Sedici anni dopo il Foggia torna a Campo Tures…

Ai piedi dei ghiacciai dolomitici perenni, a pochi chilometri dal confine di stato che separa Italia ed Austria, l’atmosfera è quella dei bei tempi. Ora, più che mai, non più e non già andati. Perché, tanto per usare le parole del regista – zemanofilo incallito – Giuseppe Sansonna, i tifosi del Foggia hanno incominciato ad aspettare Zdenek Zeman sin dal giorno in cui, quindici anni fa, il boemo lasciò il Tavoliere, tanti ricordi, qualche rimpianto, ed una miriade di domeniche da Zaccheria sold out. La compagine rossonera, al lavoro nel fresco di Valdaora, ha ripercorso un’altra tappa della Zemanlandia che fu: Campo Tures. Nome suggestivo di ritiri estivi, richiami di serie A, del trio ricomposto Casillo – Zeman – Pavone. Mancano i nomi di grido, nel perfetto stile zemaniano. Mancano, nel campetto schiacciato tra le Alpi ed i boschi, sovrastato da amanti del parapendio ed immerso in olezzi bovini portati dalle intervallanze del vento, le chiassose boutade dei calciatori al telefonino, le resse dei tifosi locali a caccia di autografi e foto, i flash di curiosi e giornalisti. Ma nel giorno in cui i giovani rossoneri strapazzano i giovanissimi componenti della squadra dilettantistica locale dell’Ssv Taufers per cinque reti a zero, dalle tribune gli occhi sembrano essere tutti puntati verso la panchina e quella cariatide del calcio, colui che, primo fra tutti, nell’opinione generale, ha sfidato i poteri forti, scoperchiato il sistema corrotto del palazzo a scacchi bianco e nero, componente imprescindibile dell’urbanistica della tirannia moggiana. Zeman è tornato laddove tutti hanno continuato a vederlo per circa due decenni. Nell’immaginario collettivo dauno – e, a dire il vero, non solo – la panca del Foggia sta alla sua vita come una sedia in paglia sta ad una vecchia nonna dal passato contadino e dai ricordi sbiaditi della guerra e delle giovani Italiane. Tutti lo sanno. Alla stregua di come tutti avrebbero scommesso fiumi d’oro colato sul rinascere del primo vecchio amore. Le voci che risorgevano anno dopo anno, ancor più nei momenti di tribolazione per i tifosi rossoneri, erano panacea per lenire e depotenziare le patetiche promesse di Sensi e Coccimiglio, delle dichiarazioni entusiastiche di trainer sconosciuti ma sedicenti illustri che speravano, in fondo, di supplire Mister Simpatia nei cuori dei tifosi, inconsci che, alla fin fine, stavano semplicemente scaldandone il posto. Come lui, come il boemo dalle poche parole, nessuno è stato mai. Con la sola, proporzionatamente calcolata, eccezione di Pasquale Marino. Il calore di Campo Tures, laddove l’Alto Adige chiama sé stesso Sudtirol e parla quasi esclusivamente tedesco, è l’esplosione di gioia a lungo repressa di una tifoseria (parte emersa del sentimento della città intera) abituata a tramutare trasferte in esodi, a giocare in casa anche fuori dalle mura amiche. Anche in occasione di queste (tutto sommato) misere ed inconcludenti amichevoli estive, di supporters ce ne sono, di volta in volta, oltre un centinaio. Ovvio, con il traino immancabile di vezzi come di vizi, con il seguito di cori d’amore come di fumogeni in campo, di sfottò e di nuovi canti arrangiati sui pullmini. Birra (alcolica, cosa rara da queste parti dove, di domenica, nelle strutture sportive e nelle zone adiacenti se ne somministra solo di analcolica) e panini con i wurstel in luogo di lupini e caffè borghetti. E poi tutta una sommatoria antropologica di vecchi emigrati pugliesi unificati da un dialetto caduto in disuso rintanati sotto le tribune all’ombra come una lettera d’amore in una busta che attendeva soltanto di essere disseppellita dalle viscere del tempo e scartata con ansia. Veneti, trentini, lombardi, altoatesini. Tifosi lontani che esibiscono magliette d’antan con vecchi finanziatori e sponsor tecnici, alcuni con al collo sciarpette retrò dai roboanti proclami; chi a decantare che “Baiano e Signori erano n’ata cosa”, chi a suggerire a Peppino Pavone – che, nel dopopartita, gioca a pallone con i nipotini – acquisti di squadre locali per rintuzzare un organico in parte ancora carente di elementi. Il Foggia non è ancora la squadra che promette calcio e vittorie, i meccanismi hanno bisogno di essere oliati, gli schemi rodati, le strategie non sono state mandate giù come Zeman vorrebbe. L’allenatore guarda imperturbabile e studia. Ma il tempo a disposizione prima dell’inizio della regoular season della Lega Pro consente di andare abbastanza per il sottile. Vero è che sentire lo speaker recitare i nomi di Gomis – Candrina – Iozzia, non dà le stesse sensazioni dell’udire il boato sul trio Mancini – Codispoti – Grandini; e che Laribi, Kolawone Agodirin e Regini non valgono Rambaudi, Baiano e Signori. Ma nessuno, dagli spalti, ancora si lancia in dissertazioni sulla disposizione in campo di giocatori che, fino a qualche giorno fa, ignoravano l’esistenza l’un dell’altro. Quando tornerà a prender caramelle dalla tribuna, Zeman avrà la stessa accoglienza con cui era stato salutato sedici anni fa.