consumismo, per aver resistito alla ghigliottina dell’usura, per aver tirato avanti una famiglia negli stenti del Terzo Millennio.

I nomi di Acocella, Lapenna e Nesta sono da scalpellare insieme con tanti altri. Vittime di un sistema che pensa a batter cassa sulla pelle del lavoro. Fa sorridere amaramente che gli strumenti per l’operazione li adoperi, con metodica puntualità, proprio la Regione Puglia guidata da Nichi Vendola. Già, proprio Vendola. Quello che a Milano ha esultato per la caduta del berlusconismo e che ha annunciato la cavalcata della sinistra di governo verso la rotta di Palazzo Chigi. Quello stesso Vendola che, nelle frequenti comparsate televisive, ha sempre santificato l’aura del laburismo. Dalla sua bocca, in comizi affollati, sono uscite parole macabre per i licenziati cinquantenni: “Sentono odore di morte”.

Acocella, Lapenna e Nesta hanno le narici piene di quell’odore. Penetra il naso come un treno una galleria alpina. Valica il confine della giustizia. A volte umilia. Avere 50 anni, vivere in un paese di poco più di 4 mila anime ed essere senza il mestiere, l’unico che si conosce, il solo che si sa fare, non è facile. Per vent’anni loro, insieme con altre nove persone, hanno lavorato presso la Faver, azienda di servizi incaricata di svolgere lavori per conto dell’Acquedotto dell’Alta Irpinia. Che, di fatto, serve la parte della provincia avellinese a confine con la Capitanata, alcuni paesi della provincia di Foggia (tra cui Anzano, Rocchetta e Sant’Agata) e dipende proprio dall’Acquedotto Pugliese.

Contratto da metalmeccanici, nulla di esorbitante. Una vita del tutto normale garantita da un mestiere sporco e pericoloso, passato a contatto con il pericolo costante. D’un tratto lo stravolgimento. Nell’agosto del 2010, la Regione decide di internalizzare i servizi di conduzione, sorveglianza tecnica e pronto intervento dell’Acquedotto dell’Alta Irpinia. E lo fa in modo strano. Delle 12 risorse impiegate, infatti, tre si autoescludono, sei vengono inserite ed altre tre vengono tagliate fuori. Ufficialmente, la versione dell’Amministratore Delegato, Ivo Monteforte, parla di selezione. Ovvero, stando a quanto ammettono i troncati, una specie di test attitudinale. “Altro che selezione”, lamentano a Stato, “una buffonata”. Di più. L’ente della gestione idrica allude ad un miglioramento organizzativo della macchina dell’Acquedotto. In tal senso, il licenziamento delle tre figure, dovrebbe portare le casse dell’Ente strumentale a tirare un sospiro di sollievo. Il fatto è strano. Il computo del risparmio stimato dall’Aqp è nientemeno che nell’ordine dei 550 mila euro. Come dire, annualmente, ogni impiegato costa alla Regione all’incirca 165 mila euro in soldoni. Una cifra gonfiata ed esorbitante.

Ed allora, perché questa riduzione? E, soprattutto, in base a quali criteri (reali) è stato selezionato il personale? Secondo fonti dell’Acquedotto, i tre sarebbero risultati inidonei alla prova effettuata. Ma, secondo i licenziati, quella prova non era stata considerata come una prova. “Perché – si domandano – avremmo dovuto essere giudicati dopo vent’anni di lavoro sempre identico?” In effetti, le modalità di selezione lasciano aperto più d’un interrogativo sulla giustezza della pratica d’internalizzazione. Così, i tre decidono di muoversi. La Uil li sostiene attraverso un’avvocatura gratuita (la prima udienza a sant’Angelo dei Lombardi il 9 giugno). Con loro, in campo, scendono anche i sindaci di Teora e di Lioni. Nel settembre del 2010, la delegazione è ricevuta per ben due volte dall’Assessora al welfare Elena Gentile, da poco ri-titolare dello scranno assessorile levantino a seguito dell’insediamento del Vendola-bis. Li ascolta e dà ampie garanzie. Poi, scompare. E scompaiono tutti i protagonisti della vicenda. Attraverso Antonio Di Ninno, storico rappresentante della sinistra avellinese, determinante nell’elezione del giovane Nikita in Parlamento, tentano di raggiungere il Governatore. Che si nega. Ed anche l’Aqp si tira fuori costituendosi parte in causa nel processo contro i tre e, di fatto, scaricando le colpe sui provvedimenti regionali.

Uno stralcio delle motivazioni presentate dall’avvocato dell’Ente, recita appunto che “Aqp Spa […] non era in alcun modo vincolata ad assumere tutto il personale in forza alla predetta azienda appaltatrice”.

E, per avvalorare la tesi, quasi fosse una conferma, accusa Acocella, Lapenna e Nesta di non aver nessun fondamento giuridico per pretendere il posto di lavoro. Violentando la Costituzione in maniera fattuale e, soprattutto, la dignità di tre famiglie gettate in mezzo ad una strada all’intrasatta. Secondo i legali dell’Acquedotto, le loro pretese sarebbero state avanzate soltanto per mere motivazioni carattere politico. Ovvero, in quanto elettori (ed in qualche caso iscritti) dei partiti della coalizione del Presidente della Regione Puglia. Ma quelli che chiamano “incontri politici”, ovvero quelli avuti con l’Assessora Gentile, in effetti sono stati concordati. Addirittura, sostengono i tre licenziati a Stato, “in un’occasione è stata lei a convocarci per dirci che tutto si stava risolvendo per il meglio”. Prendendo per veritiera questa opinione, l’interesse politico sarebbe a tutto vantaggio della Gentile, piuttosto che all’inverso.

Ma nel magico mondo del lavoro vendoliano anche questo è possibile.

LINK: Stato Quotidiano, 31 maggio 2011